Il fallimento scolastico

Irene Carbone

Mentre il livello di dispersione degli altri Paesi dell’Eurozona tende a calare, anche in vista dei provvedimenti rapidi ed efficaci e dei maggiori fondi destinati, il nostro rimane fisso al 17,6% (contro una media del 12,8%).

La dilagante “sindrome di Pilato”, sottesa all’immobilismo politico degli ultimi anni, ha finito per acuire la gravità del fenomeno della dispersione scolastica.

Da una parte, questa è oggetto di studio di discipline, quali la psicologia e la pedagogia, che la analizzano da un punto di vista individuale; dall’altra, è considerata dalla sociologia il riflesso di un parziale fallimento delle istituzioni.

Si tratta di un problema risultante dalla convergenza di molteplici fattori: in primo luogo, le condizioni familiari giocano un ruolo fondamentale per il soggetto che sia impedito nel portare a termine gli studi del ciclo obbligatorio.

Agiscono influenze socio-culturali, quando non economiche, difficili da sradicare, nonostante il forte anacronismo rispetto all’attualità, tesa a considerare l’Istruzione come primario tra i diritti umani universali e la scuola come fondamentale agenzia nella formazione dell’individuo.

Per entrare più nello specifico, tra le cause dell’evasione scolastica, a livello strettamente psicologico, si trova il disagio giovanile. Fino agli anni ’80 si considerava l’abbandono prematuro della scuola come causa di comportamenti devianti. La pedagogia dell’ultimo ventennio ha invece dimostrato come ciò sia conseguenza della complessità connaturata all’età adolescenziale.

Dovendo affrontare gli inevitabili cambiamenti dell’età, il singolo che si trovi in mancanza di stabili punti di riferimento può affrontare sentimenti di insoddisfazione personale e di demotivazione. In più di qualche circostanza, questi portano all’abbandono fisico del circuito scolastico o, più velatamente, al distacco emotivo-cognitivo-valoriale da esso.
In materia, questo fenomeno viene definito “dropping-out” (letteralmente, cadere fuori) e si suddividono gli individui in cinque categorie: “i cacciati” che la scuola tenterebbe di allontanare perché indesiderati, “i disaffiliati” che non provano alcun attaccamento all’ambiente scolastico, le “mortalità educative” di coloro che non sono in grado di terminare il programma di studio, i “drop-out” capaci, ma non socializzati alle richieste della scuola e, infine, gli studenti che la lasciano per poi rientrarvi nello stesso anno. I “dropped-out”, dunque, escono effettivamente dal circuito scolastico, mentre i cosiddetti “tuned-out” continuano a frequentare gli studi ritenendoli, però, irrilevanti ai fini dei propri obiettivi di vita.

In secondo luogo, tra i fattori influenti sulla dispersione scolastica si collocano le aspettative di ciascuno sulla realtà circostante. Quando i modelli sono quelli offerti da una società interamente proiettata sull’hic et nunc, improntata su risultati immediati senza possibilità di fallimento, lo spirito di progettualità trova ben poco spazio.

Si potrebbe considerare la scuola come prima agenzia mediatrice tra individualità e collettività e, di conseguenza, lasciarle il compito di ridimensionare i valori percepiti dal mondo esterno, aiutando i singoli che si affacciano ad una nuova realtà a metterli in discussione.

Non pare azzardato, dunque, incaricare l’istituzione scolastica di creare sempre nuovi dialoghi tra i diversi bisogni, così da formare individui consapevolmente appartenenti alla società che li circonda.

Allargando l’obiettivo, si arriva ad una prospettiva del “fallimento scolastico” che prende in considerazione la responsabilità delle istituzioni. Forse, quest’ultimo modo di definire il problema appare il più adeguato, offrendo una panoramica che evidenzia il duplice mal adattamento: quello dello studente che non sembra trarre vantaggio dalla scuola per la sua crescita individuale e sociale, e quello della scuola in quanto agenzia istituita per promuovere la maturità individuale e sociale del singolo (Liverta Sempio, Confalonieri e Scaratti, 1999).

