Tra crisi e speranza

Massimo Fagiani

l mercato del lavoro italiano sembra favorire la mobilità solo di chi è già in possesso di un’occupazione, rendendo difficile l’assorbimento di chi si affaccia al lavoro e di chi è disoccupato.

Negli ultimi quattro anni, il mondo è stato sconvolto da una crisi finanziaria ed economica senza precedenti. Anche i Paesi emergenti hanno sofferto di una forte instabilità e la “vecchia”, ma ancor giovane, Europa (in particolare Grecia, Irlanda, Spagna e Portogallo) ha pagato e continua a pagare il forte ed inevitabile condizionamento, pressoché quotidiano, dei mercati.
Come negli altri Paesi, si parla di “emergenza lavoro” in Italia, in crisi di sviluppo e, soprattutto, in crisi politica. I dati relativi all’occupazione parlano chiaro e ci fanno riflettere.
Le statistiche Istat sull’attuale situazione della disoccupazione in Italia sono davvero allarmanti e non consentono di certo agli Italiani, soprattutto ai giovani che ancora devono entrare nel mondo del lavoro, di stare tranquilli e dormire sonni sereni.
La percentuale di disoccupazione in Italia è, attualmente, dell’8,9% e un giovane su tre risulta essere senza alcun lavoro. La percentuale di disoccupazione è aumentata dello 0,1% rispetto alle statistiche rilevate nello scorso mese di novembre, e dello 0,8% su base annua.
Ancora su base annua, l’aumento della disoccupazione in Italia è del 10,9%, con 2.423.000 persone senza lavoro, delle quali 1.243.000 uomini e circa un milione di donne. Tale percentuale di disoccupazione è la più alta rilevata dal gennaio del 2004 e, se si considerano le statistiche trimestrali, si deve tener conto di quelle del terzo trimestre 2001.
Se a dicembre scorso il numero di occupati ammontava a 22.903.000 (13.510.000 uomini, 9.393.000 donne), ora la diminuzione di tale valore si fa sempre più critica ed evidente. A dicembre, infatti, c’era una percentuale di occupazione del 56,9% e l’inattività si aggirava sul 37,5%.
Il tasso di disoccupazione giovanile è poi davvero allarmante: la percentuale è del 31%, con una diminuzione dello 0,2% rispetto a novembre scorso e ad una crescita consistente, però, del 3% su base annua.
Le percentuali, infine, di disoccupazione in Italia associate a uomini e donne, da tenere particolarmente d’occhio anche in base alle statistiche dei mesi e degli anni precedenti, sono le seguenti:

• Uomini: occupati al 67,1%, disoccupati all’8,4%, inattivi al 26,7%;

• Donne: occupate al 46,8%, disoccupate al 9,6%, inattive al 48,2%

Arriva un’altra tegola sul mercato del lavoro italiano, che si mostra sempre più in affanno. Ad agosto 2012, dato ulteriormente peggiorato nell’ultimo trimestre, sono state presentate 72.213 domande di disoccupazione. Il dato rivelato dall’INPS vede un incremento dell’1,34% rispetto ad agosto 2011, quando le domande erano state 71.261.
L’istituto di previdenza rileva, inoltre, che le domande di mobilità, presentate nello stesso periodo, sono state 6.486: -31,29% rispetto al mese di agosto 2011, quando furono 9.440. Nel periodo gennaio-agosto 2012, sono state complessivamente presentate 855.958 domande di disoccupazione, il 16,2% in più rispetto allo stesso periodo 2011 (736.581), e 88.577 domande di mobilità, con un incremento del 6,46% rispetto alle 83.200 richieste dei primi otto mesi del 2011. Per quanto riguarda la cassa integrazione guadagni, invece, l’INPS fa sapere che a settembre sono state autorizzate 86,4 milioni di ore di cig, con un aumento del 3,6% rispetto allo stesso mese del 2011, quando furono autorizzate 83,4 milioni di ore. Complessivamente, nei primi nove mesi dell’anno si è giunti a quota 792,9 milioni, contro i 727,8 milioni del 2011 (+8,9%).
Le due riforme varate dal Ministro, quella sul lavoro e quella delle pensioni, non sono compatibili tra loro. E alla fine hanno prodotto un grande pasticcio. Per i lavoratori, ma anche per le imprese.
È molto difficile riformare il mercato del lavoro e le pensioni nel mezzo di una pesante recessione che segue a ruota una recessione ancora più dura. Bisogna dare atto a questo Governo di averci provato. Con alterne fortune. La riforma delle pensioni ha raggiunto in gran parte i propri obiettivi: garantisce la sostenibilità della spesa previdenziale, migliorandone al contempo l’equità intergenerazionale. Poteva mettere fine al tormentone pensioni: dopo le grandi riforme del 1992 e del 1996, gli Italiani avevano assistito con non poche angosce ad altri cinque micro-interventi di manutenzione del sistema nel 1997, 2004, 2007, 2010 e, infine, nell’estate del 2011. Si sperava che quest’ultimo aggiustamento sarebbe stato quello conclusivo.
Purtroppo, la cosiddetta riforma Fornero non sarà l’ultima della serie perché è stata poco attenta alla domanda di lavoro (per mancanza di tempo e necessità di adeguarsi all’Europa). Così, nuovi interventi saranno richiesti per affrontare il nodo degli esodati e degli esodandi. La riforma non ha neanche posto rimedio alla “barbarie” dei ricongiungimenti onerosi ed ha affrontato in modo brutale il problema dell’indicizzazione delle pensioni. Invece di trovare coerenza, di inserirsi in un disegno unitario con la riforma del mercato del lavoro (che doveva avvenire prima di quella delle pensioni), la rende così ancora più pesante per i lavoratori e per le imprese. Il mix diventa alquanto indigesto. Le imprese si sentono private di flessibilità in entrata proprio mentre si vedono preclusa la strada dei prepensionamenti. E i lavoratori giunti al termine della carriera vedono allontanarsi la data in cui riceveranno la loro pensione. Al contempo, vengono a sapere che, nel caso in cui perdessero il posto di lavoro, potranno godere di sostegni pubblici al loro reddito per un periodo più breve. È per questo che le due riforme sono molto più impopolari di quanto avrebbero potuto essere. Per fortuna, si è ancora in tempo a renderle maggiormente coerenti tra di loro. Ma bisogna agire in fretta.

