Ecco il prezzo dei nostri voti

Roberto Saviano

Un lavoro a termine. Una lavatrice. Una ricarica da 50 euro per il cellulare. Nell’Italia in crisi, anche il mercato dei voti si adegua: ora, comprarsi le preferenze costa poco, anzi, pochissimo. Una pratica che parte dal ‘voto di scambio’ criminale, ma è molto più pervasiva. E racconta di un Paese corrotto e disperato.

Un lavoro a termine. Una lavatrice. Una ricarica da 50 euro per il cellulare. Nell’Italia in crisi, anche il mercato dei voti si adegua: ora, comprarsi le preferenze costa poco, anzi, pochissimo. Una pratica che parte dal ‘voto di scambio’ criminale, ma è molto più pervasiva. E racconta di un Paese corrotto e disperato (21 febbraio 2013).
Un voto cinquanta euro. Sei voti per quella determinata parte politica: una lavatrice o un frigorifero a scelta. Un voto familiare per una Tac. Un gruppo di voti e la banca eroga ancora soldi, niente voti niente credito. Un voto per un paio di scarpe da ginnastica, un lampione nel cortile, biglietti per una partita di calcio. Un tempo lontano dalla crisi, votava la famiglia e il primogenito otteneva un posto di lavoro oppure una casa. Oggi, a quanto pare, ci si accontenta anche di molto meno. Come nel dopoguerra, di pacchi di pasta e beni alimentari: siamo in difficoltà e anche chi acquista voti può farlo a buon mercato.
Tra poche ore – domenica 24 e lunedì 25 febbraio – saremo chiamati al voto per il rinnovo dei due rami del Parlamento con una legge elettorale antidemocratica che l’Assemblea uscente non è stata in grado di cambiare. Insieme alle politiche, in Lombardia, Lazio e Molise i cittadini andranno alle urne anche per il rinnovo anticipato dei Consigli regionali e per l’elezione diretta dei Presidenti delle Giunte. Tre regioni simbolo dove il Pdl, i suoi alleati e, in molti casi, l’opposizione hanno dato il loro peggio, fornendo un quadro di degrado politico e, a volte, umano che, come spesso mi è capitato di dire riferendomi alle stravaganze e all’efferatezza delle organizzazioni criminali, se un romanziere avesse voluto inventarlo, non sarebbe riuscito ad arrivare a tanto.
Le elezioni non si vincono a Roma, a Milano, a Torino, come erroneamente si crede, solo perché le grandi città sembrano terreno di lotta tra idee e programmi. Le elezioni si vincono nei paesi, nelle provincie, porta a porta, favore per favore, promessa per promessa, cinquanta euro per cinquanta euro. Tra le elezioni politiche e il territorio esiste un legame fortissimo, direi indissolubile. Se televisioni e carta stampata ci abituano – o forse ci distraggono – con un dibattito che sembra giocarsi tra i candidati alla presidenza del Consiglio, è sul piano locale che tutto viene definito attraverso un uso del voto che non rispetta il sillogismo ti scelgo perché condivido il tuo programma.
Quanto, piuttosto, ti voto perché mi hai fatto un favore, perché me lo farai, perché sei in grado di farmelo. O perché mi paghi per eleggerti. Oltre al voto di scambio criminale, quindi, oltre alla sistematica truffa ordita in danno della nostra Democrazia, truffa che, se smascherata, può essere sanzionata dalla legge (in verità, attualmente le maglie sono piuttosto larghe da garantire impunità in molti casi in cui manifestamente vengono acquistati pacchetti di preferenze), esiste un voto di scambio che definirei “acceleratore di diritti”, qualcosa di “fisiologico” in una Democrazia malfunzionante come è quella italiana. Come ho fatto altre volte, ho deciso di aprire una discussione su Facebook. Ho chiesto a chi mi segue di portare le proprie testimonianze sul voto di scambio. Ho chiesto di raccontare quel che hanno vissuto direttamente o che gli è stato raccontato. Il quadro che emerge è drammatico e invito – certo che la sollecitazione cadrà nel vuoto – i partiti politici e il prossimo Governo a prenderne atto. E a porvi rimedio, se non fosse che, in tanti anni di denunce, una cosa l’ho capita: il voto di scambio, per molti, per troppi, non è un terribile nemico, ma un portentoso alleato, se non, addirittura, una condizione irrinunciabile.
