Repubblica semipresidenziale

Andrea Morrone

Cambiare la legge elettorale in senso proporzionale o, comunque, in un senso che non porti a risultati elettorali funzionali ad una dialettica maggioritaria, non costituirebbe una via feconda per rendere il nostro sistema politico diverso da quello che abbiamo finora conosciuto. Ne aggraverebbe semplicemente i difetti.

Tra le questioni che l’esito elettorale pone, centrale è, ancora e ancora di più, quella del futuro della legge elettorale e della forma di governo parlamentare.
Mai come in questa tornata abbiamo registrato la presenza di così tanti attori politici, in palese contraddizione con la legge elettorale vigente, che, invece, spinge a fare coalizioni per vincere il premio di maggioranza. Mai come questa volta è stato contestato il bipolarismo con una proposta concreta “terzopolista” di tipo centrista; proposta, però, uscita dalle urne palesemente sconfitta. Mai prima d’ora la protesta popolare ha avuto modo di tradursi in una forza politica organizzata come il “MoVimento 5 stelle”, in grado di raccogliere, grazie all’“illusione democratica” (Umberto Eco in “la Repubblica” del 6/3/2013) dei blog (e a Beppe Grillo, il sovrano assoluto di questa forma di comunicazione virtuale), un quarto degli elettori, arrivando prima alla Camera dei Deputati, ma senza conquistare il premio, vinto dall’alleanza di centrosinistra. Mai, dal 1994, è stata così incerta la “formula politica” del prossimo Governo: anzi, sembra di essere tornati indietro di oltre due decenni, quando, dopo ogni elezione, si discuteva per settimane sulle possibili formule politiche di governo; peccato che quelle formule nessun voto popolare aveva sanzionato, e peccato che quei Governi duravano, in media, 9 mesi.
Nel nostro caso, si sapeva come sarebbe finita: la cabala dei premi regionali al Senato ha impedito, in forma più drammatica rispetto al 2006, proprio per la parcellizzazione estrema delle issues politiche, che si potesse avere, col voto, una maggioranza ed un Governo. Avevamo una via d’uscita: approvare il “referendum Morrone” contro il “porcellum”, promosso da 1.200.000 cittadini nell’estate del 2011, e ritornare a votare con la legge Mattarella del 1993 attraverso l’uninominale ad un turno. Non è stato possibile per un eccesso di fiducia istituzionale nei partiti che sostenevano il governo Monti, i quali avrebbero dovuto trovare un’impossibile via d’uscita proprio per la chiara assenza di un interesse concreto a farlo, cambiando un sistema elettorale perfettamente coerente con la gestione “partitocratica” della selezione della classe politica nel dare a pochi il potere immenso di nominare l’intero Parlamento, senza alcun controllo democratico.
Siamo dunque arrivati alla fine del bipolarismo? Quale futuro si profila per l’Italia “tripartita” (o, a chi piace, “quadripartita”)? Non basta collegare questo risultato elettorale al c.d. “porcellum”, che pure presenta molte criticità evidenti sulle quali non occorre insistere. Né, mi pare, si possa sostenere che la situazione attuale costituisca il prodotto della riforma elettorale del 1993 e, più in generale, dell’indirizzo in senso maggioritario impresso alla nostra forma di governo dal superamento per via referendaria della proporzionale. Il tema non è questo. Soprattutto, la risposta, ora più di prima, non può essere il ritorno al passato o, se si vuole, un mutamento di rotta verso modelli che, rinunciando al bipolarismo, valorizzino la “rappresentanza” al posto della “governabilità”. Per me il problema italiano – come dimostra proprio il voto del 25/26 febbraio 2013 – non è il deficit di rappresentanza politica, ma l’eccesso di frammentazione e di divisione, prodotto da una “cultura” diffusa che, dietro la maschera della rappresentanza, ha finito per nascondere la pervicace affermazione di qualsivoglia interesse politico “particulare”, al posto del o contro l’interesse generale.
Cambiare la legge elettorale in senso proporzionale o, comunque, in un senso che non porti a risultati elettorali funzionali ad una dialettica maggioritaria, non sarebbe una via feconda per rendere il nostro sistema politico diverso da quello che abbiamo finora conosciuto. Ne aggraverebbe semplicemente i difetti.
