Il compromesso della protezione temporanea

Sergio Briguglio

Per proteggere le persone minacciate da un conflitto, lo strumento forse più opportuno e meno costoso è la concessione della protezione temporanea. Spetterebbe ai governi decidere quanti profughi accogliere, e le modalità per farlo, sulla base della sostenibilità sociale.

I NUMERI SUI PROFUGHI
Il naufragio di una imbarcazione carica di stranieri al largo delle coste della Sicilia o una successione di sbarchi ravvicinati riportano periodicamente all’attenzione dell’opinione pubblica il problema dei profughi, per ragioni umanitarie o per il timore di una invasione incontrollabile.
A dissipare il timore di invasione dovrebbe essere sufficiente confrontare il numero di beneficiari di asilo soggiornanti in Italia (circa 65mila a metà del 2013) con quello di stranieri legalmente soggiornanti (circa 3 milioni); oppure con lo stock di profughi presenti in altri paesi UE (222mila in Francia, 169mila in Germania, 150mila in Gran Bretagna); o ancora paragonare il numero di nuove richieste presentate in Italia dal giugno 2012 al giugno 2013 (circa 21mila) con quello delle richieste presentate in altri Stati membri (97mila in Germania, 64mila in Francia, 46mila in Svezia).

LA PROTEZIONE SUSSIDIARIA
Sotto il profilo umanitario, invece, è naturale auspicare che nessuno di coloro che fuggono da una situazione di violenza trovi la morte proprio nel tentativo di mettersi in salvo e chiedersi se non sia possibile accordare protezione a quanti ne abbiano bisogno mentre ancora si trovano nel loro paese, provvedendo al loro trasporto in Italia in condizioni di sicurezza attraverso un corridoio umanitario. È possibile, ma solo a certe condizioni.
La normativa italiana in materia di asilo stabilisce, coerentemente con quella europea, che ha diritto alla protezione internazionale lo straniero che in patria rischi di essere perseguitato o di subire un danno grave (in particolare, la minaccia alla vita derivante da un conflitto interno o internazionale). Nel primo caso, si parla di rifugiati ai sensi della Convenzione di Ginevra; nel secondo, di beneficiari di protezione sussidiaria. Entrambe le forme di protezione sono considerate come l’oggetto di un diritto soggettivo: chiunque si trovi nelle condizioni ritenute meritevoli di protezione ha un diritto esigibile a essere accolto. Ora, mentre la persecuzione riguarda, per definizione, minoranze, la necessità di mettersi in salvo da un conflitto può riguardare molti milioni di persone simultaneamente. L’Unione Europea si difende, implicitamente, dal rischio di dover fronteggiare un impegno così gravoso facendo valere una clausola restrittiva: la protezione può essere richiesta solo sul territorio dell’Unione. E lo fa sapendo bene che saranno le barriere fisiche e politiche (mare, deserto, o le pratiche repressive da parte delle autorità libiche, per esempio) ad abbattere il numero effettivo delle richieste di protezione rispetto a quello potenziale. In altri termini, è l’idea stessa di protezione sussidiaria quale diritto a richiedere che non esista un vero corridoio umanitario.
Naturalmente, una scelta possibile è quella di dar luogo a realizzazioni parziali di quel corridoio, con interventi che rendano più facilmente valicabili una parte delle barriere fisico-politiche che separano l’Unione Europea dai paesi di fuga. L’operazione Mare Nostrum, mirata a soccorrere in alto mare quanti si siano imbarcati alla volta delle nostre coste, è un’azione di questo tipo: nei primi cinque mesi di attività sono state salvate circa 12mila persone. Scelte parziali di questo genere incentivano le partenze, con conseguente (e positivo) aumento del numero di persone che riescono a mettersi in salvo dai conflitti. Nel gennaio 2014, per esempio, sono sbarcate 2.156 persone: dieci volte di più di quelle arrivate nel gennaio 2013. Hanno invece, paradossalmente e a dispetto dell’impegno profuso, uneffetto ambiguo sul numero di vittime, dato l’incremento del flusso.
Quanto estendere gli interventi di questa natura è, in un contesto del genere, decisione lasciata alla discrezione delle istituzioni politiche. Lo stesso fatto, però, che vi sia una scelta discrezionale rende evidente come il diritto alla protezione sussidiaria finisca per essere, di fatto, temperato da criteri di sostenibilità e di opportunità, degradando a interesse legittimo: liberi gli interessati di perseguirlo, libero lo Stato di contrapporre un prevalente interesse collettivo.

LA PROTEZIONE TEMPORANEA
Per proteggere le vite minacciate da un conflitto, sarebbe forse più opportuno e meno costoso ricorrere a un diverso strumento giuridico: la concessione – atto discrezionale, appunto – della protezione temporanea, prevista sia a livello italiano (art. 20 decreto legislativo 286/1998) sia a livello dell’Unione Europea (direttiva 2001/55/Ce, recepita in Italia dal decreto legislativo 85/2003). Il Governo italiano o, in chiave europea, quello di ciascuno Stato membro, decide, sulla base della sostenibilità sociale, quante persone accogliere tra quelle in pericolo e le modalità per accoglierle – incluso, se serve, un programma di evacuazione che garantisca la sicurezza dei profughi. Il prevedibile eccesso di domande di ammissione rispetto al tetto fissato richiederà una selezione che potrà avvenire sulla base di criteri legati alla pericolosità del contesto di provenienza, alla vulnerabilità dei richiedenti, alla loro situazione familiare, e così via.
E per quanti non vengano ammessi alla protezione temporanea? Resterebbe l’attuale diritto alla protezione sussidiaria, esercitabile sul territorio della UE, ma senza che vengano messi in atto interventi di soccorso tali da sortire un effetto di richiamo: i rischi del viaggio sono noti, e spetterebbe all’interessato decidere se affrontarli. Si può obiettare che così ci sarebbero comunque naufragi e perdite di vite umane nei nostri mari. È vero e, se si ritiene la cosa intollerabile, c’è una sola ricetta: abolire del tutto il diritto alla protezione sussidiaria; il numero dei viaggi, e con esso quello delle vittime, si ridurrebbe sensibilmente se l’arrivo in Italia o nel territorio dell’Unione Europea non desse alcuna chance di potervi restare. Non sono affatto sicuro, però, che questa scelta sia più nobile, sotto il profilo umanitario, della precedente.
Che un impianto come quello proposto risulti vantaggioso o meno per una popolazione esposta al conflitto dipende, naturalmente, dal tetto numerico fissato col provvedimento di protezione temporanea. Perché non venga tenuto troppo basso, è importante che la società ospitante percepisca l’afflusso di profughi come un elemento capace di accrescere il benessere collettivo, piuttosto che costituire un onere intollerabile per il sistema di welfare. Le norme sulla protezione temporanea consentono già oggi un immediato accesso dei beneficiari al mercato del lavoro. Per evitare, allo stesso tempo, conflitti col disoccupato nazionale e i danni dell’assistenzialismo, le risorse messe a disposizione dallo Stato per l’accoglienza dei profughi potrebbero essere erogate principalmente sotto forma di borse-lavoro capaci di creare opportunità di lavoro altrimenti impossibilitate a emergere; si pensi, per esempio, all’assistenza domiciliare per anziani privi di risorse sufficienti per assumere un badante o una colf.

tratto da lavoce.info

Sergio Briguglio
Fisico e ricercatore dell’ENEA, docente presso il master di mediazione intermediterranea dell’università Ca’ Foscari di Venezia ed esperto di politica dell’immigrazione

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