Le testimonianze raccolte su Facebook mi hanno colpito perché, spesso, è più comodo un generico: “Si sa come funziona”, senza mai fare luce sui singoli meccanismi, che soli consentono di cogliere la cifra del fenomeno. E, invece, in molti hanno descritto le loro esperienze, talvolta anche di connivenza. Fabiana ha rifiutato un lavoro in cambio del voto che avrebbe dovuto dare. A Paolo è stato chiesto di sostenere un candidato perché gli fosse confermato il posto. Anna Maria racconta che, a Civitavecchia, un voto valeva cinquanta euro.
Antonio ricorda che, nel suo territorio, offrivano, in cambio del voto di tutto il nucleo familiare, un lavoro al primogenito.
Paola riporta il caso di un amico in Molise: in cambio di un voto gli hanno dato un contratto a tempo determinato durato pochi mesi. Eva dice che, a Scandicci, molti ragazzi hanno venduto il voto per una ricarica al cellulare da cinquanta euro. Serafina rievoca come, negli anni ’60, avevano chiesto a suo nonno (che non ha ceduto) un voto in cambio di un lampione in cortile che, per inciso, sarebbe stato un suo diritto avere. Pino racconta di un meccanismo scoperto dalla Guardia di Finanza: venti euro prima di andare in cabina e venti dopo aver mostrato con il cellulare la foto della scheda completa. Rosalba, per voti comunali, ha visto regalare buste della spesa, lavatrici, frigo. Maurizio riporta una storia inquietante dall’Abruzzo: sette voti per una Tac urgente. Federica parla di pieni benzina in cambio di voti. Anche a Lipari, informa Matteo, i voti venivano comprati a cinquanta euro.
Marù, con molto coraggio, racconta che tutta la sua famiglia ha scelto un candidato in cambio di un’occupazione per il fratello. C’è poi chi ha ricevuto la richiesta di un voto in cambio di un mutuo agevolato: niente voto, niente mutuo. Giorgio racconta di come, a Milano, a giovani precari, prima delle elezioni, sia arrivata una lettera di “indicazione elettorale”, come a dire “o eleggete questo candidato o è difficile che sarete riconfermati.”
Carlo ammette di esserci cascato, ma di non volerlo rifare. Marianna ricorda che, in cambio dell’entrata alla facoltà di Scienze motorie, a cui aveva tutti i titoli per accedere, chiesero il voto a lei e a suo padre. Emilia parla di un voto ceduto per un incarico di scrutatore. Angela di voti dati in cambio della promozione dei figli a scuola. Ermanno, dalla provincia di Caserta, cita voti in cambio di bollette pagate. Sandra ricorda una pratica degli anni ‘50 “in auge” ancora oggi: distribuzione di pacchi di pasta prima delle elezioni.
Simona scrive che, in Salento, vengono dati voti in cambio di bombole del gas per il riscaldamento. Francesco sa addirittura di 25 euro per la preferenza alle primarie. Piperita ricorda a Bari, nel 2006, di un voto in cambio di 25 euro e un paio di scarpe da ginnastica. Emanuela ricorda come la zia e la sua famiglia avessero dato il voto a un candidato per un avanzamento nelle liste d’attesa per visite mediche. Antonella, la prima assunzione, nel 1989, l’ha avuta così, in cambio di un voto. Roberto descrive navette organizzate a Pozzuoli per accompagnare al seggio persone scortate fino alla soglia delle urne, per fare pressione psicologica. Celine, da Aosta, parla di voto in cambio dello sconto sull’assicurazione.