Nelle nostre analisi dovremmo anteporre a letture troppo contingenti gli insegnamenti della nostra storia costituzionale. L’Italia è, da troppo tempo, un Paese ideologicamente diviso e politicamente molto frammentato. L’indagine storica ci mostra che, fin dal voto del 2 giugno 1946, l’Italia ha conosciuto un quadro politico molto disomogeneo per la presenza di fratture profonde che dividevano il mondo in due blocchi e, di conseguenza, contrapponevano irriducibilmente i due schieramenti usciti egemoni da quel voto (la DC da un lato e il fronte popolare marxista e socialista dall’altro). L’Italia, però, non era solo spaccata in due: fin da allora, la situazione politica era venuta caratterizzandosi per una lacerante frammentazione, per la presenza, accanto alle forze politiche popolari, di molti partiti piccoli. Fu un merito storico indiscutibile della Costituente essere riuscita ad approvare la Costituzione, nonostante il “muro invisibile di Berlino” che, in ragione della politica internazionale, divideva anche il nostro Paese. Alle spalle dei Costituenti c’erano spinte unificatrici irripetibili: l’antifascismo e l’obiettivo di rifondare lo Stato intorno a principi di integrazione politica che muovevano dal fondamentale primato della persona umana e dal riconoscimento di un catalogo di diritti, ordinati secondo quello schema di “socialità progressiva” proposto da Aldo Moro e accolto dalla Commissione dei Settantacinque (che ebbe il compito di redigere il progetto poi approvato dall’Assemblea costituente). La crisi dei primi mesi del 1947, con la rottura dell’unità antifascista e l’allontanamento dal governo De Gasperi di Togliatti e Nenni, fu però drammatica: anche se non scalfì la parte del progetto di Costituzione dedicata ai valori fondamentali, essa contribuì a indebolire (Leopoldo Elia ha parlato di “elusione” in “la Repubblica” del 29/11/1998) l’ordine del giorno Perassi (5 settembre 1946) sulla forma di governo parlamentare, facendo venir meno lo sforzo diretto a ricercare i necessari “dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo” e a evitare “le degenerazioni del parlamentarismo”. Fu perciò scelto dalla Costituente un sistema di “governo debole” (Augusto Barbera, Il governo parlamentare dallo Statuto albertino alla Costituzione repubblicana, in L’unificazione istituzionale e amministrativa dell’Italia, BUP, Bologna, 2010, 67) che consegna ai partiti politici e alle convenzioni costituzionali tra i partiti (di volta in volta ad excludendum o ad includendum) un ruolo assolutamente egemone. Un modello di governo che Giuseppe Maranini riterrà efficacemente “pseudoparlamentare”.
Questa duplice connotazione non solo fu confermata nelle prime, drammatiche, elezioni politiche del 18 aprile 1948, ma si è consolidata nel corso della storia repubblicana, anche se non sempre in forme analoghe. Semplificando al massimo: in una prima fase, grosso modo fino alla fine degli anni ‘70, disomogeneità e frammentazione non sono state determinanti per frenare la crescita democratica del Paese. L’esigenza della ricostruzione postbellica e la forza unificante della Costituzione (grazie, soprattutto, al ruolo di custode dei principi e dei valori fondamentali svolto dalla Corte costituzionale) hanno avuto la meglio sulle forze dissolutrici, che pure ha conosciuto la nostra Repubblica (basti pensare all’eversione ed al terrorismo rosso e nero). La Costituzione, in definitiva, ha vinto sulle divisioni e sui tentativi di portare ad effetto fratture laceranti. La situazione, però, è mutata negli anni successivi, con la crisi del sistema politico che aveva fondato la Repubblica e che aveva, fino ad allora, contribuito a realizzare la parte più progressiva della Costituzione: con le note conseguenze sul piano della crescita incontrollata del debito pubblico; su quello della corruzione politica e della conseguente opera di “ripulitura”, anche se talora con eccessi massimalisti, della magistratura; con le iniziative popolari per la “riforma della politica”, attraverso la “rivoluzione referendaria” dei primi anni ‘90; con la legge elettorale sui collegi uninominali, ma con correzione proporzionale (il c.d. “mattarellum”) che ha permesso la nascita di governi espressi dal voto e con alternanza di opposti schieramenti politici.
