Il voto di scambio scambiato per voto

Francesco Giardinazzo

Certo, Italiani brava gente, mica come quelle comparse che vanno nei prati vestiti di verde a insultare tutti coloro che sono nati fuori dal perimetro del loro comune montano.

“La tristezza del presente ha un valore retroattivo sul passato”
(K. Kraus)

Evento raro come certe congiunzioni astrali, febbraio allinea il Festival della canzone e quello delle elezioni. Cade così anche l’ultima possibilità che il refrain: “In un Paese normale…” possa ancora avere una speranza per noi. Niente da fare. Non ci spetta e non ce lo meritiamo. Perché insistere? Non è forse il caso di adeguarsi all’anomalia, non fosse altro che per capirla e combatterla? La felice coincidenza apre scenari inaspettati e, per una volta, finalmente, l’argomento più serio, le canzoni, avranno la meglio sul tema elettorale, oziosamente considerato importante da una risicata pattuglia di nostalgici (forse nati tutti nel 1921). Certamente di meno rispetto a coloro che seguono con calore e passione, come si conviene ad un Paese che ama il canto e la musica, gli amanti della politica o gli infatuati del meno peggiore dei sistemi politici – la Democrazia – potranno finalmente votare la canzone preferita senza il pericolo che possa tramutarsi, a differenza dell’altro tema, in vita reale. Il bello delle canzoni è questo, no? Il bello delle elezioni è questo, no? Per una volta la politica ruberà l’Ariston a cielo aperto chiamato Italia per una memorabile rassegna della canzone all’italiana verace (come piace a noi). Ma chi di noi ricorda, con un velo di commozione, naturalmente, il migliore dei programmi elettorali escogitato da sempre, ovvero La terra dei cachi (1996) di quegli estremisti di Elio e le Storie tese? Ricordate? “Parcheggi abusivi, applausi abusivi / villette abusive, abusi / sessuali abusivi, tanta voglia di ricominciare abusiva”. E ancora: “Appalti truccati, trapianti truccati, / motorini truccati che scippano / donne truccate. / Il visagista delle dive è truccatissimo”. E poi “Papaveri e papi, la donna cannolo / una lacrima sul visto / Italia sì, Italia no”. “Italia sì, Italia no, Italia bum / la strage impunita”: voteranno i familiari delle vittime delle stragi, di tutte le stragi, in particolare di quelle rimaste ancora, appunto, impunite? “Puoi dir di sì, puoi dir di no / ma questa è la vita”: il consenso sbarrato dalla constatazione puramente fenomenica che le cose stanno così: avete come alternative canore “Papaveri e papere” o “Fin che la barca va”. “Prepariamoci un caffè, / non rechiamoci al caffè, / c’è un commando che ci aspetta / per assassinarci un po’. / Commando sì, commando no, / commando omicida. / Commando pam, commando papapapapam, / ma se c’è la partita / il commando non ci sta e allo stadio se ne va / sventolando il bandierone / non più il sangue scorrerà”. Qui l’analisi sociale è più dolente, agglutinando tradizione (il caffè) e deviazione (il commando omicida) la cui unica sintesi è la mutazione (come le Eumenidi di Eschilo) da omicida a “tifoso” che non farà scorrere altro sangue che quello della parte avversa (e vai con l’Italia dei campanili, delle contrade, eccetera) e di qualche poliziotto incautamente inviato a frapporsi alla tradizione. “Infetto sì? infetto no? / quintali di plasma, / Primario sì, primario dài, ueeeeeé! / Primario fantasma. / Io fantasma non sarò / e al tuo plasma dico no. / Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò / ti devo una pinza / ce l’ho nella panza”. In effetti anche la sanità non sta tanto bene (appurato che Dio è morto e Marx è morto anche lui), che bisognerà tagliare la spesa sanitaria, evitare sprechi e abusi. Ma intanto: “Viva il crogiuolo di pinze / viva il crogiuolo di panze / quanti problemi irrisolti, / ma un cuore grande così!”. Certo, Italiani brava gente, mica come quelle comparse che vanno nei prati vestiti di verde a insultare tutti coloro che sono nati fuori dal perimetro del loro comune montano. E poi, nella migliore tradizione “de noantri”, la benedizione gastronomica che infine mette tutti d’accordo: “Italia sì, Italia no, Italia gnamm! / se famo du’ spaghi. / Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi. / Una pizza in compagnia, / una pizza da solo, un totale di due pizze / e l’Italia è questa qua”. E fatti salvi i diritti del ritornello, si aggiunga “in totale molto pizzo, ma l’Italia non ci sta”. Sul pizzo si sta ancora discutendo, in verità, se sia più bello quello col punto inglese o se i centrini della nonna, che fanno tanto vintage, possano essere abbinati ai nuovi tablets o blackberry di casa nostra. Antico e moderno di nuovo insieme, molto radical chic in verità!
Ma torniamo alle cose serie. Ora, avrà senz’altro ragione Rino Gaetano a dire che Mameli incontra Novaro e scrivono un pezzo ancora in voga. Ma senza nulla togliere al genio romano-calabrese, vanno riconosciuti i diritti di questi audaci musicisti che meglio di qualsiasi classe politica, pool di professori, team di accademici, équipes di chiarissimi antropologi hanno scritto l’epigrafe tombale sull’impossibilità di dirci un Paese normale (il famo “silenzio di tomba”).
Di meglio e di più, giusto per rinfrescare la nostra più che esangue memoria (l’unico condono tombale davvero realizzato) “Il romanzo delle stragi”, di quell’estremista di Pier Paolo Pasolini – non qualificatosi però alla kermesse canora. Si spera in un ripescaggio da parte di incauti smemorati. Naturalmente, si auspica che tra cabina elettorale e televoto vincano, come al solito, coloro i quali si fanno votare anche dai morti (il famoso “consenso tombale”) e che qualcuno si lamenti, nel dopovoto, che non sia stato nominato Presidente del Consiglio il suo cantante preferito. Non mischiamo le cose serie (Sanremo) con quelle più leggere e vaganti (le elezioni politiche). Ci saranno dei ricorsi, si chiederà di contare tutte le schede elettorali, comprese quelle del referendum del 1946, si aspetterà il “fiat” dai palazzi apostolici (ma lì Sanremo viene seguito per omaggio alla toponomastica), si commenteranno a caldo gli exit poll nei salotti televisivi opportuni, si manderanno in anteprima i titoli dei giornali con gli articoli di fondo, di affondo, di spalla (anche cotta), gli elzeviri che i pronti ed arguti “opinion makers” stanno già covando nel barlume dei loro pc. Ma su tutto incombe, orrida e spettrale, l’ipotesi dell’equivoco, il malaugurato incidente che confonde serio e faceto, etico ed estetico, onesto e immorale: l’errore di accomunare la scheda telefonica a quella elettorale. Progresso che speriamo possa presto avverarsi, come succede già in ogni reality show che si rispetti: ascolti e voti, comodo a casa, senza più quella processione laica e vagamente ripetitiva di andare ai seggi col certificato e un documento d’identità valido. Che bello poter dire al candidato avverso: “Sei stato nominato”, spiegandogli che qui la “nomina” non significa un seggio in Parlamento. Sarebbe bello, e secondo me accadrà presto, quando finirà l’assurda separazione tra canzone e politica. Puntiamo tutto sull’energia dell’errore: il voto di scambio scambiato per voto, appunto. Perché Sanremo è Sanremo!

Francesco Giardinazzo
Professore a Contratto di Antropologia dei processi comunicativi e Letteratura Italiana
Università Alma Mater Studiorum di Bologna

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