Diversità culturale e Giustizia nei minori immigrati

Articolo a cura dell’Istituto Psicoanalitico per le Ricerche Sociali

Il tema dei minori stranieri apre a molte riflessioni. Nel prendere in considerazione le loro carriere devianti, si è costretti a considerare almeno due vertici di osservazione: uno riguarda la variabile sociologica, relativa al portato migratorio o alla diversità culturale, nella commissione dei reati; l’altro associa la stessa variabile alla presa in carico e alla riuscita dei percorsi educativi

mappa giustizia minorileLa letteratura su immigrazione e devianza è praticamente smisurata, anche per la generale sovra rappresentazione degli stranieri/immigrati in tutti i sistemi di Giustizia, almeno occidentali. Le interpretazioni di tale dato sono moltissime. Vale qui brevemente riassumerne alcune, sebbene correndo il rischio dell’incompletezza. Ormai è completamente decaduta, dal punto di vista scientifico, l’ipotesi che alcune culture o che alcuni gruppi etnici siano caratterizzati da una maggiore tendenza a delinquere (fatta eccezione, forse, per le popolazioni Roma. Il tema non verrà discusso in queste pagine). Questo costrutto sociale, invece, è ancora fortemente radicato nei Paesi soggetti ad immigrazione, contribuendo a costruire e a rafforzare stereotipi e pregiudizi nei confronti di alcune etnie. In realtà, le evidenze scientifiche tendono a confermare che alcuni percorsi migratori, a causa delle condizioni in cui si verificano, rendono più esposte le popolazioni coinvolte al rischio di commettere reati. In particolare, un fattore molto influente – come hanno potuto verificare anche i servizi della Giustizia minorile in Italia – è la non regolarità della condizione dello straniero. Nel caso dei minori, in Italia questa non riguarda l’irregolarità della presenza sul territorio nazionale – i minori sono per definizione non espellibili – ma le modalità di ingresso.
I minori non accompagnati costituiscono da sempre un segmento particolarmente importante della Giustizia minorile. A ciò deve aggiungersi la prossimità (dal punto di vista statistico ed etnografico) tra reti sociali di alcuni gruppi nazionali ed alcune tipologie di reati. Prossimità che comporta un maggior rischio in generale per i migranti del medesimo gruppo etnico/nazionale, data la rilevanza che il capitale sociale di riferimento assume nel sostenere processi di integrazione in un Paese come l’Italia, privo di opportunità di lavoro regolare mentre offre servizi, spesso, a bassa soglia. La letteratura è altresì abbastanza concorde nel ritenere che i sistemi di law enforcement non agiscono in maniera neutra: colpiscono con più durezza i portatori di stigmi sociali legati alle diversità visibili (colore della pelle, abbigliamenti etnicamente definiti) o alla condizione giuridica, quale quella di straniero. Insomma, l’interazione tra la complessità dei processi migratori e la ruvidezza della risposta dei sistemi sociali e di law enforcement genera il numero chiaro della devianza, una devianza “socialmente” riconosciuta e sanzionata. E se è vero che l’irregolarità migratoria espone al rischio di devianza, è anche vero che l’azione di controllo e sanzione, nella misura in cui agisce in maniera più aspra nei confronti di immigrati e stranieri rispetto agli autoctoni, criminalizza maggiormente i primi rispetto ai secondi. Immigrati e stranieri, pertanto, ingrossano le fila dei sistemi di Giustizia.
Numerose evidenze mostrano che, in tutti i Paesi occidentali, per uno straniero o per un soggetto appartenente a minoranze visibii è più facile essere fermato, perquisito, accusato e condannato.
L’altro vertice riguarda l’impatto delle variabili che influiscono
sui processi di presa in carico dei soggetti devianti e sulla riuscita
dei programmi di reinserimento sociale. Vi sono aree di sovrapposizione nei due livelli di riflessione. L’esposizione al rischio di devianza agisce anche da fattore di rischio di recidiva. Conseguentemente, configura un elemento di difficoltà nella presa in carico. È altresì evidente che l’eventuale maggiore rigidità del sistema nei confronti degli stranieri/immigrati rappresenta, di fatto, un elemento di disfunzionamento del sistema di law enforcement.
