La crisi dell’eurozona

Cesare Pinelli

L’opacità dei decisori politici viene ulteriormente rafforzata nel modo in cui la loro azione viene rappresentata a livello nazionale, dove media e partiti cooperano decisivamente con i Governi nell’isolare l’Unione dall’immaginazione politica.

La crisi dell’eurozona non ha soltanto confermato la scarsa credibilità democratica dell’Unione Europea, ma ha anche dissolto la narrazione dell’Unione quale organizzazione tecnocratica ben funzionante che aveva avvolto le sue prestazioni per parecchi decenni. Questi giudizi, è bene precisarlo subito, non appartengono ad un euroscettico, che può esibirli come un trofeo, ma ad un europeista molto preoccupato che cerca ancora vie d’uscita accettabili per un’impresa nella quale continua a credere anche quando la vede vacillare. In questo senso, ha ragione Barbara Spinelli quando scrive che, oggi, pure gli europeisti non possono che essere “scettici”.
I giudizi da me espressi sono comunque più specifici di un generico sentimento di scetticismo e muovono da constatazioni difficilmente confutabili. In effetti, già prima che si aprisse il gravissimo capitolo della tenuta finanziaria della Grecia, si capiva che il processo decisionale dell’Unione non risultava idoneo a fronteggiare l’aggressione della finanza globale all’euro. Mentre la Commissione entrava in un cono d’ombra, si accendevano forti conflitti fra gli Stati membri, e fra alcuni dei loro Governi e le rispettive Banche centrali. I conseguenti ritardi delle istituzioni della UE nell’intervenire, con l’eccezione della BCE, dimostravano già allora un’incapacità tale da incentivare ulteriormente la speculazione.
Conseguentemente, ha mostrato limiti l’ipotesi di una differenziazione funzionale, sul piano democratico, tra Stati Membri ed Unione. La legittimazione conseguibile dalla seconda in ragione di risultati raggiungibili solo su scala continentale, o output legitimacy, ne compenserebbe il deficit di rappresentatività democratica, o input legitimacy (Majone, Scharpf) non perché il confronto Stati Membri/Unione così impostato abbia perso senso, ma perché, se i risultati non si vedono neanche a livello continentale, significa che l’ipotesi si rivela quantomeno incompleta e, soprattutto, che il sistema ha bisogno di riforme idonee a potenziarne l’efficienza non meno che la democraticità.
Contrariamente ai sistemi costituzionali nazionali, i quali si fondano su una serie di bilanciamenti tra Democrazia rappresentativa espressa dall’Istituzione parlamentare ed efficienza dell’azione del Governo, chiamato a rispondere davanti al Parlamento del suo operato, nel sistema dell’Unione “l’equilibrio istituzionale” fra elementi intergovernativi e sovranazionali, rappresentati, rispettivamente, dal Consiglio dei Ministri e dalla Commissione insieme al Parlamento Europeo (PE), e la dispersione del potere decisionale amministrativo fra numerosi centri di autorità hanno finora impedito la possibile emersione di un Governo europeo, e con esso la formazione di un circuito credibile fra potere e responsabilità. A rendere tipica l’arena istituzionale della UE è il fatto che chiunque vi eserciti potere politico o amministrativo non ne è responsabile, almeno in via di fatto. Ciò spiega come mai l’Unione produca politiche pubbliche senza esprimere una propria politica (Schmidt). Lo conferma l’assenza di autentici partiti europei quali interlocutori dell’opinione pubblica, nonostante le previsioni del Trattato di Lisbona (2009), nonché l’organizzazione interna del PE, fondata sulla “divisione delle spoglie” tra famiglie politiche che le contrattano secondo un modello consociativo o su vere e proprie divisioni politiche (Priestley). L’opacità dei decisori politici viene poi ulteriormente rafforzata nel modo in cui la loro azione viene rappresentata a livello nazionale, dove media e partiti cooperano decisivamente con i Governi nell’isolare l’Unione dall’immaginazione politica.
Questo è il contesto, molto resistente e risalente, nel quale si colloca la crisi dell’eurozona. Un tipico caso di carenza di output legitimacy che, a sua volta, accentua il disincanto dell’elettorato verso l’Unione e determina l’ascesa del populismo, così riducendo ulteriormente la input legitimacy delle istituzioni politiche europee. Come è stato notato di recente (Hanley), la correlazione fra crisi economica dei singoli Stati membri ed ascesa del populismo è molto bassa, potendo la seconda verificarsi o meno indipendentemente dalla prima. A determinare il successo dei leader e dei movimenti populisti è, piuttosto, la mancanza di visione e di obiettivi politici chiaramente definiti in sede europea, che si rovescia a livello nazionale nel momento in cui cresce la percezione che le decisioni politiche fondamentali vengano assunte a Bruxelles e non nelle capitali nazionali. Nel frattempo, aumenta pure il rischio che i partiti euroscettici, già dotati di un ragguardevole numero di seggi al Parlamento di Strasburgo, costituiscano il gruppo parlamentare di maggioranza a seguito delle elezioni per il rinnovo del PE, previste per la primavera del 2014.