Rossella da Castrovillari scrive che, nella sua città, un politico ha contattato gli studenti fuori sede per chiedere il voto in cambio di un volo andata e ritorno. Giulia da Padova segnala addirittura che venivano distribuiti grembiuli in cambio di voti. Vincenzo dalla Sicilia riporta un meccanismo secondo cui un voto valeva un buono benzina da cinquanta euro. Rossana da Colleferro dichiara di aver assistito a una campagna elettorale in cui la minaccia era che, se non avesse vinto il candidato di riferimento, avrebbero chiuso la scuola calcio. Sergio da Casoria spiega che, in cambio del voto, era stata promessa l’illuminazione di un quartiere. Ennesimo diritto comprato: prima delle elezioni furono piantati i pali senza lampioni. Dopo aver vinto le elezioni, il politico che l’aveva promesso fece mettere anche le luci. È evidente che questa prassi è assolutamente trasversale. Riguarda tutti i partiti in tutta Italia, quindi la partitocrazia nel suo complesso, tranne poche eccezioni, irrilevanti ai fini di un’analisi. Marisa mi ricorda che in Tanzania, sulla porta del presidente di una regione, c’è una scritta in swahili che, tradotta, vuol dire: “La corruzione uccide il diritto”. Ecco, imparerei da questo presidente tanzaniano e aggiungerei, poi, che la ragione per la quale è fondamentale debellare la corruzione è che la vita del diritto è l’unica garanzia per il diritto alla vita.
Non si comprende più, nel nostro Paese, il senso di una lotta reale alla corruzione. In ciò, uscire da “mani pulite” per approdare al ventennio berlusconiano, inglobando in esso anche i sette anni di governo di centrosinistra, ha rappresentato il fallimento sul nascere di una prospettiva di cambiamento. Benedetto Croce, amaramente, affermò una profonda verità quando definì il nostro, il Paese nel quale la controriforma non aveva seguito alcuna riforma. Dopo la catarsi di Tangentopoli arrivò il liberi tutti, travestito da “laissez faire”. E oggi, dopo vent’anni di indecoroso mercimonio, il politico vende le indulgenze. Se il “candidato premier senza esserlo” Silvio Berlusconi è arrivato a promettere restituzioni di soldi in contanti in cambio di voti, sul territorio, nel sottobosco di una campagna elettorale senza dignità politica alcuna, i cacciatori di voti battono il territorio senza tregua. Sono alla ricerca delle disperazioni, delle necessità, dei diritti non concessi, delle storture della burocrazia. Solo in queste settimane lo Stato – sembrano dire e propagandare questi avanguardisti dello scambio elettorale – deve e può occuparsi dei suoi cittadini. I diritti smettono di essere quello che sono stati fino a qualche settimana fa, chimere difficilmente realizzabili.
Smettono di essere sogni da lasciare nel cassetto. Sono di nuovo alla portata dei loro possibili e legittimi titolari: basta pagare una cauzione. Basta rinunciare alla possibilità di esprimere, con il proprio voto, la volontà del cambiamento. E il meccanismo è perfetto, poiché agisce anche sul piano psicologico: che senso ha andare a votare se con la mia preferenza non ho la possibilità di scegliere direttamente il mio rappresentante? Che valore può avere per me un voto che porterà in Parlamento soggetti di cui nulla so e che in alcun modo si sono preoccupati di spiegarmi le ragioni della propria candidatura?
In questo mercato, l’offerta di voti rischia di essere non inferiore alla domanda ed è per questa ragione che, in alcune parti del Paese, un voto può valere una ricarica di poche decine di euro per il cellulare. Come spesso accade, queste realtà, che costituiscono la concreta intelaiatura della Democrazia morente, non suscitano alcun interesse. Il paradosso – o, meglio, la necessaria conseguenza delle cecità – è costituito dal fatto che, negli ultimi giorni, chiunque abbia un pulpito a disposizione ha sentito la necessità di levare alti ammonimenti rispetto ai pericoli insiti nella libera scelta degli elettori.
