Doping, a chi nuoce davvero?

Paolo Di Marzio

L’Italia è stata tra i primi Paesi a punire con la stessa sanzione penale chi assume, procura, somministra o comunque favorisce l’uso di farmaci proibiti per alterare le prestazioni sportive

Attività di @uxilia per il progetto "un intervento psicosociale sui fattori di rischio per l'abuso delle sostanze dopanti nei contesti giovanili".

Attività di @uxilia per il progetto “un intervento psicosociale sui
fattori di rischio per l’abuso delle sostanze dopanti nei contesti giovanili”.

Il doping non nasce oggi. Gli studi più recenti accreditano la tesi che gli antichi popoli sudamericani, già prima dell’arrivo di Cristoforo Colombo, utilizzassero la mescalina per migliorare le loro prestazioni. In Mesopotamia gli oppiacei erano conosciuti già millenni prima di Cristo, e da lì si ritiene siano penetrati anche nel mondo greco ed in quello romano.
La verità sembra essere che l’uomo è da sempre alla ricerca di un qualcosa, di un “aiutino”, che lo renda più prestante, più sveglio, più resistente di quello che è davvero, almeno all’apparenza. Questo fenomeno non riguarda solo le manifestazioni sportive. Purtroppo, le anfetamine sono diffuse non solo tra coloro che praticano lo sport a livello agonistico, ma pure tra gli studenti che cercano di incrementare la propria capacità di memoria. Del resto, la ragione per la quale anche persone ricche, famose ed affermate fanno uso di stupefacenti sembra possa individuarsi nel desiderio di superare i propri limiti, quando lo scopo non sia solo, più rozzamente, quello di prevalere sugli altri.
Quando, però, le pratiche dopanti sono svolte per migliorare le prestazioni in una manifestazione sportiva, il fenomeno diviene ancora più pericoloso. Questo perché l’organismo umano, qualsiasi organismo umano, anche quello dei campioni, ha dei limiti e superarli, o anche soltanto avvicinarsi troppo, può produrre effetti devastanti.
All’inizio del ‘900 gli atleti facevano frequente ricorso alla stricnina, che favorisce lo sviluppo della massa muscolare ed è un eccitante del sistema nervoso centrale, ma è pure
un potente veleno. Negli anni ‘60 erano molto utilizzate le anfetamine, stimolanti del sistema nervoso centrale che dovrebbero assicurare una maggiore resistenza allo sforzo.
A fronte, però, di modesti benefici in termini di prestazioni sportive, è stato dimostrato che producono gravi effetti indesiderati a livello cardiovascolare. Chi ha studiato il fenomeno (C. Campania, M. Simone) ritiene che le anfetamine, oggi non più in commercio in Italia, siano il farmaco che ha causato il maggior numero di decessi tra gli sportivi. Più di recente sono stati propagandati come idonei ad assicurare un miglioramento sensibile delle prestazioni sportive gli ormoni anabolizzanti, che indubbiamente favoriscono lo sviluppo della massa muscolare. Ricordo che ancora qualche decennio fa erano esposti in vendita nelle palestre nelle quali si praticava la cultura fisica o il sollevamento pesi. Anche questi ormoni, però, oltre a danneggiare la struttura di alcuni tessuti e, di conseguenza, a favorire infortuni come la rottura dei tendini, si è dimostrato che aumentano in misura significativa il rischio di ictus e di infarto del miocardio. Più di recente sono state decantate come miracolose per migliorare le prestazioni sportive sostanze come l’ormone della crescita (somatotropina) e l’eritropoietina, l’ormai famosa EPO. Anche questi farmaci producono danni all’organismo e, ad esempio, tanto per cambiare, aumentano in modo esponenziale il rischio di contrarre malattie cardiache anche diversi decenni dopo averli assunti in dosi massicce.
Con riferimento alle manifestazioni agonistiche, alle gare disputate dai campioni, sembra corretto ritenere che, al giorno d’oggi, il doping non si è diffuso maggiormente. È soltanto aumentata la consapevolezza della sua esistenza e della sua dannosità.
Anche se siamo tutti ancora scossi perché un nostro atleta di grandi qualità è stato fermato per avere assunto sostanze dopanti soltanto poco tempo fa, per cercare di contrastare il doping l’Italia si è mossa per tempo. Il primo laboratorio europeo specificamente dedicato alle analisi anti-doping è stato aperto a Firenze nel 1961, mentre solo alle Olimpiadi di Tokio, nel 1964, si è dato inizio al controllo anti-doping sistematico sugli atleti a livello internazionale. Inoltre, l’Italia si è dotata di una normativa anti-doping che puniva con sanzioni penali chi faceva uso di sostanze proibite e chi le distribuiva (art. 3) già con la legge 26.10.1971, n. 1099. Questa legge puniva con un’ammenda anche l’atleta che si rifiutava di sottoporsi ai controlli anti-doping (art. 5). La normativa è stata poi aggiornata con la legge n. 376 del 16.11.2000. È comunque interessante notare che non