Che fare? Come democratizzare l’Unione e, nello stesso tempo, renderla più efficiente? Per quanto ho affermato finora, la domanda si converte in quella di come garantire all’Unione un vero Governo. Vi è bisogno, per questo, di modificare i trattati europei, e quindi di imbarcarsi in un’impresa che, vista la scarsa propensione europeista della grande maggioranza dei Governi e delle opinioni pubbliche nazionali, costituirebbe un’impresa disperata? Fortunatamente, ma anche paradossalmente, non ve ne sarebbe bisogno. Il Trattato di Lisbona (TUE) consentirebbe già il decollo di un sistema parlamentare, anche se, finora, queste previsioni sono rimaste, non a caso, sulla carta.
L’art. 17 TUE prevede, infatti, che il Consiglio Europeo, che riunisce i Capi di Stato e di Governo, proponga al PE un candidato alla carica di Presidente della Commissione “tenuto conto delle elezioni del Parlamento Europeo”, il quale Parlamento, a sua volta, elegge tale candidato a maggioranza assoluta. Se il candidato non la ottiene, il Consiglio Europeo ne propone un altro, eletto con la stessa procedura. Il Consiglio propone, poi, i membri della Commissione, soggetti collettivamente ad un voto di approvazione del PE. In seguito a tale approvazione, la Commissione è nominata dal Consiglio Europeo.
Sul piano procedurale, il rapporto fra Commissione e PE disegnato dal TUE non differisce dal rapporto di fiducia che, nella gran parte degli Stati membri, collega il Governo al Parlamento. La differenza è che, a proporre la carica di Presidente della Commissione al PE, non è, come nei regimi parlamentari, un Capo dello Stato, così chiamato a dare l’impulso al procedimento di formazione del Governo, ma il Consiglio Europeo, massima Istituzione intergovernativa dell’Unione. Fino ad oggi, nel proporre al PE il candidato alla Presidenza della Commissione, questo ha tenuto conto dei rapporti di forza fra Stati membri anziché dei risultati delle elezioni del PE. Più precisamente, ha potuto tenerne conto, poiché, come abbiamo visto, finora, nello stesso PE, le divisioni politiche fra le grandi famiglie di partiti europei sono sempre state infinitamente meno importanti delle contrapposizioni fra Stati.
Questa situazione non dipende, dunque, dai Trattati, ma dai rapporti politici fra Stati membri e Unione. In particolare, dalla convenienza dei Governi nazionali a mantenere l’assetto istituzionale della UE in uno stato politicamente destrutturato, in modo tale da scaricare su di essa la responsabilità di politiche spesso sgradevoli per i cittadini, addebitabili, invece, soprattutto ai Governi stessi, visto il loro peso nella loro adozione a livello europeo tramite i Consigli dei Ministri ed il Consiglio Europeo.
Ai Governi è finora convenuto mantenere questa situazione. Ma davvero conviene anche oggi, in presenza di una crisi di sfiducia verticale dei cittadini verso le Istituzioni che ormai sta contagiando quelle nazionali? Dopotutto, cambiare il funzionamento delle Istituzioni politiche europee non sarebbe difficile. Basterebbe che i maggiori partiti europei proponessero ciascuno un candidato alla Presidenza della Commissione in occasione delle elezioni del PE del 2014, accompagnandolo con l’indicazione di una piattaforma programmatica semplice e comprensibile. Si avrebbe, allora, la prima vera campagna elettorale europea della storia, basata su contrapposizioni politiche fra diverse visioni del futuro dell’Unione. Il candidato uscito vincente sarebbe proposto dal Consiglio Europeo al PE “tenuto conto delle elezioni del Parlamento Europeo” e la sua Commissione potrebbe allora diventare quel Governo europeo provvisto di input non meno che di output legitimacy che non abbiamo mai avuto. Se i maggiori partiti lo faranno, potranno ancora evitare il rischio che una maggioranza di partiti e movimenti populisti ed euroscettici al Parlamento di Strasburgo trascini l’Unione intera nel baratro. E’ una corsa contro il tempo.

Cesare Pinelli
Professore Ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico
Università di Roma La Sapienza

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