Ciò vale anche per il sistema di Giustizia minorile in Italia.
Al funzionamento del sistema di Giustizia minorile concorrono molti attori. Si potrebbe affermare che è l’intero sistema sociale a curare la Giustizia per i minori. Questa tende ad associarsi – per la stragrande maggioranza dei ragazzi – a quella che, non a caso, viene definita “area penale esterna”: il sistema scolastico e quello della formazione professionale, il mondo del lavoro nel suo complesso, il sistema sanitario nazionale, il terzo settore, i servizi sociali degli enti locali. Sono tutti attori del sistema della Giustizia minorile. Ne deriva che la valutazione del tipo di risposta che la Giustizia minorile mette in atto nei confronti della diversità e, in particolare, nei confronti della diversità culturale, è fortemente influenzata anche da due determinanti “esterne”: il livello della riflessione sviluppata su questi temi nel più ampio sistema Paese e il livello di adeguamento raggiunto dai servizi, cioè la “fase” di adeguamento che i servizi stanno attraversando per sensibilità nei confronti della diversità culturale e relative prassi di gestione.
Non poteva, dunque, passare inosservato come molti dei problemi o dei disfunzionamenti dell’intero sistema Paese siano ancora i medesimi, dopo anni in cui essi vengono da più parte segnalati, nonostante vi siano state sperimentazioni di prassi effettivamente definibili buone. Né va sottaciuto che, in sintonia con questo clima di stanca e, in molti casi, di disinvestimento nei confronti dei temi relativi all’immigrazione ed all’integrazione dei migranti – ampiamente descritto attraverso l’espediente dell’excursus storico – su alcuni versanti si siano registrati persino dei passi indietro.
Sono certamente necessari molti elementi per garantire i diritti minimi di cui parla anche la Carta Costituzionale: una buona gestione amministrativa di rilascio dei permessi di soggiorno; l’attivazione della tutela per i minori stranieri non accompagnati in tempi utili; la disponibilità di regimi dietetici rispettosi delle diversità religiose e culturali; la disponibilità di luoghi di culto; la presenza di mediatori culturali e di materiali multilingue; l’attenzione ad evitare ogni forma di discriminazione. Si tratta di elementi che concorrono a costruire le condizioni minime per la riuscita di un percorso di reinserimento sociale. Si riscontra, invece, che – purtroppo – non sempre e non dappertutto questi standard minimi sono effettivamente garantiti. Ed anche laddove fossero garantiti, non direbbero molto del livello di riflessione teorica sugli aspetti più profondi e sottili del significato da attribuire alla diversità culturale, né sulle modalità di gestione di questi aspetti. Aspetti che rimandano al sapere antropologico e che, per molti versi, impegnano il Paese in una riflessione più complessa, di cui si ha, al momento, evidenza soltanto all’interno del sistema giuridico. È stato ampiamente descritto che là si è prodotta molta dottrina e là, di conseguenza, si è sviluppata molta riflessione.
Nella Giustizia minorile c’è stato un significativo investimento in progettualità sul tema dei minori stranieri, che sicuramente ha contribuito a realizzare alcuni importanti cambiamenti nelle strategie di risposta e presa in carico. Non ultima la misura della messa alla prova anche per i minori stranieri, in numero via via crescente di casi. Frutto, questo, di un’importante riflessione avviata ancora all’inizio degli anni 2000 dal sistema di Giustizia minorile, in tutte le sue componenti. Non sorprende, tuttavia, che, nonostante il numero e la qualità dei progetti che hanno contribuito a tenere viva l’attenzione dei servizi e a sostenere la loro crescita culturale, si rilevino tuttora evidenti difficoltà a sviluppare modalità più evolute di presa in carico. E ciò nonostante l’imponente numero di minori stranieri non più in carico soltanto agli Istituti penali minorili, ma a tutti gli altri servizi minorili.
