Dinamo Zagabria – Stella Rossa: antipasto indigesto della guerra jugoslava

di Lorenzo Degrassi

A Parigi episodi di antisemitismo. In Polonia e Russia è spesso caccia all’uomo. E, in Brasile, oltre 300 morti in 25 anni…

Il Brasile è uno dei Paesi calcisticamente più violenti

Il Brasile è uno dei Paesi calcisticamente più violenti

Anche la Francia, nel suo passato, ha fatto i conti con una strage in uno stadio: accadde nel 1992 a Bastia, Corsica, durante una partita di Coppa di Francia. A causa del cedimento delle gradinate metalliche provvisorie, montate per l’occasione al fine di contenere il surplus di spettatori, vi fu la morte di 18 persone e il ferimento di altre 300. Anche in questo caso, però, più che la violenza riuscì la scelleratezza dell’essere umano, che consentì l’installazione di impalcature alla bell’e meglio senza la necessaria oculatezza.
Per quanto riguarda le violenze vere e proprie, invece, va sottolineato che, nonostante le metropoli francesi siano diventate, negli ultimi anni, focolai di dissapori fra le etnie che popolano le periferie e la polizia, che rappresenta il potere statale al quale ribellarsi, nel calcio gli episodi di violenza non sono così frequenti come in altre parti d’Europa.
Da segnalare, ad ogni modo, sporadici casi di tafferugli da collegarsi, in parte, a posizioni politiche molto radicali degli ultras di alcune squadre, oppure a spinte secessioniste, come il caso dei tifosi del Bastia. Emblematici, al riguardo, gli scontri accaduti nel novembre scorso a Nizza: i Corsi, vittoriosi “nel continente”, consegnarono la bandiera degli indipendentisti al capitano della squadra affinché la sventolasse in mezzo al campo. Da questo episodio scaturì una bagarre che vide coinvolti giocatori e staff delle due squadre, seguiti, poco dopo, dai tifosi sugli spalti. Un episodio del genere era già accaduto sempre a Nizza nel 2002.
Di tutt’altro tenore, purtroppo, gli scontri scoppiati nel 2006 a Parigi al termine del match di Coppa dei Campioni Paris Saint Germain-Hapoel Tel Aviv: un tifoso israeliano fu oggetto di pesanti attacchi da parte di un gruppetto appartenente ai Boulogne Boys che lo bersagliò di epiteti poco simpatici dovuti alla sua origine ebraica. Un poliziotto, nel tentativo di difenderlo, aprì il fuoco e, per errore, uccise un ultras del gruppo parigino. Da quel momento, anche il Governo francese emise una serie di norme volte a diminuire i casi di violenza negli stadi.
Gli scontri avvenuti al termine di Nizza-Bastia del novembre scorso avvennero pochi giorni dopo un altro caso simile, dal quale i Corsi presero, con ogni probabilità, spunto: la partita valevole per le qualificazioni ai campionati europei del 2016 Serbia-Albania. Un drone al quale era attaccata una bandiera della Grande Albania planò sul terreno di gioco costringendo l’arbitro a sospendere la partita. Ne seguì un putiferio all’interno e all’esterno dello stadio. I Paesi balcanici, però, non sono affatto nuovi a questo tipo di tensioni, anzi. La tradizione vuole che sugli spalti dello stadio Maksimir di Zagabria si scatenassero i prodromi della guerra di secessione balcanica. Il 23 maggio 1990 si affrontarono Dinamo Zagabria e Stella Rossa Belgrado.
Il clima era pesante perché, notoriamente, fra le due squadre vigeva una forte rivalità. A quella sportiva, però, negli ultimi mesi si era sommata anche quella nazionalistica. Così, prima dell’inizio della partita scoppiarono dei tafferugli sugli spalti ai quali seguirono ulteriori intemperanze sul terreno di gioco. Anche alcuni giocatori, fra i quali Zvonimir Boban, poi calciatore del Milan e attuale commentatore di Sky, presero parte ai tafferugli.
Per il fatto di aver colpito un poliziotto della milica che stava prendendo a manganellate un tifoso della Dinamo, Zvone divenne una sorta di eroe nazionale. Ancora oggi, davanti allo stadio di Zagabria, c’è una statua che raffigura un gruppo di soldati e un epigrafe: “Ai tifosi della Dinamo Zagabria, che iniziarono la guerra contro la Serbia su questo campo il 13/05/1990.”
Gli stessi ultras della Stella Rossa Belgrado, i Delje, considerati tuttora fra i più pericolosi d’Europa, all’inizio degli anni ’90 facevano parte del gruppo paramilitare di Zeljko Raznatovic, meglio conosciuto come Arkan, le cui “tigri” furono omaggiate dalla curva degli Irriducibili della Lazio nel 2000. Furono protagonisti di atti fra i più sanguinari della guerra.