Come al solito, per i più è la Democrazia il reale problema della Democrazia. Non sono la corruzione, non la coartazione del diritto di voto; questi sono descritti come mali necessari, fenomeni ininfluenti, parte dell’ingranaggio democratico. Ma non è vero. Chi lo dice, chi lo scrive, è corresponsabile e ha un interesse più o meno consapevole alla perpetuazione di questo ordine di cose. La politica, è bene dirlo con chiarezza, considera il Mezzogiorno un serbatoio naturale del voto di scambio. L’arretratezza ormai definitiva di buona parte del Paese è garanzia di immutabilità; non è un caso che leader politici “di punta”, ma senza alcun seguito, che altrove avrebbero rischiato di provocare seri danni al consenso elettorale del proprio partito, siano stati candidati in luoghi ben distanti dai collegi di provenienza. Quasi a dire: questo qui solamente in Calabria, in Campania, in Puglia o in Sicilia lo potranno “digerire”. La partitocrazia non è arretrata di un millimetro in questi anni. Anzi, ha ben pensato di esportare il “sistema” nelle regioni del Nord.
La Lombardia del disastro formigoniano e della corrotta ipocrisia leghista ha fatto da apripista. Nella regione dove l’economia dei servizi, del terziario, si è sviluppata con maggiore velocità, si è potuto apprezzare con assoluta chiarezza il fenomeno del voto di scambio come ramo d’azienda delle attività criminali. Il caso Zambetti, il politico che si è rivolto – e per tale ragione è attualmente indagato e detenuto – a uomini contigui alle cosche calabresi per acquistare un pacchetto di voti è la cartina di tornasole. Questo meccanismo svela un’ulteriore ipocrisia a larghe mani diffusa dalla politica e con successo avallata dalla grande e sarcastica stampa: l’idea che la sconfitta elettorale sia in sé la negazione dell’influenza della criminalità sul voto. Un banale e irresponsabile ragionamento, il cui obiettivo è la negazione stessa del potere criminale. Invece, le inchieste hanno chiarito che le organizzazioni, tra i servizi offerti, contemplano anche quello di condizionare il voto, rappresentando l’intermediazione necessaria tra il politico di turno e migliaia di elettori. Migliaia di cittadini ridotti a “pacchetto di voti”, spogliati della loro soggettività elettorale. Si comprende bene, dunque, che a quel punto diviene del tutto irrilevante il risultato elettorale, essendosi già consumato il disastro generato dalla compravendita del voto.
E poi c’è il meccanismo principe con cui si controllano i voti: il metodo della “scheda ballerina”. L’elettore che vuole vendere la propria preferenza va dal mediatore che, per conto delle organizzazioni criminali, paga i voti, riceve la scheda (sottratta al seggio illegalmente e già compilata) se la mette in tasca poi va alle urne dove riceve la scheda regolare. In cabina sostituisce la scheda già compilata con quella che ha appena ricevuto. Poi torna dal mediatore, consegna la scheda non votata e riceve i soldi. La scheda non votata viene compilata e data all’elettore successivo, che la prende e ritorna con una pulita. E così via. Ecco come si controlla il voto, eppure nessuno ne ha parlato: la scheda ballerina non ha interessato il dibattito elettorale nonostante sia più determinante di una tassa, più incisiva di una riforma, più necessaria di una manovra economica. Mi sento quasi ridicolo e savonarolesco nel continuare a raccontare questo meccanismo e nel constatare il silenzio totale sulla vicenda.
Basterebbe pochissimo: cabine aperte e non chiuse, che diano le spalle al seggio, in modo da tutelare la segretezza del voto, ma dando la possibilità di poter monitorare sulle sostituzioni di schede. In questo modo verrebbero controllati migliaia e migliaia di voti, ma, a quanto pare, a nessuno interessa che il voto esprima un’opinione. La realtà che ci troviamo a vivere è del tutto compromessa. Il voto che ci apprestiamo a esprimere cadrà in un quadro politico del tutto condizionato da fenomeni “fisiologicamente patologici”. Incideranno moltissimo i voti acquistati che in nessun sondaggio appariranno. Forse è il caso di azzerare tutto, di silenziare le offerte mirabolanti che da più parti giungono, per poi venire disattese subito dopo le elezioni. È il momento di difendere noi il valore e il senso del nostro voto e del nostro diritto a esprimerlo.

21 febbraio 2013
Per gentile concessione del settimanale “L’Espresso”

Roberto Saviano
Scrittore, giornalista

Rispondi