In maniera, ovviamente, non dissimile da ciò che è accaduto nel Paese, anche la Giustizia minorile ha avuto il suo momento “eroico” nei confronti dei minori stranieri. All’inizio degli anni ‘90 i numeri si sono fatti importanti ed ha avuto accesso al sistema una quota significativa di minor stranieri non accompagnati. Giovani maschi provenienti dal Marocco, l’unica nazionalità stabilmente presente, poi dall’Albania, per alcuni anni associata ai numeri più alti, minori provenienti dall’ex Jugoslavia, ed infine i minori rumeni, per anni il contingente più numeroso. Accanto a costoro, una quota significativa e costante, soprattutto nella componente femminile, di Rom. Le caratteristiche dei flussi migratori che hanno investito il Paese (forte componente irregolare che proveniva dai Paesi appena citati, lungo filiere migratorie contigue all’illegalità) ha prodotto, come inevitabile conseguenza, l’ingresso non controllato di minori non accompagnati, che hanno in parte condiviso i sentieri di prossimità al crimine delle comunità di riferimento. Questa tipologia di utenza è stata largamente prevalente almeno sino alla metà del primo decennio del nuovo secolo.
Pur nella consapevolezza del rischio insito in ogni generalizzazione, il profilo dei ragazzi entrati nei servizi, indipendentemente dall’origine nazionale, era quello di minori poco scolarizzati, che avevano vissuto nelle aree più povere dei Paesi da cui provenivano ed apparivano inseriti precocemente in catene migratorie irregolari, con riferimenti in Italia rappresentati da amici e parenti già più o meno coinvolti in fenomenologie devianti o criminali. I servizi si sono così trovati a gestire situazioni caratterizzate dal sovrapporsi di più elementi di complessità: la difficoltà della comunicazione linguistica, la distanza culturale, accentuata dalla scarsa scolarizzazione, l’assenza di figure parentali di riferimento e l’inserimento in contesti fortemente criminogeni.
A tutto ciò è necessario aggiungere che anche il Comitato minori stranieri, istituito nel 1999, faceva fatica a monitorare il fenomeno dei minori stranieri non accompagnati e a definire le procedure per una migliore identificazione. In questo clima è stata per molti versi la Magistratura minorile a dare un forte impulso alle modalità di gestione di questi ragazzi, ponendo già a quel tempo il problema – si può dire ancora irrisolto – della tutela ed intervenendo in materia di concessione dei permessi di soggiorno.
Come è noto, anche a seguito della Legge 40 del 1998, che introduceva il permesso di soggiorno per minore età, molte questure hanno continuato a rilasciare permessi di soggiorno per affidamento, sollevando molte questioni giuridiche in merito alla convertibilità di questi titoli in permessi di soggiorno per lavoro al compimento del diciottesimo anno di età. Insomma, l’attenzione è stata completamente assorbita dall’esperienza migratoria di questi ragazzi e dalla difficoltà di costruire un progetto educativo di reinserimento sociale proprio a causa delle incertezze in merito alla concessione di un titolo di soggiorno al raggiungimento della maggiore età.
Va ricordato come anche le pratiche di accertamento dell’età attraverso la modalità foto-dattiloscopica hanno fatto fatica a divenire prassi costante. Ciò creava, nella banca dati del Comitato per i Minori Stranieri ed in molti servizi minorili, casi di persone che entravano e uscivano dai servizi con identità diverse, fino a cumularne una ventina.
Certamente sono stati fatti molti passi in avanti nella gestione di questi minori e nelle strategie di rilascio dei permessi di soggiorno. Ma pochi nell’identificazione precoce e nel dialogo tra i servizi minorili della Giustizia e le questure. E, soprattutto, nella reale responsabilizzazione del tutore.