Entrambe le realtà sono l’espressione più emblematica di quello che può essere considerato l’estremo derivazionale dovuto alla simbiosi fra tifo, politica e identità nazionale.
Caratteristiche analoghe sono presenti anche in realtà quali Russia e Polonia, Paesi nei quali ha giocato un ruolo forte la caduta delle rispettive dittature comuniste. Quasi per una sorta di reazione spontanea a decenni di privazione delle libertà di espressione e di ribellione al sistema, agli inizi degli anni ’90 nacquero i primi gruppi ultras. Fra questi, due si distinsero da subito come fazioni fra le più aggressive d’Europa: i Gladiators dello Spartak Mosca e gli Ultras del CSKA Mosca, seconda squadra della capitale e riconducibile all’ex Armata Rossa. I più violenti sono, però, i gruppi organizzati dello Zenit San Pietroburgo, come il Landscrona. Nel 2007, alcuni suoi membri accoltellarono un giocatore della loro stessa squadra, reo di essere originario della Tanzania e nel 2009 chiesero ufficialmente al club di impedire l’ingresso delle donne allo stadio. Nel dicembre 2012, poi, sempre il Landscrona pubblicò sul proprio sito un comunicato, il Selection 12 Manifesto, attraverso il quale si opponeva una volta per tutte alla presenza di giocatori di colore o a minoranze sessuali nel nome della purezza della razza.
Una deriva razzista si ritrova anche in Israele, dove i tifosi del Beitar Gerusalemme, La Familia, si oppongono con violenza al tesseramento di calciatori arabi.
Il fenomeno degli hooligans nell’Europa orientale, che nel 2010 ha portato all’uccisione di un tifoso dello Spartak Mosca (del gruppo Fratria) e ai conseguenti disordini davanti al Cremlino, è ben spiegato nel film Okolofutbola (A proposito di football).
In Polonia, particolarmente caldo è il «clasico» Legia Varsavia-Wisla Cracovia, ma questo non è il solo momento nel quale gli ultras polacchi hanno modo di dimostrare le loro “performance”.
Anche per loro sono ghiotte le occasioni di incontri di respiro internazionale. Basti pensare agli incidenti occorsi l’anno scorso in occasione di Lazio–Legia, ai quali hanno fatto poi da contraltare gli scontri avvenuti nella partita di ritorno nella capitale polacca.
Di derby stracittadini l’Europa è piena. Di certo, però, è difficile trovarne uno più “caldo” di quello di Istanbul Galatasaray-Fenerbahce. In questa sfida si mescolano, oltre ai dissapori prettamente sportivi, anche motivazioni sociali (insieme alla terza squadra della città, il Besiktas, le due società rappresentano ognuna una componente diversa della città) e geopolitiche, scontrandosi, infatti, la sponda europea con quella asiatica della metropoli. Questi dissapori non vengono messi da parte nemmeno quando gioca la Nazionale, fattore che, solitamente, funge da freno inibitore per eventuali frizioni fra ultras. Nel novembre scorso, infatti, un episodio al limite del grottesco quasi impedì il regolare inizio dell’incontro Turchia-Kazakistan. Durante il riscaldamento prepartita, alcuni tifosi “di casa” insultarono pesantemente il portiere della propria Nazionale, Volkan Demirel, colpevole di essere, allo stesso tempo, l’estremo difensore del Fenerbahce. Demirel si rifiutò di scendere in campo. Gli ultras non lo perdonarono e lo attesero fuori dallo stadio. A fine partita, assalirono la sua macchina e lo costrinsero a fuggire scortato. Una caratteristica lega due Paesi davvero agli antipodi, la Germania e la Grecia: anche nel Paese ellenico, come in quello teutonico, la violenza negli stadi sta assumendo proporzioni sempre più preoccupanti. L’odio più forte si riscontra fra le tifoserie di Aek, Panathinaikos, Paok e Olympiakos, le squadre dal seguito più ampio. Gli scontri fra tifosi provocano ogni anno centinaia di feriti, tanto che il Governo Tsipras, da poco insediatosi alla guida del Paese, il 24 febbraio scorso ha deciso di sospendere il campionato. Gli episodi che hanno fatto traboccare il vaso colmo di pazienza sono stati gli scontri avvenuti in occasione del derby Panathinaikos-Olympiakos e della partita Larissa-Olympiakos Volou. Il campionato è poi ripreso dopo due settimane di stop, ma con la disputa degli incontri a porte chiuse e l’impegno delle società ad adempiere ad una serie di iniziative volte ad assicurare l’incolumità degli spettatori.
