Assalto al cielo

Michela Giacchetta

A dicembre, i lavoratori ex Videocon hanno ottenuto una proroga, l’ennesima, per la cassa integrazione. Altri sei mesi di ammortizzatori sociali. Poi, si vedrà. Emilio ha però deciso di non aspettare fermo che la situazione cambi. Ha provato a cambiarla lui, anni fa.

Il mercatino americano è dietro casa. Pieno di cianfrusaglie. Ma anche di occasioni. Basta prendersi un po’ di tempo e cercare bene, frugare, rovistare fra i banchetti: scarpe, vestiti, tutti usati, tutti a poco prezzo. Dentro casa c’è una vecchia cassapanca. Nasconde abiti di altri tempi. Perfetti per i tempi moderni, se si decide di usarli per il teatro. Emilio Cacciatori, operaio cassaintegrato Videocon, azienda situata ad un passo da Anagni (Frosinone) fallita nel luglio scorso, ha rovistato in quei banchetti e in quella cassapanca per trovare i vestiti di scena per la sua compagnia teatrale. Antico sogno, quello di dedicarsi al teatro e di portare voci e storie sopra un palcoscenico. Emilio ha tirato fuori dal cassetto la sua passione e racconti scritti molti anni prima, ha preso a calci la depressione latente – dovuta alla mancanza di lavoro – e, un dribbling dietro l’altro, è ripartito da un mercatino americano. E da una locanda a conduzione familiare.
La Videocon produceva i tubi catodici per la riproduzione delle immagini televisive. Inizialmente in mano agli Americani, viene poi acquisita dalla Thomson. Nel periodo di maggior lavoro, in azienda si contano 2.400 dipendenti. Era l’azienda più grande nel Frusinate, dopo la Fiat di Cassino. L’ulteriore passaggio di proprietà avviene nel 2004: subentra un gruppo industriale indiano che prova a riconvertire il sito di Anagni passando al plasma, ma senza successo. Dal 2005 aumenta la cassa integrazione e diminuiscono i lavoratori, che arrivano a 1.300. Emilio, 56 anni, entra in quella fabbrica nel 1974. Lì passa tutta la sua esistenza lavorativa e buona parte di quella privata. “Avevo i turni, quindi spesso mancavo a cena.”
Mi racconta la sua storia, per la prima volta, in una delle sedi della Cgil, il suo sindacato. Emilio è una delle persone che ho incontrato per scrivere il mio libro “Assalto al cielo – La classe operaia va sui tetti”, in cui racconto come sono andate a finire le storie di dieci aziende e dei lavoratori che hanno scelto di arrampicarsi su tetti, gru e monumenti, in segno di protesta, per combattere l’invisibilità e la crisi economica. Ho incontrato decine di lavoratori. Emilio è uno di loro. Assieme ad alcuni suoi colleghi, nell’ottobre del 2009 è salito sul tetto del suo stabilimento per far sì che qualcosa si muovesse, che arrivasse un nuovo imprenditore a rilevare l’azienda.
I pionieri di questa nuova forma di lotta sono stati gli operai dell’Innse, azienda metalmeccanica di Lambrate, Milano: nell’agosto del 2009 si sono arrampicati su una gru. E lì sono rimasti per otto giorni ed otto notti, riuscendo a trovare un nuovo imprenditore. Dopo di loro, altri lavoratori hanno dato l’assalto al cielo, l’unica forma di protesta ancora utile per ottenere qualche riga sui giornali e che può portare a dei risultati. Gli ultimi, in ordine di tempo, sono stati gli operai dell’Atlantis, azienda del Piacentino: ad inizio gennaio sono saliti sul tetto della fabbrica per protestare contro l’annunciata chiusura della sede da parte del gruppo che produce yacht di lusso.
Quando non arrivano le risposte da istituzioni e sindacati, e non ci sono alternative, non resta che il gesto estremo, uno dei più violenti. I lavoratori toccano il fondo salendo in alto. Lasciano giù famiglie e colleghi e si arrampicano gridando la loro resistenza e la loro disperazione, mix esplosivo e filo comune da nord a sud. Le storie dei lavoratori che ho incontrato hanno questo filo comune, ma sono tutte diverse. I dettagli fanno la differenza. Come nel caso di Emilio e della sua azienda.