Il tema della lingua ha investito tutta l’area dei servizi. Nello specifico della Giustizia minorile, ha visto l’inserimento di mediatori culturali con modalità diverse nei vari contesti, anche grazie al fiorire delle sperimentazioni nel campo della mediazione linguistico-culturale. Nel 2002 si è giunti ad un tentativo di sistematizzazione della figura del mediatore nella Giustizia minorile, a cui SIMS ha guardato con grande attenzione, per verificare e valutare le esperienze maturate. È, infatti, la Circolare n. 6 del 23 marzo 2002 “Linee guida sull’attività di mediazione culturale nei servizi della Giustizia Minorile” che riconosce nella mediazione uno degli strumenti per facilitare la comunicazione tra minori ed operatori nei vari momenti della vita istituzionale e per promuovere un punto di vista interculturale all’interno delle istituzioni, con riferimento, in particolare, ai servizi della Giustizia minorile. La Circolare trova un suo presupposto nel Decreto del Presidente della Repubblica 20 giugno 2000, n. 230 “Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative della libertà”. All’art. 35, la fonte riconosce una funzione operativa alla MLC, prevedendo che “deve essere favorito l’intervento di operatori di mediazione culturale, anche attraverso convenzioni con gli enti locali o con organizzazioni di volontariato”. Così pure nel Decreto del Presidente della Repubblica 13 giugno 2000, relativo all’Approvazione del Piano nazionale di azione e di interventi per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva per il biennio 2000/2001. Nella parte seconda, relativa agli impegni del Governo nei confronti dei “minorenni stranieri”, sezione E, punto 1, paragrafo c) impegna “il Ministero della Giustizia… a sviluppare la presenza di mediatori culturali nelle carceri minorili per consentire ai minorenni di svolgere attività di studio, apprendimento, formazione professionale”. Nell’ambito di questo contesto normativo, la Circolare prevede che il mediatore culturale fornisca al servizio un contributo professionale e strumenti idonei ad adottare un punto di vista interculturale nella progettazione e nella realizzazione di tutte le attività rivolte all’utenza. Attraverso le linee guida in essa contenute, si propone di indirizzare ed uniformare quanto più possibile tale area. Certamente, si legge nella circolare, essa “si riferisce ad un livello di funzionamento ottimale dell’attività del mediatore culturale a cui si deve tendere. Al momento, l’attuazione delle linee guida risentirà, necessariamente, dei vincoli imposti dalle reali condizioni, risorse e disponibilità dei singoli servizi”.
Più in particolare, la Circolare introduce la distinzione tra mediazione indiretta e mediazione diretta. Con la prima espressione intende l’attività volta a costruire interventi di tipo educativo interculturale che coinvolgono i minorenni sottoposti a procedimento penale ed i vari operatori istituzionali. Si creano così le condizioni che permettono la conoscenza ed il rispetto delle diverse culture, i momenti di autoformazione e scambio interprofessionale (tra operatori istituzionali e mediatori culturali) per migliorare il dialogo tra operatori e minorenni stranieri, la costruzione all’interno del gruppo di pari spazi di comunicazione che superino le differenze culturali, l’aiuto ai docenti della scuola e della formazione professionale nell’elaborazione di proposte scolastiche e formative calibrate sulle specifiche esigenze dei minorenni stranieri, la fornitura di elementi utili al servizio nel garantire l’assistenza religiosa, la comunicazione e la collaborazione tra il servizio, le Autorità consolari, i servizi sociali e sanitari territoriali e con gli enti e le associazioni del privato sociale che si occupano a vario titolo di minorenni, la predisposizione di strumenti e materiali utili a favorire l’accoglienza dei minori stranieri e a promuovere l’educazione alla salute da un punto di vista interculturale.