Sull’altra sponda del Mediterraneo, in Egitto, negli ultimi anni c’è stata una funesta escalation di tragedie legate al mondo del calcio. Soltanto pochi anni fa, nel 2012, a Port Said, fra le tifoserie della squadra locale dell’El Ahly e gli sfidanti del El Masry si sono avute ben 73 vittime e più di 1.000 feriti, anche se non sono mai state divulgate le cifre esatte. La violenza è dovuta principalmente alle rivalità favorite dallo scarso polso delle forze dell’ordine del dopo Mubarak. Motivi analoghi hanno causato un focolaio di violenza degenerato in un’altra carneficina l’8 febbraio scorso al Cairo, quando 25 persone sono decedute durante l’incontro Zamalek-Enppi. Molti sostenitori volevano entrare allo stadio senza biglietto. La polizia ha deciso di intervenire lanciando gas lacrimogeni scatenando, così, il caos.
Spostandoci nuovamente ad Ovest, nuovi episodi di violenza si sono riproposti in Spagna. In questo Paese, la pur innata passione per il calcio non è mai trascesa in maniera considerevole, ne-anche nel passato. In calo fin dagli anni ’90, singoli eventi contraddistinguono saltuariamente i derby di Madrid e, in misura minore, quelli di Siviglia. Anche qui la componente regionalistica e, in certi casi, indipendentista gioca un ruolo preponderante nel comportamento delle tifoserie. È il caso dell’Athletic Bilbao, i cui irriducibili sostenitori non tollerano il tesseramento di giocatori stranieri. I giocatori devono appartenere esclusivamente alla regione autonomista basca o, tutt’al più, francese. Altra tifoseria che pone l’indipendenza dalla Spagna quale mission è quella dei Noixos Boys del Barcellona. Nel 2003, questo gruppo ultrà fu addirittura allontanato dallo stadio del capoluogo catalano. I supporter che hanno fatto tornare d’attualità il dibattito sulla violenza nel Paese iberico sono quelli dell’Atletico Madrid. Ad iniziare dal 2007, il Frente Atletico si è reso partecipe di una serie di scontri con le tifoserie avversarie culminata nel dicembre scorso con l’aggressione ad alcuni tifosi galiziani del Deportivo La Coruña. I tafferugli hanno causato la morte di un sostenitore biancoblu.
In Spagna la situazione è molto migliorata negli ultimi vent’anni, pur non essendoci mai stato un vero e proprio allarme ultrà. In altre Nazioni dalla cultura affine, non solo calcistica, il problema della violenza negli stadi è difficile da estirpare. Stiamo parlando del Sudamerica, dove non passa settimana in cui non ci scappino dei feriti prima o dopo un match. Quale premessa di questo fenomeno, giova ricordare che, proprio in Sudamerica, per la precisione in Perù, avvenne la più grande tragedia nella storia del calcio. Era il 1964 e all’Estadio Nacional di Lima si giocava la sentita partita di qualificazione per le Olimpiadi di Tokyo Perù-Argentina. Al 38’ del secondo tempo, l’arbitro dell’incontro prima convalidò e, dopo le veementi proteste dei calciatori argentini, ritornò sulla propria decisione ed annullò la rete del pareggio. Questa scelta scatenò il putiferio sugli spalti, provocando una serie di reazioni a catena che portarono ad una vera e propria guerriglia nel quartiere attorno allo stadio dai risvolti quasi apocalittici. Alla fine della battaglia i morti furono 312 o 328. Anche in questo caso, il dato ufficiale non venne mai divulgato.
Con il passare degli anni, anche nel Nuovo mondo la situazione è migliorata: stadi dalle capienze ridotte, infrastrutture più moderne e una maggiore emancipazione del tifo hanno fatto sì che episodi estremamente funesti come quello del 1964 non avessero più a ripetersi. Rimane il fatto, però, che Paesi quali Argentina e Brasile sono i più pericolosi del mondo latinoamericano. Va anche rimarcato come lo stesso problema vada osservato capovolgendolo, essendo il tessuto urbano di parte di questi Paesi decisamente più pericoloso di qualsiasi periferia europea. In Argentina, nel 2014, si sono registrati ben 16 morti negli scontri fra tifoserie, e il 2015 non è iniziato meglio: è notizia del 16 marzo scorso che un tifoso del San Lorenzo (la squadra di cui è tifoso Papa Francesco) è morto precipitando per 50 metri da una tribuna.
Le cose vanno ancora peggio in Brasile. Soltanto nello scorso campionato le vittime collegate alla violenza negli stadi sono state ben 30. Sono così salite a 324 le morti negli ultimi 25 anni, contribuendo a rendere il campionato brasiliano il più violento al mondo. La violenza non è diminuita nemmeno con l’attivazione di misure di sicurezza più severe, quali nuove norme di sicurezza e il divieto di consumo di alcolici all’interno degli stadi.

