Il prezzo della salute

Ottavio Davini

Tratto dall’Introduzione del libro: “Per un sistema sanitario sostenibile nel terzo millennio”
di Ottavio Davini.
Prefazione a cura di Ignazio Marino (Editore Nutrimenti)

Il XX secolo è stato un periodo denso di tragedie di proporzioni globali, tanto da venire definito, per la sua intensità, il secolo breve. Eppure, è stato anche il secolo che ha portato l’uomo a sbarcare definitivamente sul pianeta della scienza – metodologicamente compiuta ed in grado, finalmente, di dare risposte a molte delle necessità del genere umano – così come è sbarcato sulla Luna.
Al medesimo tempo, è stato il primo secolo – e certamente anche l’ultimo – durante il quale la popolazione umana, cresciuta con estrema lentezza nel corso di migliaia di anni, improvvisamente è esplosa, quadruplicando e passando da 1,5 a oltre 6 miliardi di individui.
Stiamo vivendo un’epoca eccezionale, irripetibile nella storia dell’umanità, ma non abbiamo alcuna contezza sia della straordinarietà del presente, sia dell’incertezza del futuro.
Pochi trovano il coraggio di dire che il mondo non sarà mai più lo stesso di prima.
Per decine di migliaia di anni il genere umano si è faticosamente trascinato dalla savana alle steppe e da continente a continente: pochi milioni di individui nomadi e in perenne lotta per la sopravvivenza. Poi si è affacciata quella che oggi denominiamo la fase storica dell’umanità e sono nate le grandi civiltà, dagli Egizi ai Fenici, dai Greci ai Romani. Ma ancora all’epoca di Cristo la Terra era popolata da non più di 250 milioni di individui.
Con l’avvento delle grandi civiltà, l’umanità ha consolidato definitivamente il suo ruolo di specie dominante, introducendo strumenti indispensabili al progresso come la scrittura, forgiando i metalli, modellando le terre e, per la verità, producendo le prime – seppure modeste – cicatrici sulla superficie del pianeta, come il disboscamento selvaggio in Grecia o la sua versione più tragica dell’isola di Pasqua, molti anni dopo.
Non diversa è stata la storia per molti secoli ancora: non era diversa nei momenti più bui del Medioevo, né di molto lo era nel Rinascimento o all’epoca del Re Sole. Per millenni, a fronte di periodiche spinte demografiche, si scatenavano “controspinte” dovute a carestie, guerre o malattie epidemiche (peste, vaiolo, tifo petecchiale, sifilide), che ridimensionavano drasticamente la popolazione.
Si consideri che, dall’anno 1 dell’era cristiana sino al 1700, il tasso medio annuale di crescita demografica è stato intorno allo 0,5%.
Poi crebbe la disponibilità di cibo, arrivò la rivoluzione industriale e, dapprima lentamente, poi con crescente furia, tutto è cambiato: dal 1750 al 1800 il tasso di crescita balzò al 4,4%.
Se facciamo il gioco dell’orologio e immaginiamo la storia dell’homo sapiens sapiens (geneticamente parlando siamo noi) distribuita nell’arco di un solo giorno, potremmo dire che per le prime 23 ore e 58 minuti la popolazione del pianeta non ha mai superato il miliardo di individui, crescendo in modo irregolare e molto lentamente. Poi è schizzata a 6-7 miliardi. Fino a trenta secondi a mezzanotte, ogni nuovo nato poteva sperare ragionevolmente di vivere in media, a parte fortunate eccezioni, non più di trenta o quarant’anni, a seconda del momento o del luogo dove vedeva la luce. Ma negli ultimi secondi, almeno in alcune parti del globo, questa aspettativa di vita è cresciuta di colpo, sino a superare gli ottant’anni.
Per chi nasce oggi in un Paese ricco, il rischio di morire prima di compiere un anno è inferiore al 5 per mille (solo negli Stati Uniti è maggiore) e la possibilità di morire di parto per una donna si è ridotta, in Italia, ad una su ventimila.
Se volessimo rappresentare graficamente questa dinamica, otterremmo una linea praticamente piatta, con un’improvvisa e rapidissima impennata verso la fine.
Questo impressionante e fulmineo incremento della popolazione e della durata della vita degli esseri umani si è accompagnato ad un’esplosione del potere tecnologico. La scienza, dopo aver giocherellato per millenni, sospesa tra superstizione e qualche rara, felice intuizione, si è fatta strumento sistematico di egemonia.
Questa egemonia dell’uomo sul pianeta mediante la scienza ha reso possibile ciò che appariva sovrannaturale, ha espanso le nostre facoltà, ha cancellato le distanze, ha reso quasi impronunciabile, perché eretica per l’ideologia dominante, la parola ‘impossibile’.