Per mediazione diretta, la Circolare intende il livello di mediazione in cui il mediatore culturale affianca l’operatore titolare del caso, svolgendo una funzione di facilitazione degli interventi psico-educativi al fine di predisporre un programma educativo che meglio risponda alle esigenze ed alle risorse del ragazzo. Analoga attività di facilitazione è attuata dal mediatore culturale, in ogni momento della vita istituzionale, nei confronti di tutti gli altri operatori della Giustizia minorile a vario titolo in contatto con il minore. In tutti i casi di presa in carico da parte del servizio di un minore straniero, l’équipe può avvalersi del contributo del mediatore culturale, coinvolgendolo nelle varie fasi dell’intervento.
Nel delicato momento dell’accoglienza, la Circolare prevede che il servizio si adoperi per attivare l’intervento del mediatore affinché sia curata la traduzione linguistica in tutte le occasioni necessarie, sia chiaro il ruolo del mediatore stesso in relazione a quello degli altri operatori, il ragazzo sia assistito durante la visita sanitaria di primo ingresso, sia agevolata la comprensione del mandato istituzionale del servizio e, nel caso di strutture a carattere residenziale, sui ruoli e sulle regole interne di convivenza, il minore sia informato sulle norme del Paese ospitante, con particolare riferimento al reato contestato, al processo penale minorile ed ai suoi possibili percorsi, anche confrontando le conseguenze penali previste per il medesimo reato nel sistema della Giustizia italiana e in quello del Paese di provenienza. Spetta ancora al mediatore il compito di facilitare l’educatore/operatore titolare del caso nell’acquisizione di elementi di conoscenza sul contesto familiare e culturale di provenienza del ragazzo, sul suo progetto migratorio, le sue motivazioni e i suoi vissuti personali, nonché il compito di agevolare i contatti tra il ragazzo e la famiglia e tra la famiglia e gli operatori.
Nella fase di attuazione della presa in carico, il mediatore facilita la comunicazione del ragazzo con l’équipe aiutandolo ad esplicitare i suoi bisogni, fornisce all’équipe elementi utili per l’elaborazione e la realizzazione del progetto educativo, assiste l’équipe nella gestione dei rapporti con la famiglia e con le altre figure di riferimento, fornisce elementi di conoscenza sul minore all’équipe ai fini della stesura delle relazioni informative indirizzate alla Magistratura, pur rimanendo l’équipe titolare esclusiva dei rapporti con quest’ultima. Viene, inoltre, riconosciuta al mediatore la possibilità, al pari degli altri operatori, di essere ascoltato preliminarmente al Consiglio di Disciplina.
Già dodici anni or sono venivano, dunque, tracciate le linee di indirizzo e di impiego della figura del mediatore culturale, riprese dalla Circolare del 17 febbraio 2006 “Organizzazione e gestione tecnica degli IPM”. Questi concetti sono stati in parte acquisiti anche dalla Circolare del Capo Dipartimento n. 1 del 18 marzo 2013 “Modello d’intervento e revisione dell’organizzazione e dell’operatività del Sistema dei Servizi Minorili della Giustizia” laddove, tra le risposte che la Giustizia Minorile deve saper garantire con certezza su tutto il territorio nazionale, si fa riferimento a figure specialistiche come i mediatori. Vale, altresì, ricordare che il 29 luglio 2010, con il Contratto Collettivo Nazionale Integrativo del personale non dirigenziale del Ministero della Giustizia, è stato introdotto, nel sistema di classificazione del personale del Dipartimento Giustizia Minorile, il profilo professionale di “funzionario della professionalità di mediazione culturale”.
Per interagire positivamente con la diversità culturale, il sistema ha, quindi, preferito puntare sull’inserimento di consulenti esterni, affidando loro, in ampia misura, il compito di decostruirla e restituirla agli operatori, con tutti i rischi, i limiti e le ambiguità che questa scelta comporta. La questione della diversità culturale è stata presa in considerazione, ma, per molti versi, è stata lasciata ad un livello di riflessione e di gestione “intermedio”, così com’è intermedia la figura del mediatore e com’è intermedio il suo rapporto col sistema, nei cui confronti rimane per metà interno e per metà esterno (quest’aspetto è evidente anche se si considera che il mediatore non è inserito nell’organico della Giustizia, ma intrattiene con l’Amministrazione un rapporto di convenzione).
