Lavoratori di Serie A e di Serie B

di Angela Caporale

L’onorevole Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, è in prima linea nell’opposizione alla riforma promossa dal Governo Renzi. In particolare, sostiene che tra l’impegno dei sindacati a protezione dei propri iscritti e l’indeterminatezza della legge delega il futuro è quanto mai nebuloso

MeloniFra i numerosi esponenti dell’opposizione che hanno aspramente criticato la riforma del lavoro, l’onorevole Giorgia Meloni, cofondatrice, assieme a Guido Crosetto e Ignazio La Russa, di Fratelli d’Italia, è sicuramente in prima fila. Cerchiamo di capire le motivazioni che hanno spinto l’esponente di destra a mantenere una posizione di assoluta contrarietà nei confronti del Jobs Act.
Onorevole Meloni, qual è la posizione del suo partito rispetto alla riforma del lavoro promossa dal Governo Renzi?
“Per Fratelli d’Italia il Jobs Act non è altro che il risultato di uno scontro ideologico tutto interno alla sinistra. È un provvedimento che non rilancia il mercato del lavoro e che non supera le differenze tra lavoratori di serie A e di serie B, ma che, anzi, introduce incredibilmente la categoria dei lavoratori di serie C.
Una vera riforma doveva partire dal rilancio dell’occupazione e dalla defiscalizzazione del costo del lavoro, ma Renzi, leader del Pd e del Governo, ha preferito occuparsi delle faide interne al suo partito. E lo ha fatto con il sostegno di una maggioranza che ora, da più parti, sembra essersi risvegliata dal letargo e si lascia andare a polemiche assolutamente inutili, come il Jobs Act”.
Qualche mese fa ha definito il Jobs Act “carta da pizza”. In che senso ha usato questa espressione? È cambiata la sua opinione personale al proposito?
“Assolutamente no: è carta utile per incartare la pizza perché non c’è scritto assolutamente nulla. Si tratta di una legge delega e, in quanto tale, è una legge di contorno. Tra le leggi delega che ho letto, è forse la più vaga in assoluto. Scopriremo troppo tardi i veri contenuti di questa riforma. Per ora, sentiamo solo slogan: ad esempio, ascoltiamo che dobbiamo copiare i Tedeschi. Se dovessimo davvero farlo, forse dovremmo cominciare da quella norma che dice che un cittadino straniero, fosse anche comunitario, che non lavora per sei mesi può essere espulso dalla Germania. Cominciamo da una norma di questo tipo”.
Riguardo alla polemica legata all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ritiene che la sua abolizione sia una scelta giusta e lungimirante?
“Ho un approccio “laico” all’articolo 18, questione che, invece, viene trattata dalla sinistra come molto ideologica. Personalmente, non sono per l’abolizione, ma per una riformulazione.
Dobbiamo mettere sul piatto della bilancia quello che il provvedimento tutela, così come formulato, e confrontare questo dato con il limite agli investimenti che, eventualmente, può comportare per tutti, anche per coloro i quali non sono tutelati dalla norma. Stiamo parlando di un provvedimento che, in Italia, riguarda il 30% dei lavoratori, percentuale che, di solito, esclude i nuovi lavoratori, i giovani. Non ci poniamo nemmeno il problema di aver costruito una Nazione a due velocità, nella quale esistono i garantiti e persone che le garanzie non le hanno mai conosciute”.
Qual è la sua opinione a proposito del ruolo giocato dai sindacati nella determinazione delle politiche del lavoro?
“Fino ad ora non hanno difeso i lavoratori, ma i loro iscritti. E nel dibattito sul Jobs Act, credo che, per loro, parlare solo di articolo 18 funzioni: i lavoratori tutelati da questa disposizione sono per lo più i lavoratori sindacalizzati. A noi, invece, piacerebbe parlare di un sistema nel quale l’articolo 18, se c’è deve essere per tutti, se non c’è deve non esserci per tutti. Bisogna uscire dall’impostazione ideologica e parlare dei problemi degli Italiani. La grande sfida che attende l’Italia è quella di superare le odiose e inaccettabili discriminazioni finora esistite tra lavoratori di serie A e lavoratori di serie B, tra chi godeva di tutte le garanzie e tra milioni di lavoratori esclusi da ogni forma di diritto. Siamo per costruire un sistema che valga per tutti. Più è alta l’asticella dei diritti, meglio è. Ma questi devono essere gli stessi per tutti i lavoratori. Queste sono le rivendicazioni di Fratelli d’Italia-Alleanza nazionale e su queste abbiamo provato a dialogare invano col Governo che, invece, ha cercato anche con i sindacati un compromesso al ribasso.
Che tipo di riforma del lavoro ha proposto il suo partito? In che modo è migliore di quella approvata?
“Come ho già detto, pensiamo che la sfida non sia abolire l’articolo 18, che di certo non porterà maggiore occupazione, ma mettere le imprese nelle condizioni di assumere. Questo si può fare defiscalizzando il costo del lavoro, come proposto da Ricolfi, attraverso un “maxi job” di 5 anni: contratto da almeno 1.000 euro al mese netti al lavoratore e il 20% di imposte allo Stato per Irpef e Inps. Fratelli d’Italia-Alleanza nazionale ha portato in Parlamento questa proposta. Abbiamo tentato di apportare delle modifiche migliorative per offrire risposte concrete e abbiamo depositato un emendamento sul “Job Italia”. Parliamo di una proposta di totale decontribuzione per le nuove assunzioni e a costo zero per lo Stato, visto che si paga da sola: sarebbe, infatti, un vero e proprio moltiplicatore che produrrebbe centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro. Ci sarebbe piaciuto mettere a votazione queste proposte, come anche quella della partecipazione dei lavoratori agli utili d’impresa, ma Governo e maggioranza non ce lo hanno consentito e, con la fiducia, hanno impedito ancora una volta al Parlamento di confrontarsi e migliorare i testi delle leggi. Una vera occasione persa”.

di Angela Caporale
Caporedattrice di Socialnews.

Rispondi