Sappiamo com’è andata. Anziché “chiudere la transizione” da una Democrazia consensuale ormai consumata da pratiche sempre più consociative e partitocratiche ad una Democrazia dell’alternanza, le resistenze dei protagonisti politici di questa stagione, sia i sopravvissuti all’inchiesta “mani pulite”, sia i nuovi soggetti nati nel vuoto così apertosi, sono state così forti da permettere solo di valorizzare, aggravandoli, i fattori divisivi manifestatisi fin dagli albori della Repubblica. Abbiamo avuto, infatti, un “bipolarismo conflittuale e coatto”, un “bipolarismo rusticano”, un “bipolarismo all’italiana”, non una Democrazia bipolare dell’alternanza, quella che conoscono i Paesi ai quali ci rivolgiamo nelle nostre analisi comparatistiche.
Non sbaglia chi sostiene che la crisi attuale, accentuata da diffusi fenomeni di “antipolitica”, non è frutto della nostra Costituzione, ma, soprattutto, responsabilità della classe politica del nostro Paese. Una responsabilità grave ed inevasa. Non possiamo dimenticare che talune cause vanno ricercate anche in alcuni limiti istituzionali, riconducibili a regole che impediscono queste trasformazioni: talora regole della stessa Costituzione (come quelle sul bicameralismo paritario, sul governo come “comitato esecutivo” del Parlamento, sull’indeciso regionalismo, ecc.); talora regole – e sono le più numerose – della legislazione ordinaria e dei regolamenti parlamentari. Quale il loro limite? Sono state pensate e scritte per una Democrazia consensuale necessariamente “bloccata”, proprio perché coerente con l’obiettivo costituente di puntare, lo ripeto, in un contesto internazionale e nazionale diviso in due blocchi, sulle garanzie (piuttosto che sul “governo”), di fronte ai rischi, allora molto alti in Italia, di una nuova “guerra civile”. Regole costituzionali che, non a caso, non si ritrovano in nessuna forma di governo parlamentare europea. Ma, dobbiamo rassegnarci, ormai dal lontano 1989 il Muro è irrimediabilmente caduto…
Dopo le ultime elezioni politiche, si sente già il coro di chi denuncia la fine di una stagione politico-costituzionale, di chi auspica il passaggio da un’incerta Seconda Repubblica ad una, non meno oscura, Terza o Quarta Repubblica, di chi rifiuta la “tensione governista” conosciuta a tutti i livelli di governo (locale, regionale e nazionale), frutto delle leggi maggioritarie degli anni ‘90, additata come fonte di squilibrio tra poteri e di sovraesposizione degli organi di garanzia (magistratura e Capo dello Stato in primis). Certo, l’esperienza di questo ventennio non è stata esaltante. Ma alcuni fatti innovativi e positivi, rispetto alla Democrazia bloccata del recente passato, del quale si è persa troppo presto la memoria, non possono essere ignorati. Mi limito a due esempi: l’alternanza politica; la scelta di maggioranze di governo fatta direttamente da parte dei cittadini. Ammettere i limiti di un’esperienza politico-costituzionale, tuttavia, non può indurci a gettare con l’acqua sporca anche il bambino. In realtà, oggi, proprio dopo le ultime elezioni politiche, la posta in gioco non è più né un impossibile ritorno indietro, né una fuga verso incontrollate forme di rappresentanza politica che amplifichino le fratture politiche esistenti e che sacrifichino l’esigenza essenziale di governare stabilmente il Paese.
Il problema, tuttora irrisolto, è proprio come superare o ridurre la divisione ideologica e la frammentazione politica. La forma di governo parlamentare richiede un sistema strutturato di partiti politici, ma, per funzionare, esige anche strumenti che permettano di andare oltre le fratture (vecchie e nuove), che siano capaci di produrre sintesi politiche. La questione della rappresentanza riguarda, innanzitutto, gli attori politici, non le istituzioni. Non possiamo spostare la prospettiva: trasformando il deficit di rappresentatività degli attori politici oggi esistenti, non più partiti politici strutturati, in un deficit di rappresentanza del modello di governo parlamentare, così come lo abbiamo conosciuto in questi ultimi due decenni. La verità è che il “santo sepolcro” è vuoto (e da tempo): i partiti politici strutturati, da noi più che altrove, hanno lasciato il posto ad altri soggetti (“partiti personali”, movimenti, “partiti-azienda”, cartelli elettorali, ecc.) e non è possibile pensare di resuscitarli con meccanismi elettorali o costituzionali che valorizzino solo, o soprattutto, la componente rappresentativa della Democrazia. Specie in Italia, ciò non serve affatto per curare, ma solo per aggravare irreversibilmente la nostra malattia.