La questione è, dunque, rimasta anche concettualmente in parte pensata ed in parte non pensata, “delegata” ad altre figure, la cui funzione e la cui posizione sono ancora lungi dall’esser ben definite. Inoltre, come in parte già ricordato, hanno trovato un assai esiguo spazio applicativo le indicazioni in materia di mediazione indiretta, ancorché sostanziali per tendere a quel “livello di funzionamento ottimale dell’attività del mediatore culturale” previsto dalle Linee guida di cui alla Circolare n. 6 del 23 marzo 2002.
Nella fase, infine, della dimissione dal servizio e dell’eventuale fuoriuscita dal circuito penale, il mediatore opera per facilitare l’individuazione di contatti con enti territoriali, associazioni del privato sociale, consolati ed ogni risorsa specifica al fine di costruire le condizioni per un processo d’integrazione sociale del ragazzo. Contribuisce ad agevolare la continuità della presa in carico preparandolo, in caso di mutamento della misura penale, al passaggio da un servizio ad un altro. Collabora, altresì, con gli altri operatori all’inserimento del ragazzo in Comunità. Accanto a queste linee guida operative, la Circolare fornisce, in ultimo, alcune indicazioni in materia di procedure di selezione, requisiti dei mediatori e loro deontologia professionale.
Altro tema sul quale i servizi hanno dovuto svolgere un’importante opera di riorganizzazione è quello dell’offerta formativa. Nello specifico, negli IPM è stato necessario avviare corsi di alfabetizzazione in accordo con il Ministero dell’Istruzione. L’adeguamento dell’offerta formativa, fondamentale ai fini della costruzione del progetto educativo, è stata sicuramente al centro del lavoro dei servizi e all’attenzione della Direzione generale per il trattamento. In questo ambito, anche grazie a tante esperienze del terzo settore, si è registrato un significativo miglioramento dei servizi ed il raggiungimento di adeguati standard operativi. In ultimo, di proposito, il tema della diversità “culturale”. Sino all’arrivo dei ragazzi rumeni, giunti in larga maggioranza verso la fine degli anni ‘90, i minori stranieri presenti nei servizi erano prevalentemente maghrebini – in special modo marocchini – ed albanesi. In quegli anni, definiti volutamente eroici, la riflessione sulla diversità culturale era certamente molto viva. Non sorprende, così, che si prestasse molta attenzione al kanun, l’arcaico codice di comportamento albanese che avrebbe informato l’agire di questi ragazzi, peraltro poco scolarizzati e poco disponibili ai percorsi di reinserimento proprio a causa del senso di appartenenza al gruppo deviante, imposto, per l’appunto, dal kanun. Per i ragazzi maghrebini è stata, invece, la dimensione religiosa a suscitare elementi di riflessione e di adeguamento dei servizi, di nuovo principalmente gli IPM, attraverso i quali transitava la maggioranza dei ragazzi. Il rispetto della dieta, l’attenzione al Ramadan ed ai momenti di preghiera sono entrati così nei progetti e nelle prassi degli IPM. Ma non sono divenuti prassi costante, ad esempio, nelle Comunità.
Tuttavia, soprattutto laddove vi era una decisa prevalenza di ragazzi provenienti dal medesimo contesto geografico, la lettura dei comportamenti diveniva più attenta. Inoltre, in virtù della stessa prevalenza, era possibile cogliere aspetti correlati alla cultura di appartenenza che consentivano di sperimentare nuove strategie di presa in carico. Si pensi a Torino, dove storicamente è stato sempre molto alto il numero di ragazzi marocchini in IPM. Lì, ad esempio, si è potuta verificare una maggiore tendenza a fenomeni di autolesionismo in questi ragazzi per ragioni difficili da definire e, forse, in parte legate al portato culturale, certamente anche legate alla condizione di solitudine e marginalità. A questo riscontro ha fatto seguito, da parte dei servizi, l’avvio di una collaborazione con il Centro Frantz Fanon – uno dei primi e più importanti luoghi di riflessione sull’etnopsichiatria in Italia – e la sperimentazione di affidi omoculturali presso figure adulte di riferimento – ovviamente in grado di fornire adeguate garanzie – legate ai ragazzi da vincoli parentali.