sono pochi gli Stati i quali, diversamente, non hanno ancora inteso dotarsi di una legislazione anti-doping e comunque non hanno previsto sanzioni penali per chi pratica il doping o ne induce la pratica. Una legislazione che punisca il doping con sanzioni penali, infatti, non è vista di buon occhio da alcuni dei più potenti tra coloro che gestiscono lo sport internazionale, i quali preferirebbero non avere intrusi, come giudici e gendarmi, che curiosano nei loro affari. Questo dato evidenzia un altro profilo meritevole di essere sottolineato. Se l’atleta dopato raggiunge prestazioni elevate, finché non viene scoperto, quell’atleta assicura denaro alla propria società e prestigio ai colori della propria Nazione. Se non si recupera il profilo etico del problema, si finisce per cadere in un conflitto di interessi tra l’atleta e la sua società di appartenenza o, addirittura, il suo Paese. L’atleta ha infatti interesse a raggiungere elevate prestazioni sportive ma, evidentemente, anche a non danneggiare la propria salute. Tuttavia, non è detto che questo interesse debba essere necessariamente comune alla società da cui questo atleta dipende. Non sorprenda poi il riferimento al doping di Stato. I Paesi dell’Est europeo l’hanno praticato sistematicamente solo qualche decennio orsono, somministrando ogni cosa che ritenevano potesse migliorare le prestazioni sportive di qualsiasi atleta, anche se ancora bambino e, a quanto sembra, anche all’insaputa dei malcapitati. Significativa la testimonianza resa in proposito da una straordinaria nuotatrice della DDR, Kornelia Ender. La vittima del doping che subisce i danni maggiori, allora, non è il tifoso, a cui è impedito assistere ad una manifestazione sportiva leale, ma l’atleta, che vede compromessa la propria salute.
La legge italiana sul doping ha il merito di punire con la medesima sanzione penale la condotta di chi assume, procura ad altri, somministra o comunque favorisce l’utilizzo di farmaci proibiti al fine di alterare le prestazioni sportive degli atleti, ed anche la condotta di chi persegua la medesima finalità adottando o sottoponendosi a pratiche mediche, e non farmacologiche, come, ad esempio, l’autotrasfusione del sangue. La legge è stata importante anche per aver previsto la responsabilità penale non solo dell’atleta che assume la sostanza proibita, ma anche di chi gli fornisce o somministra il farmaco dopante (art. 9, L. 376/2000).
Non va, peraltro, trascurato che la legge italiana sul doping mostra indubbiamente dei limiti. Non prevede alcuna sanzione per la pratica del doping al di fuori delle manifestazioni agonistiche ufficiali, almeno espressamente. Inoltre, per l’atleta che rifiuti di sottoporsi ai controlli anti-doping non sono previste sanzioni dalla normativa statuale. Il tutto viene rimesso alle eventuali iniziative di natura disciplinare adottate dalle diverse Federazioni sportive (art. 6, L. 376/2000). Quest’ultima scelta non convince, anche perché si pongono problemi di coerenza dell’ordinamento. Al cittadino sorpreso alla guida di un autoveicolo che rifiuta di sottoporsi al test necessario per verificare che non abbia assunto quantitativi eccessivi di alcol lo Stato infligge una sanzione penale (art. 186, comma 7, D.L.vo 285 del 1992, come mod.). Al giocatore, pur professionista, che rifiuta di sottoporsi al controllo anti-doping lo Stato… non fa nulla, e rimette la vicenda alla valutazione di una Federazione sportiva.
Il problema maggiore, comunque, sembra essere il primo, la mancanza di sanzioni e, ancor più, di controlli sistematici in relazione alle pratiche sportive non agonistiche. Anche in realtà assai piccole, infatti, le autorità locali o anche semplici gruppi di appassionati organizzano manifestazioni sportive amatoriali, e fanno bene naturalmente. Il problema è che pure prevalere nella corsa stracittadina può indurre soggetti vanitosi ad assumere sostanze dopanti, e nessuno controlla.
Il problema doping, allo stato del progresso delle scienze, non può più esaurirsi nel richiamo al dovere di lealtà nelle competizioni sportive, che impone il ripudio della ricerca di scorciatoie per prevalere. Il richiamo alla correttezza del confronto sportivo rimane fondamentale, ma il problema odierno è che sappiamo ormai con certezza che il doping fa male alla salute, e tanto.
Forse sarebbe possibile richiedere al CONI o ad altre pubbliche istituzioni, anche direttamente alle ASL territoriali, ad esempio, di procedere almeno a qualche controllo saltuario anche in presenza di competizioni sportive non agonistiche. Ne va della salute di tanti, e la Repubblica italiana è chiamata dalla sua stessa Costituzione (art. 32 Cost.) a tutelare la salute come diritto fondamentale dell’ individuo.

Paolo Di Marzio
Magistrato Sezione Penale tribunale di Napoli

Rispondi