Un esempio di condanna

Antonio Vallini

Con la prima sentenza emanata dalla Trial Chamber della ancor giovane Corte Penale Internazionale, si condanna il comandante in capo delle FPLC, Thomas Lubanga. Arruolava
bambini e bambine che da piccoli venivano sottratti alle famiglie.

In un breve contributo intitolato Bambini Killer (in Crimini di guerra, 2003, edizioni Contrasto-Internazionale) la fotografa Corinne Dufka racconta del suo incontro con un ragazzino di nove anni in una Monrovia devastata dagli scontri tra miliziani krahn e Fronte Nazionale di Charles Taylor. Un bambino soldato, per la precisione (nella fotografia, uno scricciolo mal vestito armato di un bastone), che pochi istanti prima aveva partecipato al massacro del custode di un edificio pugnalandolo più volte tra le scapole e spaccandogli in testa una bottiglia di coca cola. «Dov’è tua madre?», gli chiede Corinne. «È morta». «E tuo padre?» «Morto pure lui. Tutti morti». «Ma quanti anni hai?» «Abbastanza per ammazzare un uomo».
Per il diritto internazionale, però, quell’età non è abbastanza per essere mandati ad ammazzare e rischiare d’essere ammazzati. I Protocolli aggiuntivi alle Convenzioni di Ginevra e la Convenzione sui diritti del bambino del 1989, così come le consuetudini, vietano di utilizzare minori di quindici anni in operazioni militari. Lo Statuto di Roma del 1998 per la prima volta considera espressamente la violazione di quel divieto alla stregua di un crimine di guerra, punendo, in particolare, la coscrizione o l’arruolamento di fanciulli di età inferiore ai 15 anni in forze o gruppi armati, l’impiego di detti minori nella partecipazione attiva alle ostilità, attribuendo, infine, alla Corte penale internazionale la giurisdizione al riguardo – purché tutto avvenga nel contesto di un conflitto armato, nazionale o internazionale, e costituisca parte integrante di un disegno politico, o di una serie di delitti analoghi commessi su larga scala.
L’ignobile pratica è particolarmente diffusa nei conflitti africani, ma ha trovato e trova spazio in molti altri scenari bellici, anche europei (Bosnia), tanto da aver sollecitato l’istituzione di un apposito osservatorio delle Nazioni Unite (Office of the Special Representative of the Secretary-General for Children and Armed Conflicts). L’iconografia è ampia: a vederli così, in posa di fronte all’obiettivo, quasi fieri delle loro divise e delle loro armi, quei piccoli Liberiani, Ruandesi, Cambogiani, Cingalesi, Iraniani, Afghani sembrano soltanto bambini che giocano alla guerra come tanti altri nel mondo, e per gioco ostentano atteggiamenti severi, sguardi cattivi. Ma la rappresentazione statica di una fotografia non dà ragione delle desolanti dinamiche che alimentano il fenomeno – salvo quando registra un momento di terrore negli occhi o un’innaturale assenza di ingenuità. Si arruolano bambini perché fanno numero, e in certi luoghi i bambini sono tanti; sono manipolabili, disinibiti ed incoscienti, sicché oppongono minore resistenza alla commissione di atti rischiosi o orribili; sorprendono e spiazzano l’avversario. Il diritto internazionale penale stigmatizza questo molteplice disvalore: la devastazione della psiche e dell’affettività del minore, la sua esposizione a morte probabile, la privazione del diritto al futuro, al benessere e all’educazione, l’offesa alla dignità della persona, “usata” come strumento di guerra approfittando di una sua condizione di minorata difesa; per altro verso, la conduzione del conflitto con una modalità così spietatamente sleale.
Tra il 2002 ed il 2003, nei territori devastati dalla “Seconda Guerra del Congo”, una delle tante forze armate in campo, le FPLC (Forces patriotiques pour la libération du Congo), arruolava bambini e bambine in gran numero. I piccoli venivano sottratti alla famiglia – quando ne avevano una – sottoposti ad estenuanti addestramenti in campi militari, sotto minaccia di gravi punizioni, in parte usati come guardie del corpo private, per lavori domestici, per il sollazzo sessuale dei comandanti. Molti di loro morivano nei combattimenti. Proprio di questo caso si occupa la prima sentenza emanata dalla Trial Chamber della ancor giovane Corte Penale Internazionale, con la quale si condanna il comandante in capo delle FPLC, Thomas Lubanga.