Per queste ragioni, rese evidenti dal risultato uscito dalle urne, diventa obbligata la via per una legge elettorale che riconduca la rappresentanza politica delle domande sociali ad una dimensione capace di ridurre, per superarla, la frammentazione politica; che, in particolare, agevoli la formazione di accordi politici, possibilmente sanzionati col voto, coerenti con l’obiettivo costituzionale di “determinare la politica nazionale”. Si tratta di portare a effetto, correggendolo, il percorso iniziato nel 1993: vincendo, però, le resistenze che fino ad oggi hanno impedito di farlo. Non è più solo una proposta politica, ma un’esigenza costituzionale, resa stringente dalla crisi economica e dalle traiettorie che sta assumendo il processo politico europeo. L’obiettivo costituzionale del pareggio di bilancio (divenuto parte della Costituzione con la revisione del 2012), per chi vuole leggerlo in maniera coerente con lo “stato costituzionale”, come ha fatto il Bundesverfassungsgericht nella decisione del 12 settembre 2012 sul meccanismo europeo di stabilità, impone un sistema politico coeso, istituzioni rappresentative capaci di esprimere decisioni, un sistema di governo stabile e responsabile, strumenti, questi, tutti necessari per garantire la Democrazia e l’eguaglianza nel godimento dei diritti, specie dei più esposti.
E’ altamente probabile, però, che la riforma della legge elettorale da sola non basti: anzi, oggi non basta più. Nella crisi irreversibile del sistema dei partiti, cambiare le regole elettorali mantenendo la forma di governo parlamentare che quel sistema dei partiti presuppone, non avrebbe molto senso: non tanto in linea teorica, ma proprio alla luce della realtà che, da tempo, abbiamo davanti. Occorre, viceversa, puntare su regole (elettorali e costituzionali) che permettano non solo di razionalizzare, semplificandolo, il quadro politico, ma di creare altresì le condizioni istituzionali per assicurare – non con logorati e, nel contesto italiano, ormai inservibili meccanismi di razionalizzazione solo elettorali o solo parlamentari – la stabilità e la governabilità per la dignità e per la tutela della nostra Repubblica. L’esperienza della “V Repubblica” in Francia, con l’elezione diretta del Capo dello Stato e con un sistema elettorale a doppio turno, può rappresentare un punto di riferimento ormai non più solo accademico. In quel modello di governo, infatti, le esigenze della rappresentanza politica sono controbilanciate con l’obiettivo che il voto degli elettori possa tradursi in indirizzi di governo unitari, che s’identificano nel candidato all’Eliseo il quale è, al contempo, capo del Governo e dello Stato. Da un lato, il sistema politico è posto al riparo da rischi di eccessiva frammentazione, essendo la rappresentanza politica assicurata solo a quelle forze che hanno un grado di consenso consistente, stabile e non occasionale; consenso che può essere misurato sia attraverso una competizione tra singoli partiti (nel primo turno), sia mediante alleanze di governo (specie al secondo turno). Da un altro lato, la contestualità delle elezioni per l’Assemblea nazionale e per la Presidenza della Repubblica permette una continuità tra elettori, maggioranza parlamentare e Capo dello Stato che favorisce, da un lato, stabilità politica e governabilità e, dall’altro, la produzione di necessarie “prestazioni di unità”. I rischi connessi alla personalizzazione della leadership, pur sempre inevitabili, appaiono giuridicamente contenuti perché la componente plebiscitaria – che insieme alla componente rappresentativa è consustanziale nelle nostre forme di organizzazione politica – viene istituzionalizzata, tanto nel radicamento del vertice dell’esecutivo nei soggetti politici che lo hanno espresso e sostenuto con il consenso degli elettori, quanto per l’identificazione, nel Presidente della Repubblica, della funzione di indirizzo politico di maggioranza e della funzione di garanzia dell’unità nazionale. Dopo aver guardato per anni e in successione a Londra, Berlino e Madrid, cercando di importare da noi esperienze di governo parlamentari che lì funzionano perché c’è un sistema politico fondato su un numero limitato di partiti forti e strutturati, è forse arrivato il tempo di misurarsi con la sfida che ci viene da Parigi, discutendo seriamente, e non in modo ideologico, della possibilità di seguire l’esperienza della V Repubblica

Andrea Morrone
Professore Ordinario di Diritto Costituzionale, Università Alma Mater Studiorum di Bologna

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