Occorre specificare che la riforma della scuola ha quasi sempre goduto della dovuta priorità d’intervento sul “libro bianco del welfare”, senza riscontrare, purtroppo, particolare successo e senza riuscire a far avanzare parimenti l’istituzione con le esigenze della collettività circostante.

Gran parte della responsabilità è attribuibile all’inefficacia delle riforme degli ultimi quindici anni, che non hanno fatto altro che balcanizzare un sistema già frammentato alle radici.

Senza dubbio, i limitati finanziamenti destinati all’Istruzione dimostrano come questa risenta di scelte politiche impegnate a salvaguardare interessi economici di breve periodo piuttosto che investire nel campo dei diritti dei cittadini.

Analizzando, infatti, l’ultimo rapporto dell’Eurostat sull’evoluzione della spesa pubblica, risulta che dal 2008 al 2010, in controtendenza rispetto al trend europeo, l’Italia ha investito in media circa 500 euro in meno per studente, nonostante non si fosse ancora acuita l’attuale crisi finanziaria. Il dato risulta ancora più anomalo se si considera che nemmeno gli Stati Uniti d’America, trovandosi già nel pieno della crisi, hanno ridotto di tanto i finanziamenti all’Istruzione.

Tralasciando la miopia delle ultime strategie riformiste, un altro fattore incisivo nello scarso rilievo della scuola è dato dall’incerto sistema di welfare che ha sempre caratterizzato il nostro Paese, classificabile tra i modelli di tipo “mediterraneo”. Basti considerare che è denominato anche familista, per arrivare in nuce alla questione.
Il nucleo della nostra società è sempre stato la famiglia. Il suo ruolo onnipresente lungo il corso di vita di ciascun individuo ha impedito alle restanti istituzioni di acquisire più importanza. Appare, quindi, naturale che ad ogni diversa agenzia sociale vengano demandate aspettative di minore importanza.

Non v’è quindi troppo di stupefacente nella scarsa rilevanza data alla scuola, dovuta ai più o meno vetusti retaggi, di quanto ce ne sia nello staticismo delle istituzioni che arrancano.

Alla luce di queste considerazioni si comprende ancora più chiaramente l’ultimo monito dell’Eurostat 2012, che descrive un’Italia controcorrente rispetto alla media europea in calo di studenti che abbandonano gli studi.

Mentre il livello di dispersione degli altri Paesi dell’Eurozona tende a calare, anche in vista dei provvedimenti rapidi ed efficaci e dei maggiori fondi destinati, il nostro rimane fisso al 17,6% (contro una media del 12,8%).

A cosa è imputabile, allora, il ritardo di un intervento incisivo?

La risposta non è sicuramente univoca, ma di fondo potrebbe esserci l’incapacità di chi abita la “sala dei bottoni” di colmare le distanze.

La distanza delle istituzioni dalla società, della società dall’individuo e di quest’ultimo dalle istituzioni.

Mai come in questi ultimi anni, a dispetto delle apparenze, si è verificato un tanto sordido distacco tra singoli e collettività, inevitabilmente sfociato in un reciproco senso di non-curanza.

Non-curanza che si potrebbe definire, in modo provocatorio, auto-esclusione ed allontanamento del cittadino da se stesso, nel momento in cui rinuncia ad un diritto universalmente stabilito come tale.

E se è stato classificato come diritto e non più come privilegio, come tale va insegnato, paradossalmente proprio dalla scuola.

Il diritto allo studio è sancito dall’articolo 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani in quanto fondamentale e inalienabile. È stato poi elevato a rango di ius cogens mediante il “patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali” del 1966, ratificato anche dall’Italia. Ancora, lo stesso è garantito dalla nostra Costituzione ai commi 3 e 4 dell’articolo 34. È opportuno adoperarsi affinché questi precetti non rimangano uniche voces clamantes in deserto e affinché proprio l’agenzia scolastica si assuma l’onere e l’onore di assolvere alle richieste ed ai bisogni di quanti ne usufruiscono.

La scuola, per concludere, dovrebbe innanzi tutto concedere e insegnare il fallimento, piuttosto che negarlo.

Irene Carbone
Università degli Studi di Padova Facoltà di Scienze Politiche, Relazioni Internazionali e Diritti Umani

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