Solo qualche cenno ad alcuni momenti problematici della repressione penale del fenomeno emersi nella vicenda giudiziaria. Sul piano processuale, i giudici si sono dovuti misurare con vittime/testimoni giovanissimi, particolarmente esposti, perciò, a manipolazioni suscettibili di alterare il quadro probatorio: nella sentenza si rimprovera al procuratore una certa superficialità nel delegare l’acquisizione delle testimonianze ad intermediari locali, sottratti ad una sua effettiva supervisione. Quanto ai fatti storici, è risultato che, talora, l’arruolamento avveniva col consenso dei bambini e dei familiari, spinti dal bisogno o anche solo da un desiderio di vendetta. La Corte nega che quel consenso possa “giustificare” il fatto criminoso: la giovanissima età rende invalida, perché non libera né consapevole, una scelta di vita così radicale, che consolida «nella vittima […] il senso dell’ineluttabilità della propria tragedia esistenziale» (di Martino). Alcuni gravi limiti ha poi mostrato la formulazione astratta del reato. In caso di conflitto internazionale, lo Statuto punisce soltanto l’impiego di bambini in forze armate dello Stato, quali non potevano dirsi le FPLC: come qualificare la guerra congolese, alimentata da forze combattenti locali e di Paesi confinanti, passata alla storia come “Guerra mondiale africana”? La Corte elude l’ostacolo ritenendo che avessero natura nazionale se non altro le specifiche operazioni belliche nelle quali erano coinvolti quei particolari gruppi armati. La soluzione non è peregrina, ma fa percepire una tensione tra le logiche della legalità, che impongono l’assoluzione laddove il fatto, per quanto intriso di disvalore etico-sociale, non sia corrispondente nei dettagli a quello descritto dalla norma incriminatrice, e quelle di una giustizia sostanziale che spinge comunque alla repressione di condotte tanto disumane. Una tensione che accompagna il diritto internazionale penale sin dai tempi di Norimberga e che, a tratti, si avverte anche nel confronto tra culture oggi imposto dall’istituzione di una Corte sovranazionale permanente: tra categorie giuridiche di matrice anglo-americana ed europea-continentale (con le seconde più decisamente ispirate da una concezione formale di legalità); tra internazionalisti e penalisti (i primi abituati a lavorare con fonti fluide e sfumate nei contenuti, i secondi arcigni cultori del postulato della legalità e tassatività e delle sue ottime ragioni storiche e filosofiche). Ancora: quando può ritenersi che il bambino sia impiegato come “parte attiva” nel conflitto? La Corte riconduce a questa nozione una pluralità di ruoli, anche di retrovia o di supporto logistico, purché essi comportino un’esposizione quale possibile obiettivo di azioni militari. Non è necessario, dunque, che il minore sia vittima di violenze, stupri, maltrattamenti, che, se vi saranno, integreranno altre figure criminose. È l’esposizione alla guerra di per sé a determinare il disvalore tipico della fattispecie, perché essa da sola devasta quella fragile personalità e pone a repentaglio la vita.
Il racconto di Corinne Dufka si chiude con la descrizione di alcuni bambini soldato i quali, durante una tregua, giocano a pallone con un cranio umano strappato ad un cadavere in decomposizione a bordo campo. Di questa ed altre analoghe scene, cos’è che produce in noi – avvezzi ad una raffigurazione quotidiana della morte e della violenza – quel particolare, viscerale, insolito orrore? Forse è l’angoscia definitiva del “giro di vite” di Henry James: l’intuizione inattesa che neppure i bambini siano innocenti; che anche in loro alberghi una natura umana lugubre e corrotta. Una percezione che fa mancare il fiato ed accapponare la pelle perché nega ogni appiglio alla speranza ed alla tenerezza. Il diritto internazionale penale, però, scommette che sia vero il contrario: che i bambini possano essere innocenti, se non corrotti dagli adulti, e che, dunque, debbano esserlo. Un programma preventivo ora scritto nelle norme dello Statuto di Roma, nero su bianco, rinforzato da una minaccia di pena che il caso Lubanga dimostra poter essere effettiva. I signori della guerra sono, oggi, ben avvertiti.
Il debutto della Corte penale internazionale con una sentenza proprio su questo tipo di crimine assume, così, un significato simbolico. Dà il senso di una giustizia che non dimentica gli orrori trascorsi, ma, soprattutto, guarda al futuro, animata più dalla speranza che dalla vendetta. Incrudelire l’animo di chi sarà adulto, educarlo alla guerra, è il modo migliore per perpetuare di generazione in generazione gli istinti sottesi ad ogni altro crimine di guerra o contro l’umanità. Colpire questi scellerati pedagoghi, prevenirne gli atti, è per converso precondizione essenziale (anche se non certo sufficiente) all’attivazione di tutt’altri percorsi educativi, alla costruzione di un’idea diversa di futura convivenza.
Il nuovo sistema penale internazionale, insomma, comincia ad esistere tutelando “l’uomo che verrà”, perché a lui, speranzoso, si affida, per non aver motivo d’esistere mai più.

Antonio Vallini
Professore associato di diritto penale – Università degli Studi di Firenze

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