In sintonia con quanto accadeva in altri settori della Pubblica amministrazione, congiuntamente ad uno sforzo di trasformazione delle prassi operative, nei servizi si è realizzata un’importante azione di riflessione e sono state attivate molte iniziative di formazione, molte delle quali dedicate ai tema dell’intercultura. L’inizio del 2000 ha visto una trasformazione del quadro complessivo, riconducibile, in parte, all’avvenuta approvazione delle Legge “Turco-Napolitano”, con la conseguente necessità di dare attuazione ai dispositivi di legge anche alla luce dei successivi cambiamenti imposti dalla “Bossi Fini”, in particolare per quel che riguardava proprio i minori non accompagnati. La stessa storia migratoria del Paese era cambiata: sono seguite, infatti, un paio di importanti regolarizzazioni e, contemporaneamente, vi è stata una riduzione degli ingressi per lavoro. Sono aumentati, ovviamente, i ricongiungimenti familiari. In sintesi, prima delle recenti crisi geopolitiche e dell’operazione Mare nostrum, il Paese sembrava trovarsi in una fase di assestamento del fenomeno migratorio, anche a causa di una progressiva caduta della pressione migratoria, in parte legata all’ingresso della Romania nell’Unione Europea.
Nella Giustizia minorile si è osservato un decremento percentuale delle presenze straniere, unitamente ad una modificazione dei profili dei minori. In particolare, sono aumentati i minori ricongiunti e sono comparsi quelli di seconda generazione. Si tratta, spesso, di minori che parlano l’Italiano, così che la barriera linguista è percepita in maniera meno significativa. Così, anche la diversità culturale si è stemperata. In parte, i ragazzi sono già socializzati in Italia. Anche quando la variabile culturale viene chiamata in gioco, come nel caso delle cosiddette gang latino americane, sembra che il ruolo più importante sia giocato dal portato migratorio e non dalla distanza culturale (non sussiste una distanza culturale tale da spiazzare i servizi).
Si apre, così, una nuova fase anche nella Giustizia minorile: i servizi si sono abituati ai minori stranieri non accompagnati ed i nuovi profilo di utenza appaiono con numeri ancora contenuti. Così, quello che si pone con più forza è il tema di una Giustizia minorile capace di non discriminare i minori stranieri, capace di garantire a tutti le stesse misure, non soltanto per quanto concerne i percorsi di alfabetizzazione e formazione, ma, soprattutto, nell’applicazione di misure non custodialistiche, con particolare riferimento all’applicazione dell’istituto della messa alla prova.