DUE RIFORME POCO COMPATIBILI
La riforma delle pensioni ha esteso il metodo contributivo, quello che stabilisce l’ammontare della prestazione in base ai contributi versati, a tutti i lavoratori. Il metodo contributivo verrà applicato a chi non vi era già soggetto solo a partire dai trattamenti maturati dal primo gennaio 2012. La riforma ha poi innalzato, a partire dal primo gennaio 2012, l’età minima di pensionamento nel settore pubblico a 66 anni, e a 62 anni, che arriveranno a 66 nel 2018, per le lavoratrici del settore privato. Ha infine trasformato le cosiddette pensioni di anzianità (quelle che permettevano di percepire una pensione piena prima di avere raggiunto l’età minima di pensionamento) in pensioni “anticipate”, permettendo però l’accesso solo agli uomini con più di 42 anni di anzianità contributiva ed alle donne con più di 41 anni. Una platea, quindi, molto più ristretta di quella prevista dal sistema (a quote) precedente. In ultimo, ha sospeso per due anni l’aggiustamento all’inflazione delle pensioni superiori a 1.400 euro al mese.
Il brusco innalzamento dell’età di pensionamento ha aperto la questione dei cosiddetti lavoratori esodati ed esodandi. I primi sono coloro i quali, prima del 31 dicembre 2011, avevano accettato un piano di ristrutturazione dell’impresa nella certezza di ricevere la pensione al massimo entro due anni e si sono di colpo ritrovati senza salario e senza pensione. I secondi sono i lavoratori coinvolti in esuberi, ma ancora occupati (ad esempio, in Cassa Integrazione) alla data della riforma e che vedono ora allontanarsi la data in cui potranno accedere alla pensione avendo per giunta la prospettiva di ricevere trattamenti di mobilità al termine della Cassa integrazione per un periodo più breve. Un altro terreno su cui la riforma delle pensioni è in contraddizione con la riforma del mercato del lavoro è quello dei cosiddetti ricongiungimenti onerosi. Il Governo non ha ritenuto di poter rimuovere le penalità introdotte da Giulio Tremonti nel 2010 per chi intende totalizzare ai fini del computo della pensione i contributi versati nell’ambito di carriere lavorative discontinue. Si finisce così paradossalmente per colpire proprio i lavoratori che hanno raccolto l’invito, cui si ispira la riforma del mercato del lavoro e la flessibilità nel lavoro.
Ma la Riforma del Mercato riuscirà davvero a ridurre la disoccupazione ed a correggere le deformazioni strutturali che impediscono a migliaia di giovani di trovare lavoro ed essere “mobili” nel mercato?
Il mercato del lavoro italiano sembra favorire la mobilità solo di chi è già in possesso di un’occupazione, rendendo difficile l’assorbimento di chi si affaccia al lavoro e di chi è disoccupato. Da uno studio dell’Ocse del 2008 sui flussi mensili tra disoccupazione e occupazione, l’Italia è emersa come il Paese con il tessuto produttivo più vischioso poiché la mobilità dei lavoratori riguarda per lo più chi un lavoro lo ha già. Nel 2011, nonostante la crisi, sono stati firmati circa dieci milioni di contratti, di cui quasi due a tempo indeterminato: si tratta, però, di opportunità offerte a persone “migranti” da un’azienda all’altra, e in misura infinitesimale a inoccupati e disoccupati. Gli interventi apportati dal Governo in materia di licenziamenti mirano a sbloccare questo “circolo causale” come spiegato dal senatore Ichino: «Se il mercato del lavoro non permette a chi ne è rimasto fuori di rientrare con facilità, il licenziamento causa un danno maggiore e il controllo giudiziale si fa più severo, pertanto le aziende sono costrette a conservare i posti di lavoro anche se la produttività dei lavoratori è diminuita». Accantonata l’idea di un modello di contratto unico e di flexsecurity (sul modello danese) a causa delle pressioni generate dal disaccordo tra associazioni sindacali e datoriali, il Governo ha scelto di passare in tutte le aziende da un regime di «property rule» basato sulla reintegrazione