A dicembre, i lavoratori ex Videocon hanno ottenuto una proroga, l’ennesima, per la cassa integrazione. Altri sei mesi di ammortizzatori sociali. Poi, si vedrà. Emilio ha però deciso di non aspettare fermo che la situazione cambi. Ha provato a cambiarla lui, anni fa.
L’idea di dedicarsi al palcoscenico nasce nel periodo di cassa integrazione. “Mentre ero a casa, ho ripreso in mano vecchi racconti scritti da me e ho pensato potessero diventare testi di teatro”. I vestiti di scena si potevano recuperare facilmente. Il posto in cui riunirsi lo trova grazie ad un amico che lavora in una banca: l’istituto ha a disposizione una vecchia chiesa sconsacrata che non utilizza. Quel luogo, da 100 posti a sedere, diventa la sala prove della compagnia la quale, nel frattempo, trova anche un nome: Acta est fabula. Del gruppo fanno parte una ventina di persone: la maggior parte ha un’età compresa tra i 18 ed i 23 anni, ma ci sono anche alcuni colleghi di Emilio. E i suoi figli: Viviana – 32 anni, laurea in archeologia, molti lavori da precaria, poi la piena disoccupazione – e Simone, 28 anni, contratto scaduto nel 2011. Le storie scritte da Emilio sono quasi tutte ambientate fra la fine degli anni ‘50 e l’inizio dei ‘60 in Ciociaria, in quella campagna che per molti anni è stata il pane per chi lì vive. “Studiare il nostro passato, portarlo in scena, raccontare il boom economico, come non siamo riusciti a controllarlo. Ricordarci di come eravamo per capire chi siamo e dove vogliamo andare. Perché non bisogna fermarsi”. Più facile a dirsi che a farsi. In Ciociaria, oggi, le aziende chiudono senza nemmeno fare più rumore. Come trovare la forza di reagire? “Quando siamo entrati in cassa integrazione, mi sono subito ribellato a questa situazione di pausa forzata, a questo buco nero che ti prende a sberle e ti lascia tramortito a casa sul divano”. “Fondamentale” il supporto della sua famiglia, della moglie, insegnante, che condivide con lui la passione per il teatro. Ma, aggiunge, è anche questione di carattere. “Io sono sempre stato un combattente. Fin da quando sono entrato in fabbrica ho cominciato a lottare e non ho più smesso. Certo, credo che ora la situazione sia peggiore che in passato.” Emilio ricorda le battaglie in fabbrica all’inizio degli anni ‘80, le notti all’addiaccio, la speranza che uniti si potesse ottenere un risultato. “Prima, quando ci muovevamo noi operai, si muoveva un popolo. Lo slogan era “Siamo tanti, siamo qui, siamo tutti del Pci”. Ora, se riusciamo a trovare 50 persone disposte a venire a protestare in piazza è già un successo”. “Tanti miei colleghi pensano che non serva più manifestare. Adesso, la maggior parte delle persone non lotta nemmeno più. E molti sono giovani, disillusi, spossati psicologicamente”. Non tutti, però. I ragazzi che frequentano il teatro, spesso, dopo le prove, si fermano a parlare fra loro. “Si tolgono gli abiti da palcoscenico e tutti i loro freni. Si raccontano, parlano di loro, come non accade quasi mai a casa”. Emilio ha coinvolto i giovani anche nella sua nuova attività strettamente legata con il teatro. In una vecchia cantina ha aperto una locanda che ha lo stesso nome della compagnia teatrale. “Pranzo completo a 10 euro e solo prodotti locali”. Sciorina tutti i primi piatti, i vini e gli antipasti che servono. Mentre si mangia, alcuni ragazzi portano fra i tavoli sketch teatrali. Realtà e finzione in una cantina. Risistemata e messa a nuovo, come quella vecchia passione rimasta per anni in un cassetto. Chiamatela, se volete, resistenza.

Michela Giacchetta
Giornalista e scrittrice

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