Tutta colpa della mela marcia?

Alessandro Bortolotti

Invece di analizzare il contesto nel quale si genera l’uso di sostanze dopanti, chi risulta positivo viene emarginato e messo alla gogna. Così alcuni atleti vengono sacrificati sull’altare del profitto e dell’immagine nazionale, mentre il sistema continua a fagocitare altre vite

La tesi che intendo sostenere in queste righe è semplice: a mio avviso, la pratica del doping va considerata un fenomeno socialmente determinato (per non dire stabilito), contrariamente a come viene presentato generalmente attraverso la retorica pubblica. Siamo soliti trattare il tema del doping a livello quasi esclusivamente individuale: il “farsi”, insomma, sarebbe frutto della scelta del singolo atleta bramoso di vittoria.
Questa visione del fenomeno risulta funzionale a mantenere inalterato il gioco della macchina stessa che lo mette in moto, la quale, attraverso il meccanismo diabolico dell’addossare la responsabilità della “macchia” al singolo, può permettersi di rimanere fuori dai giochi e, dunque, presentarsi davanti a tutti come totalmente pulita.
Ovviamente, la mia tesi è una generalizzazione, può essere soggetta a “svarioni” clamorosi. Posso, tuttavia, fare affidamento su una conoscenza personale piuttosto ampia, ancorché aneddotica, al fine di individuare dei riferimenti per sostenerla con convinzione.
Il primo va, ovviamente, al cosiddetto “doping di Stato”. Così è stata definita la pratica che, nell’ex Germania Est, ha portato alla vittoria numerosi atleti in svariate discipline olimpiche negli anni in cui il Muro di Berlino rappresentava una solida realtà. Si conoscono casi clamorosi di nuotatrici ed atlete sottoposte a pesanti “cure ormonali” che hanno consegnato loro (e alla Nazione che rappresentavano) vittorie ed onori. Questi spingevano in alto l’ideologia socialista che rappresentavano, il che ha, di fatto, aumentato il tonfo alla caduta del “socialismo reale”. Interessante notare il seguente fattore di genere: si trattava soprattutto di donne perché, nel loro ambito, la concorrenza internazionale era inferiore. Quindi, in una logica strettamente manageriale, del tipo costi/benefici, maggiori le probabilità di successo del “programma”. Non dimentichiamo che ciò ha condotto ad un notevole tributo in termini di sofferenza individuale: clamoroso il caso di una lanciatrice pressoché costretta a cambiare sesso a causa del bombardamento ormonale maschile alla quale è stata sottoposta per aumentare il suo livello di forza.
Ma non andava tanto meglio nei sistemi contrapposti, i cosiddetti “regimi democratici”. Per motivazioni legate alla sete di guadagno o al mantenimento di posti di comando negli enti preposti al controllo delle attività istituzionali (poco importa se comitati o federazioni nazionali o internazionali), al fine di contrastare le superpotenze avverse una qualche forma di aiuto andava trovata.
Vale la pena aprire qui una parentesi riguardo ad una caratteristica interessante dello sport, la sua natura estremamente adattabile: lo sport è costituito da un insieme di pratiche estremamente trasformabili sulla base del tipo di società che le adotta, ma che, nello stesso tempo, ne trasforma tecniche e regolamenti. Per questo motivo, è stato definito un “camaleonte”.
Ma torniamo al tema dell’influenza sociale del doping nello sport. Abbiamo visto che, storicamente, la guerra fredda aveva supportato tali pratiche attraverso programmi di Stato finalizzati a dare lustro alla Nazione e, di riflesso, all’ideologia rappresentata. Chiaro che, con la caduta del Muro e la fine della logica dei blocchi contrapposti, non c’era più nessun bisogno di agire in tal modo. Tuttavia, la fame di successo non è calata, anzi. Con la sempre maggiore copertura mediatica e il conseguente intervento massiccio degli sponsor, nello “sport spettacolo” il giro d’affari è aumentato enormemente e con esso gli appetiti. Da questo punto di vista, il caso più clamoroso rimane il ciclismo, per motivi di “sub-cultura” specifica (nel doping è sempre stato all’avanguardia) e di tipo tecnico (essendo uno sport di resistenza, di fatica, è indispensabile aiutarsi in qualche modo).
In sostanza, nel momento in cui si individua una “mela marcia” nel mondo sportivo, in realtà dovremmo chiederci quale sia il ruolo giocato dal gruppo sociale che attornia l’atleta. Ad esempio, Marco Pantani era sostanzialmente senza famiglia e circondato da barracuda. Risulta, dunque, l’esempio paradigmatico di una vittima del sistema-ciclismo. Molto diverso parrebbe il caso di Lance Armstrong, ma, in realtà, pare che nel mondo del ciclismo tutti sapessero. Del resto, le sue vittorie sono (paradossalmente) lì a testimoniarlo: chiunque abbia fatto un po’ di sport “vero” sa che tali imprese non erano umane. O si trattava di un marziano, oppure… Non a caso è stato tradito da un “compagno” di squadra con il quale ebbe degli screzi per motivi finanziari: alla fine, le motivazioni più profonde di questi soggetti sono prosaicamente legate agli affari, più che alla gloria.
Per concludere, vorrei sottolineare un aspetto relativo alla comunicazione sul doping, mettendo in mostra come il mancato utilizzo di forme capaci di rendere consapevoli possa purtroppo portare ad effetti paradossali. La celeberrima favola di Prokof’ev insegna che continuando ad urlare “al lupo al lupo” si rischia di non farci più caso proprio quando ciò sarebbe utile. Un meccanismo analogo si verifica nel denunciare continuamente chi vince perché dopato: ciò suggerisce una “scorciatoia” ai giovani atleti in grado di cogliere il nesso causa-effetto insito nel messaggio precedente, il quale suona più o meno “chi vuole vincere deve doparsi”. Tenendo presente che, purtroppo, tale affermazione non è molto lontana dalla realtà, concluderei che il “vero” sport è quello che si effettua ben lontano dai riflettori dello spettacolo, ed è lì che dovrebbe lavorare un vero educatore. Alla luce della ribalta sono troppi i compromessi ai quali occorre scendere per continuare la propria attività in forme dignitose.

Alessandro Bortolotti
Ricercatore in Didattica e Pedagogia speciale – Università di Bologna

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