del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo, per mancanza di giusta causa o giustificato motivo (in sostanza si tratta della “tutela reale” prevista attualmente dall’art.18 della legge 300/1970 per aziende con più di 15 dipendenti) ad un sistema di «liability rule» che prevede la corresponsione di un indennizzo economico al lavoratore ingiustificatamente licenziato. Ma se il dibattito sui licenziamenti si concentra sulle conseguenze che si generano all’uscita dal mercato del lavoro, secondo il senatore Ichino la causa dei problemi va ricercata all’ingresso: «Nel nostro Paese, il forte tasso di disoccupazione giovanile è frutto di uno scollamento tra il mondo della scuola e della formazione e quello del lavoro, causato anche dalla scarsa gestione da parte delle regioni, sui cui grava la competenza, delle risorse impiegate a fini formativi». Riflette il senatore: «Basta con i corsi inutili che le Regioni erogano per reintegrare dalla disoccupazione gli ex lavoratori. La situazione attuale necessita di un intervento in via sussidiaria da parte dello Stato per ripristinare livelli standard di preparazione. Anche le Università hanno una loro responsabilità per aver istituito corsi di laurea che creano aspettative impossibili da realizzare nell’attuale mercato del lavoro del nostro Paese». A conferma di ciò, Pietro Ichino ha citato gli ultimi dati resi pubblici dall’eurobarometro: «Il 40% dei giovani svedesi tra i 15 e i 25 anni è disposto a svolgere lavori manuali per i quali il mercato del lavoro riserva il 42% dei posti disponibili, mentre in Italia – dove il 48% della domanda di forza lavoro proviene da settori a vocazione artigianale e operaia – solo il 5% dei giovani è consapevole di poter trovare un posto in questi campi». Ma chi viene cercato dalle aziende italiane? I dati pubblicati dal progetto Excelsior, sistema informativo per l’occupazione e la formazione – coordinato dal Ministero del lavoro, Unioncamere ed Unione Europea –(http://excelsior.unioncamere.net/xt/flash.geoChooser/scegli-archivio.php) fotografa per il secondo trimestre 2012 una forte richiesta di lavoro giovanile nell’ambito del settore turistico, del commercio e dei servizi alla persona, con quasi ventimila nuovi reclutamenti. In generale, per le assunzioni non stagionali, oltre il 46,3% della domanda di lavoro si concentra sulla ricerca di chi ha conseguito un diploma di scuola secondaria, mentre solo il 14,9% dei posti di lavoro disponibili attende i laureati. In questo scenario, la riforma appena varata dal Governo convoglia gran parte dei contratti destinati ai giovani verso l’apprendistato, visto come soluzione ideale per conciliare la formazione con il lavoro.
«Si tratta di un contratto ancora molto complicato da applicare per le aziende, ma è pur sempre un primo passo per migliorare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro».
A questa situazione già difficile e complicata si aggiunge, quasi all’improvviso, questa ulteriore incertezza, instabilità e discontinuità del nostro quadro politico.
Tutto ciò non fa che rimandare a data da destinarsi le eventuali ed opportune modifiche al già confuso sistema normativo, privo, come si osserva nelle considerazioni degli esperti, di un sostanziale disegno comune.

Nota:
il più volte citato senatore Pietro Ichino è uno dei più noti giuslavoristi italiani, sostenitore di una riforma sia del mercato, sia del diritto del lavoro. Il modello perseguito, anche in diverse proposte di legge, è quello danese, definito di “flexsecurity”, che prevede flessibilità per le aziende sia in entrata, sia in uscita. Il modello prevede anche una compartecipazione dello Stato nel fornire un adeguato supporto alla riqualificazione ed alla ricollocazione, oltre ad un salario sociale (per un periodo limitato), dei lavoratori che escono dalle aziende in crisi.

Massimo Fagiani
Senior HR Consultant presso Inforgroup SpA Agenzia per il Lavoro Polifunzionale

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