S’è detto del perché la gran parte dei minori stranieri si trovasse in IPM: l’assenza di famiglia, la prossimità con le reti criminose, la difficoltà di definire un progetto educativo al di fuori dalle sedi intramurarie spingevano la Magistratura a preferire la misura detentiva. La riflessione sui numeri, l’evidente sproporzione tra messa alla prova dei minori italiani e messa alla prova dei minori stranieri, unitamente al riscontro dei pochissimi inserimenti degli stranieri in comunità, ha condotto a riconsiderare l’intera questione, all’interno della magistratura minorile, sia dei servizi. Gli evidenti risultati sono confermati dai numeri: sempre più minori stranieri usufruiscono della messa alla prova e dell’inserimento in comunità. La giustizia minorile anche qui in sintonia col sentimento generale del Paese, seppur incuriosita e stimolata dal dibattito sul multiculturalismo, ha sempre privilegiato quello che potremmo chiamare un approccio universalistico al minore, evitando ogni forma di etnicizzazione nella presa in carico. Il progetto educativo è costruito a partire dai bisogni unici e irripetibili, come unica e irripetibile è la storia di ogni ragazzo. La variabile culturale e, quindi, parte di quelli irripetibilità e non un costrutto che possa condurre a classificarla. L’approccio universalistico, condiviso anche da paesi come la Francia, trova un valido radicamento nella Carta Costituzionale. Basti dire ciò, senza scendere nella disanima del dibattito tra liberal e communitarian e precisare che, se è noto che il rischio posto da sistemi a più forte impronta multiculturale è quello di costringere il singolo nel cerchio della propria comunità di appartenenza, talvolta imponendogli un’identità non voluta, nell’approccio universalistico il rischio è di non riuscire a cogliere, invece, le specificità culturali che il singolo porta con sè proprio perché parte di un determinato gruppo etnico o sociale e, quindi, di minimizzarle o fraintenderle. In questa fase di relativa perdita di centralità del tema del multiculturalismo, il sistema di giustizia minorile ha bisogno di traguardare il tema dei minori stranieri dalla prospettiva dell’uguaglianza nell’accesso ai diritti, secondo il principio di non discriminazione. La logica impone di non distinguere i minori in base al gruppo etnico di appartenenza, anche attraverso una riconsiderazione dei servizi tale da renderli più “pertinenti” nei confronti delle diversità culturali, impone nello stesso tempo e coerentemente che ogni minore debba sentirsi uguale. Impone, cioè, che il principio di non discriminazione trovi applicazione in un’assoluta uguaglianza di opportunità.
Come garantire, dunque, questo principio? Come assicurare che la diversità del singolo venga in qualche modo etnicizzata nei comportamenti e non nei diritti?
Se si è d’accordo sul fatto che non esistono ragazzi marocchini, ma solo ragazzi, con la loro storia ed il loro portato specifico, i servizi non devono rapportarsi con un ragazzo in quanto marocchino, ma cogliendolo nella sua specificità esistenziale. Se si condivide questa premessa, non si deve parlare di ragazzi marocchini in alcuna delle procedure che riguardano i minori, dalla descrizione che ne propongono i media raccontando la commissione di un reato al momento dell’invio del minore in una comunità. Non si può, dunque, ammettere che esista una comunità “per marocchini”, poiché, in questo caso, l’origine nazionale orienterebbe l’agire dell’operatore, facendo agio su una valutazione più complessiva e non sul risultato dell’insieme delle variabili che costituiscono la storia di quel singolo ragazzo. E non si può ammettere che, nella pratica, quell’identificativo nazionale vengo utilizzato, in modo improprio e non esplicito, per orientare le scelte educative. Non si può ammettere, insomma, che qualche operatore dica: ” No, basta, in questa comunità abbiamo già troppi marocchini”.
Intorno a questi temi, la Giustizia minorile ha avviato diverse progettualità, tutte tese a fornire strumenti operativi e linee di condotta. Ne sono esempi la Carta dei diritti e dei doveri dei minori, tradotta in diverse lingue e che sollecita l’attenzione alla corretta informazione del minore, al rispetto delle sue singolarità necessità, siano esse alimentari, religiose o culturali. Se ne ha evidenza anche nel protocollo d’intesa che il Dipartimento ha siglato con l’Ordine dei giornalisti. Ed in questa direzione si è mosso anche un recente intervento del Capo del Dipartimento (Circolare “Modello d’intervento e revisione  dell’organizzazione e dell’operatività del Sistema dei Servizi Minorili della Giustizia” n. 1 del 18 marzo 2013) esplicitamente finalizzato – nell’ambito di un più ampio impulso al coordinamento tra le varie articolazioni dell’Amministrazione – a promuovere l’armonizzazione dei servizi e a definire l’orizzonte in cui la Giustizia minorile possa operare nel rispetto e nella presa in carico della diversità etnico-culturale dei minori.

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