Cos’è accaduto?
A cosa dobbiamo questa formidabile accelerazione, che ha prodotto un mondo sempre più veloce e senza confini che gira insaziabile intorno a noi?
E, soprattutto, quanto a lungo possiamo reggere questa accelerazione e questa velocità?
Esistono buone ragioni per essere preoccupati, anche se il mantra della fede nel progresso ha intorpidito i nostri sensi e pochi sembrano rendersi conto di quanto si stia correndo sul filo.
Il rischio sta nel fatto che il potere della tecnologia si è anche rivolto verso di noi, verso le nostre vite: senza la tecnologia, la nostra regressione potrebbe essere fulminea, molto più di quanto non sia stato il nostro progresso.
Negli ultimi anni abbiamo avuto numerose riprove di questa possibilità.
Un albero, colpito da un fulmine, si abbatte su una linea ad alta tensione e produce un black-out che congela l’esistenza di milioni di individui per diverse ore.
Un gruppo di terroristi suicidi in un colpo solo uccide tremila persone e mina alle radici la nostra sicurezza e la nostra libertà di movimento.
Un altro gruppo di terroristi della finanza – in giacca, cravatta, laptop e cellulare – mette in ginocchio l’economia di tutto il pianeta; nessuno ha contato le vittime, ma, con ogni probabilità, sono state (e saranno, perché questo genere di attacchi terroristici si ripete e si ripeterà ancora molte volte) molto più di tremila.
Oppure, a causa di un’esplosione su una piattaforma petrolifera, l’oceano è inondato da milioni di barili di greggio, con un danno ambientale che durerà generazioni.
O Fukushima, la cui storia intera è ancora da scrivere.
Nulla di tutto ciò avrebbe potuto realizzarsi anche solo cent’anni fa, perché non sarebbe stata possibile l’azione (umana) all’origine o perché l’effetto dell’evento naturale sarebbe stato trascurabile, con conseguenze su un’area estremamente più circoscritta.
Occupati come siamo a sopravvivere alla crisi di turno – economica, finanziaria, politica, energetica – il nostro livello di distrazione è tale che non percepiamo come il vero problema da affrontare, e risolvere, per la nostra generazione, e soprattutto per quelle a venire, è come mantenere quello che si è ottenuto (in termini di benessere, felicità, salute), considerando che molti altri aspireranno – legittimamente – ad ottenerlo.
La soluzione – ammesso che ne esista una – non è quindi tattica (come affrontiamo questo problema che si presenta ora), ma strategica, e quindi è una soluzione che deve incidere sull’idea che l’umanità ha di progresso e di futuro.
Faccio subito un esempio: la crisi economica attuale sta falcidiando (inevitabilmente?) il welfare: è facile recuperare soldi sollevando il piede dall’acceleratore della previdenza o della Sanità. In entrambi i casi, però, soprattutto se l’intervento è fatto in modo frettoloso e con il fiato dei mercati sul collo, il rischio è di determinare (o accentuare) iniquità.
Lascio il tema della previdenza agli esperti, ma, per quello che riguarda la Sanità, è evidente che è ora di immaginare interventi strutturali non solo nel senso comunemente inteso (recentemente, in Italia, la spending review ha fallito l’obiettivo, pur perseguibile, di effettuare interventi modulati, trasformandoli in tagli sostanzialmente lineari), ma incidendo in modo profondo sulle modalità con cui si genera una domanda che, conservando invariata la cornice, non potrà mai più essere soddisfatta.
Nel nostro e in altri Paesi accade, inoltre, che politici mediocri e del tutto privi di competenze propongano semplicistiche soluzioni che evocano l’efficienza di stampo produttivistico come la chiave per risolvere il problema. Nessuno nega che esistano ancora margini in questo ambito, ma sono modeste le risorse risparmiabili su questa linea a confronto di quelle recuperabili mediante una strategia che metta in discussione – questo sì in modo strutturale – il livello perverso della domanda e la sua irrefrenabile tendenza alla continua crescita.
La tesi che propongo in questo libro, che in questo senso si farà libro ‘politico’, è che la soluzione vada ricercata in profondità e stia essenzialmente nell’accettare il fatto che esistono dei limiti, non proporsi di superarli ad ogni costo e imparare a convivere con essi.

Ottavio Davini
Medico ospedaliero e radiologo, già direttore sanitario dell’Ospedale Le Molinette di Torino

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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