L'amichevole (si fa per dire) fra Italia e Slovenia, giocata a Trieste nel 2003, fu teatro delle gesta ben poco sportive degli ultrà ospiti

L’amichevole (si fa per dire) fra Italia e Slovenia, giocata a Trieste nel 2003, fu teatro delle gesta ben poco sportive degli ultrà ospiti

La simpatia e la fantasia tipiche dei Brasiliani hanno però introdotto di recente una misura di prevenzione che potrebbe rappresentare il deterrente del futuro: inserire come steward dei tifosi più esagitati le loro mamme. L’idea è venuta al presidente dello Sport Club do Recife, squadra del nordest del Paese famosa per le intemperanze dei suoi fan. Centinaia di mamme sono state così fornite di pettorine arancio riflettente contrassegnate dalla scritta Segurança Mae (Madri Sicurezza). Nei primi due incontri nei quali è stata adottata questa soluzione pare che non ci siano stati incidenti. L’esperimento, pertanto, continuerà. Ma sarà sufficiente?
Ciò che risulta da questa panoramica sulla violenza nel mondo del calcio sembra ricondurre all’ipotesi che il pallone rappresenti una valvola di sfogo sociale, una novella arena tipica dell’Impero Romano.
Forse, però, le parole migliori per spiegare i tanti fatti di sangue che da sempre attanagliano i campi di calcio, quasi ne costituissero un inevitabile effetto collaterale, sono nuovamente quelle di Nick Hornby. Così commenta, sempre su Febbre a 90°, il motivo per cui lui, e migliaia di persone come lui, avevano guardato Juventus-Liverpool nonostante fossero a conoscenza che sui gradoni di quello stesso stadio giacevano immobili decine di corpi: “La passione per quel gioco consuma ogni cosa, compreso il tatto e il buonsenso. Se è possibile guardare una partita mentre negli stessi minuti altre 39 persone stanno perdendo la vita nello stesso stadio, o farlo quindici giorni dopo che altre cento l’hanno persa durante un’altra partita, allora, forse, è un po’ più facile capire la cultura e le circostanze che hanno reso possibili queste morti. Non importa nulla, a parte il calcio.”

di Lorenzo Degrassi
Giornalista di City Sport

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