Dal Polesine a Pechino

Alice Loreti

Il lavoro, seppur indispensabile mezzo di sopravvivenza, non è solo salario e reddito, ma un fattore indispensabile di emancipazione sociale e civile. Il lavoro è cultura, crescita ed opportunità.

Quest’anno, per la prima volta, mi sono ritrovata in un’aula universitaria dalla parte della cattedra. Per prima cosa, ho cercato di ricordare quando a prendere appunti tra i banchi di Scienze della Comunicazione ero io, così da non tediare eccessivamente chi mi sarei trovata di fronte. Poi, ho pensato a quale tema proporre per invogliare gli studenti a scrivere un articolo di giornalismo sociale e per far vivere loro, almeno due ore a settimana, il clima tipico di una redazione.
Non ci è voluto molto a trovarlo. Basta sfogliare un giornale, ascoltare una conversazione su un autobus o tentare di fornire una spiegazione alle gaffe di un Ministro per sentire quella parola: lavoro. Ho quindi deciso di attribuire a questo tema un duplice sviluppo: da una parte, svelare le regole e la metodologia della professione del giornalista; dall’altra, offrire agli studenti gli strumenti basilari per il loro lavoro d’inchiesta.
Abbiamo quindi ricreato in aula una piccola redazione nella quale, di volta in volta, abbiamo capito come trovare una notizia, cercare e verificare – sempre – le fonti, anche quelle apparentemente più facili da raggiungere (ad esempio i social network) e scrivere articoli, interviste e storie. Abbiamo analizzato la rassegna stampa quotidiana per osservare differenze e similitudini e per trovare l’influenza della rete sulla carta stampata. Abbiamo imparato i passi fondamentali del lavoro di “desk”: disegnare le pagine, fare i titoli, scegliere le foto. Abbiamo anche visto come in una redazione vi siano ruoli ben definiti: dal collaboratore al direttore i passi sono tanti, anche a livello contrattuale. E non a caso è stata proprio la lezione dedicata alla carriera del giornalista – anni di gavetta che sono diventati decenni di precarietà, pagamenti “a pezzo” o a borderò, l’agognata e quasi impossibile firma del Contratto Nazionale, in tutte le sue varie tipologie – ad aver riscosso grande interesse tra gli studenti.
Parallelamente alle lezioni in aula – per la sottoscritta appassionanti – i ragazzi hanno iniziato le loro inchieste. Avevo chiesto espressamente di trovare una prospettiva attraverso la quale analizzare il tema principale che sentissero loro, quindi personale, vissuta, viva. Ho suggerito di riflettere parlando con i coinquilini, gli amici, i coetanei. Perché il lavoro, seppur indispensabile mezzo di sopravvivenza, non è solo salario e reddito, ma un fattore indispensabile di emancipazione sociale e civile. Il lavoro è cultura.
Non credo di aver mai stupito i miei docenti per qualcosa che ho scritto, quantomeno non mi è mai stato detto. Ma quando ho letto le inchieste degli studenti del Laboratorio di Giornalismo Sociale sono rimasta a bocca aperta. Certo, alcuni articoli erano da sistemare, per conferir loro una forma più giornalistica. Ma tutti avevano centrato l’obiettivo: raccontare una storia per far riflettere il lettore, scopo principale del giornalismo sociale.
In queste inchieste veniamo presi per mano e portati a Tolle, dove da 10 anni gli operai conducono una battaglia per salvare il posto in una centrale Enel in attesa di riconversione. «Vogliamo solo lavorare, mi sembra molto semplice» racconta uno di loro. Eppure, così semplice non è. Non lo è nemmeno per Francesco (nome di fantasia), che dopo anni da dipendente è stato vittima di un atroce mobbing: «Può sembrare strano, ma sentirsi inutili è peggio che sentirsi incapaci», afferma. Ed ecco che il lavoro non è più solo necessario a campare, ma una fonte preziosa di identità e auto-realizzazione. Ancora, troviamo i famosi cervelli che, senza spazi né opportunità in Italia, decidono di andare all’estero. «A Londra puoi essere fuori di casa a 18 anni, manager a 25, pensare di comprarti una casa a 27. Da noi nessuno ci crede», spiega Maria, consulente finanziaria di 28 anni. Poi, c’è chi fa l’esatto contrario, come Manuel che, dopo 3 mesi in Italia, è stato costretto a tornare in Spagna: «Me ne sono scappato dalla vita del mio Paese, ma qua le cose non sembrano migliori – chiosa -. Pretendiamo una società in cui il diritto alla dignità del lavoro non si debba mercanteggiare». L’epoca d’oro è finita per tutti, anche per quegli studenti cinesi che, pieni di speranze e determinazione, hanno preparato la valigia e sono andati in Europa o negli Stati Uniti per imparare una lingua e trovare lavoro: il lavoro non c’è più. Sono cambiate le regole per tutti, incluse le aziende. Prima, in Cina, per avere una buona occupazione bisognava parlare una “Lingua Grande” come l’inglese. Oggi, per il mercato del lavoro, è meglio sapersela cavare con una “Lingua Piccola”, come l’italiano o il portoghese. In queste inchieste c’è anche chi ha deciso di farci entrare nel mondo del precariato giornalistico. E allora, ecco l’esercito di collaboratori che guadagnano 2-3 euro a pezzo e tentano di resistere con un salario da fame per amore del proprio mestiere. Una realtà che i giornali non raccontano perché, per una volta, sono loro i protagonisti, al negativo, di questa situazione.
Spaccati di vita di chi il lavoro non solo lo racconta, ma ancora lo cerca.
Buona lettura.

Alice Loreti
Scienze della Comunicazione Pubblica e Sociale – Università Alma Mater Studiorum di Bologna

Rispondi