Il pericolo c’è e nessuno lo vede

Giulietto Chiesa

L’Ucraina come nuova “Terra di mezzo” nella quale si decide il destino del mondo a colpi di propaganda e calcoli economici. Stati Uniti e Russia sono pronti a fronteggiarsi e si scambiano minacce in grado di far crollare i mercati finanziari. In ballo c’è l’attuale assetto globale

chiesaSiamo avviati verso un guerra fredda, nuova, o verso una guerra calda? E di quale guerra si tratterebbe? Certo, nessuno parla di pace, e questo già dovrebbe preoccupare molti. Invece, non è così: tutti sembrano ignorare il pericolo. Ma, nel silenzio quasi generale, c’è chi pensa al nostro futuro.
Per esempio, negli Stati Uniti è in corso la resurrezione dei “sovietologi”, quelli che, con i loro consigli a Clinton, contribuirono non poco allo smantellamento dell’URSS.
Pare che a Washington ci sia carenza di cervelli preparati alla bisogna, cioè allo smantellamento, questa volta, della Russia.
In un articolo del New York Times, significativamente intitolato “Perché la Russia non può permettersi un’altra guerra fredda”, Anders Aslund e Strobe Talbott indicano la via di un “contenimento” più o meno morbido della Russia di Putin. Di più. Secondo loro, non occorre: il leader russo è considerato praticamente già defunto. Se non altro dal punto di vista politico.
Non si tratta di ottimismo di facciata. È la convinzione già presente negli Stati Uniti, vista anche quest’offensiva. La Crimea diventerà russa? Sia pure, ma l’Ucraina è stata conquistata. Quanto basta per portarla nella NATO e far saltare in aria l’intero sistema della sicurezza europea, portando i missili 300 km più avanti verso nord e verso est. La Crimea sarà ripresa subito dopo, quando Putin e la Russia saranno stati entrambi liquidati.
C’è perfino chi ironizza sulla mossa del presidente russo: poveretto, non poteva fare di più. Perché? Perché – scrive il NYT – “la Borsa di Mosca gli stava facendo, mentre lui fletteva i suoi muscoli, un referendum ostile”. Mentre Putin mandava i suoi marines a rafforzare la guarnigione di Crimea e la base navale di Sebastopoli, l’indice RTSI crollava del 12% in poche ore, in pieno panico, giungendo a infliggere una perdita di oltre 60 miliardi di dollari, più del costo delle olimpiadi di Sochi. Il rublo in caduta libera costringeva la Banca Centrale russa ad alzare il tasso d’interesse dell’1,5% per evitare un crollo vero e proprio.
Naturalmente, Aslund – ora senior fellow dell’Istituto Peterson per le relazioni internazionali – usa l’arsenale della propaganda di Washington, attribuendo a Putin l’intenzione di invadere l’Ucraina, cosa che lui non ha nemmeno preso in considerazione.
A Washington usano spesso l’artificio consistente nell’attribuire all’avversario ciò che loro pensano. La Russia persegue comunque il proprio interesse e, dunque, tende a ricompattare attorno a sé quanta più ex Unione Sovietica possibile. Ma Putin ha ripetuto che le sue intenzioni, e quelle della Russia, non includono la riconquista militare di nessuno dei Paesi ex URSS, dunque nemmeno dell’Ucraina. In effetti, molti aspetti confermano che Mosca avrebbe preferito un referendum più morbido di quello deciso a Simferopol’. Ma, di fronte alla reazione di paura dei Russi di Ucraina e di Crimea, dopo la carneficina di Piazza Maidan, una sua linea cedevole avrebbe provocato un’estesa protesta non solo in Ucraina, ma in tutta la Russia.
Ciò detto, per sgomberare il campo dalla propaganda, resta da ammettere che i numeri forniti da Aslund sono reali. Gli Stati Uniti hanno leve decisive, finanziarie e politiche, per fare i conti con Putin, se questi dovesse decidere di non cedere nulla per quanto concerne gli interessi della Russia. A Washington sanno bene che le maggiori compagnie energetiche della Russia sono maggioritariamente statali. Metterle in difficoltà significa mettere in crisi il bilancio della Russia stessa. Al tempo stesso, tutte le compagnie globalizzate russe sono quotate alle Borse di Wall Street, Londra, Parigi e Francoforte. Quasi la metà degli azionisti di Gazprom sono americani (secondo JP Morgan Securities) e la banca che detiene in custodia i loro assets è la Bank of New York Mellon. È la globalizzazione, bellezza, dice Strobe Talbott, ora presidente del Brookings Institution. Tutte le banche russe sono saldamente incastonate nel sistema finanziario globale. Così lo è anche Rosneft, attualmente la prima compagnia petrolifera mondiale.
Dunque, a Washington pensano di poter punire Putin, nel caso insista, in molti modi. L’Ucraina conquistata diventa la nuova arma – energetica – per legargli le mani. Quasi la metà dell’esportazione russa finisce in Europa e tre quarti di essa è composta da gas e petrolio. Tutto questo passa in gran parte dagli oleodotti ex sovietici che attraversano l’Ucraina. Un’Ucraina “americana” significa che quei rubinetti diventano americani. Certo, l’Europa ha bisogno del gas russo e, in caso di chiusura di quei rubinetti, dovrà soffrire non poco. Ma la signora Nuland non ha forse detto “fuck UE”? L’essenziale è che chiudere quei rubinetti significhi infliggere alla Russia una perdita di 100 miliardi di dollari all’anno.
Potrà Putin mantenere il livello di consenso di cui attualmente gode in Russia se dovesse chiedere di stringere la cinghia e ridurre i consumi? E cosa faranno gli oligarchi russi? Hanno trasferito nelle banche occidentali trilioni di dollari che potrebbero essere improvvisamente sequestrati dagli Stati Uniti e congelati a tempo indefinito per punire la Russia riottosa. Può permettersi tutto questo Putin? La risposta di Talbott è “no”. Certo, bisognerà promettere qualcosa in cambio agli Europei, che hanno tutto da perdere. Per esempio, il gas naturale norvegese. E il gas che Stati Uniti e Canada cominciano a produrre dagli scisti bituminosi: gas a basso prezzo, anche se devastante per l’ecologia. Ma che importa? Obama è partito in quarta. C’è un nuovo Eldorado pochi metri sottoterra. Servirà, per i prossimi quindici anni, a garantire agli USA una minore dipendenza dall’importazione energetica esterna e anche, nello stesso tempo, ad incatenare l’Europa agli Stati Uniti.
Sfortunatamente, tutto questo gas dovrà essere prima liquefatto all’origine e poi nuovamente riportato allo stato originario all’arrivo. Si annunciano investimenti colossali. Quanto tempo ci vorrà? Non meno di sei-sette anni. Nel frattempo, aspettiamoci aumenti pesanti della bolletta del gas. E un colpo a tutte le imprese manifatturiere europee, tedesche incluse.
E la Russia? Sarà specularmente anch’essa in difficoltà. Mosca ha un altro mercato che aspetta il suo gas. Più grande di quello europeo. È la Cina. Ma ci vorranno sei o sette anni perché possa arrivare a destinazione. Washington è passata all’offensiva senza andare per il sottile. Per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale, un Governo europeo è apertamente nazista. Perché una tale accelerazione? La risposta non viene da Washington: sui destini dell’Occidente gravano nuvole molto nere. Bisogna vincere prima che arrivi la tempesta. Così pensano. Dopo di loro, il diluvio.

Giulietto Chiesa
Editorialista per diverse testate e riviste (La Stampa, MicroMega, Il manifesto)

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