Se l’Europa litiga anche sul nuovo gasdotto…

Gabriele Lagonigro

South Stream dovrebbe coinvolgere quasi tutti i Balcani. Ma è muro contro muro fra Bruxelles e alcuni Paesi comunitari

gasUn’unione formale, ma, purtroppo, ancora non sostanziale, soprattutto in politica estera. Ancora una volta, l’Europa, intesa come comunità di 28 Paesi che dovrebbero agire in accordo, non riesce a mantenere una linea univoca.
Il casus belli di quest’estate è infrastrutturale, ma con riflessi che vanno al di là della realizzazione – o meno – del gasdotto South Stream. Questo dovrebbe consentire al Vecchio continente di approvvigionarsi di energia dal Meridione europeo e non solamente – o in misura prioritaria – dai Paesi dell’Est. Nella querelle le implicazioni si sprecano, e con esse le interpretazioni, che spaziano dalla razionalità dei conti economici di ciascun Paese alla dietrologia geopolitica di chi vede, a torto o a ragione, scenari da anacronistica guerra fredda.
Il dibattito fra Istituzioni comunitarie e singoli rappresentanti dell’Unione nasce, sostanzialmente, dalle intenzioni di alcuni Stati, quali Ungheria, Austria e Slovenia (tutti e tre appartenenti alla UE), di proseguire i lavori di South Stream aggirando le normative imposte da Bruxelles, che chiede a gran voce di discernere il ruolo di distributore da quello di fornitore di gas. Chi lo estrae, in sostanza, chi ne è proprietario, non deve detenere anche il canale con il quale verrebbe approvvigionata mezza Europa. La replica russa, da cui dovrebbe partire il combustibile per alimentare il riscaldamento continentale, beneficiando prioritariamente (con Gazprom e consociate) degli effetti del nuovo gasdotto, prende spunto dall’irretroattività di una norma legiferata – afferma Mosca – ben dopo la conclusione dell’accordo.
Dove stiano le ragioni giuridiche è riflessione da legali e non da analisti, ma l’unica verità politica è che, ancora una volta, le disposizioni di Bruxelles si sono incagliate al cospetto delle singole volontà dei “28”, interessati maggiormente al proprio tornaconto economico e sociale (e, perché no?, elettorale). La ricomposizione all’interno delle camere oscure di Strasburgo e Bruxelles si concretizzerà difficilmente in queste settimane, visti anche i tanti altri problemi all’ordine del giorno. Emerge prepotentemente anche una serie infinita di questioni irrisolte che stanno indebolendo l’Europa.
In questo contesto, la crisi ucraina rappresenta il primo punto sul tavolo. Il progetto South Stream – 3.600 chilometri di tubi per un investimento di 16 miliardi di euro – non è nato certo in questi ultimi mesi, quando, cioè, la rivoluzione (o il colpo di stato, a seconda dei punti di vista) ha rovesciato Yanukovich, ma è innegabile che il muro contro muro fra Mosca e Kiev ne ha accelerato la costruzione. Il nuovo gasdotto, infatti, dovrebbe bypassare l’Ucraina ed arrivare in Europa attraverso il Mar Nero, la Bulgaria, i Balcani e l’Austria. Putin e i suoi sodali non vogliono più dipendere per l’esportazione del combustibile da un Paese che considerano inaffidabile e con il quale è in corso una guerra ormai non più sotto traccia e che non accenna a chetarsi. E che potrebbe, addirittura, inasprirsi e sconfinare nel resto del continente, se la Nato schiererà davvero le proprie truppe nell’Ucraina orientale.
Da Kiev, fino ad oggi, è passato circa il 40% del gas in transito dalla Russia all’Europa. Se gli Ucraini, quale misura di ritorsione, dovessero deciderne il blocco, a Mosca molti oligarchi dichiarerebbero fallimento. Oltretutto, il nuovo Governo del dopo Yanukovich non ha ancora provveduto a saldare i 2 miliardi di debito (per il gas) nei confronti di Mosca. Questo rende ancora più instabile la situazione.
Ecco perché molti Paesi comunitari spingono per una via alternativa. Anche l’Italia non disdegnerebbe la possibilità di approvvigionarsi da un’altra fonte. L’influenza del gasdotto ucraino per il Belpaese diverge a seconda degli analisti: c’è chi sottolinea con enfasi come Roma risulti il secondo beneficiario (dopo i Tedeschi) del gas in transito da Kiev, con oltre 25 miliardi di metri cubi, e chi, invece, rimarca più ottimisticamente la capacità italiana di rifornirsi anche da Norvegia, Paesi Bassi, Algeria e Libia, oltre che dai rigassificatori di Rovigo e Livorno. Certo è che il 40% del nostro fabbisogno viene importato dalla Russia e che lo zar del Cremlino, in questo modo, tiene in scacco noi e mezza Europa. Nel 2013, la corte di Putin ha esportato nel Vecchio continente quasi i 2/3 del gas indispensabile per mandare avanti famiglie ed imprese. Di questi, 160 miliardi di metri cubi, quasi la metà, sono passati attraverso l’Ucraina.
In tutto questo baillame, un ruolo più o meno attivo lo giocherebbero anche gli Stati Uniti: per boicottare Mosca e i suoi ricchi oligarchi starebbero studiando sistemi alternativi per approvvigionare gli alleati d’oltreoceano. E, magari, guadagnarci pure qualche soldino. Le stesse entrate di cui, peraltro, beneficerebbero quei Paesi (appunto Slovenia, Austria e Ungheria, ma anche Serbia e Bulgaria) dai quali transiterebbe il gas di South Stream.
Gira e rigira, è sempre una questione economica.

Gabriele Lagonigro
Direttore del settimanale City Sport e Caporedattore di SocialNews

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