Il coraggio di cambiare le regole del gioco

Giovanni Pullini

Sono convinto si debba azzerare il sistema così com’è concepito e ricominciare dalla scuola, dai giovanissimi, mettendo in campo strutture per lo sport e giovani professionalmente preparati, varando un piano che porti alla naturale separazione tra sport amatoriale e sport professionale, o sport spettacolo, che dir si voglia, con regole diverse, ma certe. Solamente così lo sport tornerà ad essere quel linguaggio universale colto dai giovani in maniera naturale

Noi ex militanti del Fair Play – associazione riconosciuta dal Coni – ormai liberi pensatori, abbiamo sempre sostenuto un principio fondamentale che, un tempo, coniugava tre realtà distinte:
“Sport – Etica – Giovani”. Pensavamo che il nemico giurato di questo credo, di questo nobile spirito, di questo importante pubblico, fosse il “doping”.
Ne abbiamo parlato molto e in diversi palcoscenici, con conclusioni, alle volte, assolutamente disarmanti.
Ma perché continuiamo a porci domande sul rapporto etica – doping – sport pur rendendoci conto che ogni battaglia è ormai perduta?
Nei convegni da noi promossi o ai quali abbiamo partecipato condividendo linee di pensiero con altri addetti ai lavori, abbiamo speso fiumi di parole e proiettato numerose slides più o meno indicative su questo argomento, cercando formule di speranza e testimonianze di personaggi o atleti ai quali abbiamo chiesto di ergersi a paladini di questo spirito. Non riusciamo o, forse, non vogliamo renderci conto che l’ideologia dell’eccellenza sportiva, generata dal successo e sostenuta dai profitti mediatici e finanziari di cui godono molti campioni, a qualsiasi livello, ha annichilito l’eccellenza morale, sociale, professionale e, di conseguenza, il rispetto dell’etica sportiva.
Quando iniziamo a perdere i valori lungo la strada, perdiamo i punti di riferimento di uno stile di vita.
Quando un importante risultato sportivo si raggiunge attraverso una scorciatoia, che siano agenti anabolizzanti, ormoni, epo, sostanze stimolanti o trattamenti talmente sofisticati da non essere nemmeno facilmente individuabili, si produce un inganno alla libertà dell’essere umano in quanto persona, ma, soprattutto, l’atleta mente a se stesso.
Quando vengono violate le regole del gioco leale, si ruba a qualcuno la vittoria e il furto è un reato punito dal codice penale!
Eppure, tutto questo avviene continuamente sotto i nostri occhi.
Istituzioni pubbliche, Coni, case farmaceutiche, medici, arbitri, tecnici e allenatori, società sportive, perfino i giornalisti.
Tutti sono coinvolti in qualche modo e a diverso titolo. Allora, dov’è la risposta?
Perché non abbiamo il coraggio di cambiare le regole e ricominciare tutto da capo, dai giovanissimi, dalle scuole?
Perché non siamo capaci di riconoscere, ad esempio, che il calcio non è più uno sport, ma un gioco professionale straordinariamente pagato, che fa spettacolo e, come tale, dovrebbe non essere più riconosciuto dal Coni e dalle federazioni?
La stessa cosa dovrebbe valere per il ciclismo, la pesistica, lo sci e tutte quelle che oggi definiamo “discipline sportive e olimpiche”, ma che, in realtà, hanno perso ogni punto di riferimento con lo spirito olimpico.
Vorrei citare uno dei principi cardine della carta olimpica.
Recita: “Lo scopo dell’Olimpismo è quello di porre in ogni luogo lo sport al servizio dello sviluppo armonico dell’uomo, allo scopo di incentivare la nascita di una società pacifica, desiderosa di salvaguardare la dignità umana”.
Nello sport moderno, troviamo ben poco di questo nobile principio.
È tempo di ammetterlo. Lo sport si evolve in uno spartiacque: da un lato, il bello, il proselitismo, il rispetto delle regole e dei valori morali; dall’altro, il successo a qualunque costo e le inevitabili derive dettate dal denaro. In questo punto dovremmo tracciare un solco significativo tra sport amatoriale, nel quale la partecipazione agonistica è sana, spontanea e risponde a numerose esigenze fisiche, e lo sport professionale (o spettacolo?) dove tutto è concesso. È venuto, forse, il momento di associare una nuova definizione al concetto di “Sport” dimenticando gli ormai vecchi luoghi comuni.
Sport significa ancora gioco, divertimento?
La forza, la spontaneità, l’energia, messe in campo insieme alle regole che dovrebbero trasformare questo gioco/divertimento in elemento di cultura e bellezza, sono ancora in grado di rappresentare elementi nobilitanti?
Se nelle nostre menti è radicato questo semplice concetto di sport, perché ci troviamo quotidianamente in presenza di storie di atleti famosi che, improvvisamente, si riscoprono ingannatori di se stessi e schiavi di tecniche suggerite da medici correi che propongono prodotti “miracolosi” e società che offrono denaro, molto denaro, come premio per un risultato ottenuto a tutti i costi?
Certamente questi atleti hanno assaporato il successo e la vittoria unitamente a fiumi di denaro che hanno premiato i loro risultati. Quando si parla di questi “campioni” nelle diverse specialità, si parla di “sport ad alto livello”. Passi pure il concetto di “alto livello”, ma veramente possiamo ancora chiamarlo sport?
Alcuni di questi atleti si stanno ancora leccando le ferite dopo un umiliante ritiro dalla scena sportiva. Altri, addirittura, hanno lasciato la madre terra proprio a causa di quelle sostanze che avrebbero dovuto trasformarli in dei di un olimpo ormai pieno di crepe.
Noi, liberi pensatori di sport, parliamo ancora di etica quale elemento essenziale per ritrovare il giusto cammino. Ma cosa possono fare piccoli predicatori come noi, se non cercare di fare proselitismo per ritrovare il senso di “competere per la gloria di partecipare”? Ci troviamo a combattere contro titani quali le case farmaceutiche, i media, che trasformano eventi olimpici in strumenti di marketing politico-industriale, gli interessi economici che ruotano attorno ai mercanti di uomini per lo sport (calciatori, piloti, giocatori di basket, sciatori…). Essi predicano “l’obbligo di competere e il vincere ad ogni costo”. Qui non c’è spazio per la cultura della sconfitta, per il diritto di ciascuno a non dover diventare un campione a tutti costi.
È una lotta impari e lo sappiamo, ma non vogliamo ammetterlo!
Ormai, quello di De Coubertin è divenuto un lungo sonno dal quale difficilmente ci risveglieremo. Per parlare di un eroe moderno, che combatte strenuamente contro il doping, mi viene in mente Sandro Donati. Quante denunce nei suoi libri, quante battaglie all’interno di quel palazzo del Coni nel quale lamentava annidarsi dirigenti incompetenti e servili e poltronisti di ogni specie.
Un ente presente solo da noi in Italia. Gli altri Stati hanno il Ministero dello Sport.
Sono convinto si debba azzerare il sistema così com’è concepito e ricominciare dalla scuola, dai giovanissimi, mettendo in campo strutture per lo sport e giovani professionalmente preparati, varando un piano decennale che porti alla naturale separazione tra sport amatoriale e sport professionale, o sport spettacolo, che dir si voglia, con regole diverse, ma certe.
Solamente così lo sport tornerà ad essere quel linguaggio universale colto dai giovani in maniera naturale.
Occorre, però, che qualcuno (istituzioni, insegnanti, allenatori e anche noi stessi ex atleti, ora umili predicatori di un credo spirituale) crei le condizioni adatte a sfruttare le possibilità sociali, culturali ed etiche offerte dallo sport: nuovamente educazione, piacere dell’incontro, anche competitivo, e scuola di vita per i giovani, senza bisogno della ricerca di inganni.
Lo sport merita di essere riscoperto e riconsegnato alle future generazioni come un valore di virtù, bellezza e speranza. Solo allora comprenderemo interamente il contenuto di natura etica presente in almeno tre degli otto principi fondamentali della Carta olimpica.
Concludo con una citazione di Albert Camus: “In fin dei conti, quello che so con maggiore certezza sulla morale e sugli obblighi degli uomini, lo devo allo sport”.

Giovanni Pullini
Avvocato e Dottore di Ricerca in Diritto Industriale.
Docente a contratto in Diritto Commerciale CCdS LT in Economia Presso l’Università di Udine.
Si occupa di etica e fair play nella Regione Friuli Venezia Giulia in UdinEtica

Rispondi