Quando la cicogna non arriva

Adele Menniti

La quota di donne senza figli ha registrato un aumento continuo con il passare delle generazioni, ed ha superato il 25% in alcune regioni italiane, come Friuli Venezia Giulia, Veneto e Toscana.

Negli ultimi decenni si è prodotto un graduale e profondo cambiamento della fecondità degli Italiani: si è notevolmente ridotto il numero delle nascite, si sono colmati i divari nord-sud, sono mutati i contesti ed i tempi della riproduzione. Ripercorriamo i tratti più salienti. Come noto, il numero di nascite, dopo l’anno del cosiddetto “baby boom”, ha registrato una diminuzione costante, protrattasi fino alla metà degli anni ‘90, quando si è raggiunto il minimo storico di 1,19 figli per donna e l’Italia si è collocata nelle posizioni più basse della graduatoria mondiale della fecondità. Successivamente, il trend discendente si è arrestato, alimentando un certo ‘ottimismo’ sulla futura evoluzione del fenomeno. Al recente aumento delle nascite hanno contribuito le donne over 30 e le straniere, portatrici di modelli più prolifici di quello degli Italiani. Un altro fattore importante associato al cambiamento del modello riproduttivo italiano riguarda la parità. In Italia si è progressivamente indebolito il modello di famiglia numerosa. Si sono osservati una riduzione graduale delle donne con 2 o più figli ed un aumento parallelo di quelle senza o con un figlio. Appare importante rilevare il raddoppio delle donne che, a conclusione della loro vita feconda, rimangono senza figli: quelle nate negli anni ’50 erano 1 su 10, quelle della metà degli anni ‘60 1 su 5. La quota di donne senza figli ha quindi registrato un aumento continuo con il passare delle generazioni, ed ha superato il 25% in alcune regioni italiane, come Friuli Venezia Giulia, Veneto e Toscana. Non avere figli è dunque un’esperienza sempre più comune nel nostro Paese. Si sono, infine, spostati ad età sempre più avanzate i tempi della maternità/paternità. I dati dell’Istituto Centrale di Statistica documentano la veloce progressione delle nascite delle over-40: 36.000 ad inizio decennio, 8.000 in più rispetto a soli 6 anni prima. Nella società attuale, la decisione sul se/quando avere figli appare sempre più complessa: preferenze e scelte di un partner devono adattarsi a quelle dell’altro e sono a loro volta sottoposte a vincoli/opportunità offerte dal contesto familiare, istituzionale e sociale. Il progetto di genitorialità è divenuto oggetto di mediazioni, si rivede e si modifica durante l’arco della vita e non risulta sempre possibile realizzarlo come e quando lo si desidera.

Il tema della posticipazione della vita riproduttiva riveste grande attualità: una volta deciso di compiere il grande passo, le coppie “ritardatarie” possono incontrare notevoli difficoltà, contribuendo ad aumentare il numero delle “senza figli”. Al crescere dell’età della donna diminuisce, infatti, la probabilità di concepire e, nel caso in cui si ricorra a tecniche di procreazione assistita, aumentano gli insuccessi. Non solo. Crescono i rischi di aborto, malformazioni del feto, ipertensione e diabete.

All’interno della complessa realtà di chi non ha figli (tralasciando coloro i quali non possono averne) possiamo individuare due macro gruppi: chi sceglie di non averne e chi, pur volendoli, non può procreare. Al primo caso appartengono persone che “rifiutano” consapevolmente la genitorialità ed optano per un’esistenza senza figli. Questi non trovano spazio in una vita che si pone obiettivi più rilevanti o a cui si tiene maggiormente. Si tratta, al momento, di un gruppo minoritario, ma molto interessante, sia perché evidenzia un aspetto inedito nella realtà demografica italiana, sia per il significato culturale, sociale e psicologico che tale scelta rappresenta. Il secondo gruppo – composto da coloro i quali non rinunciano a priori alla maternità/paternità, ma si ritrovano alla fine del loro periodo fecondo a non avere figli – è il settore più indagato nelle analisi della non genitorialità. In questo caso, non avere figli non è il frutto di una scelta deliberata, ma l’effetto imprevisto della catena di posticipi (allungamento del periodo di formazione, aumento dell’età di accesso al mondo del lavoro ed al matrimonio) alla quale si uniscono valutazioni individuali e di coppia. Non si tratta del risultato di una programmazione, ma può definirsi come un desiderio frustrato, inizialmente dal contesto, poi dalla strettoia biologica della fine della vita feconda. Su questa situazione può influire anche la ricerca di sicurezze ricercate dalle coppie prima di operare una scelta indubbiamente impegnativa: economiche, professionali, affettive e del futuro che si prospetta ai propri figli. Questa richiesta di sicurezza non trova sempre riscontro nella realtà attuale ed ha contribuito a delineare le nuove strategie riproduttive degli Italiani, i quali decidono, come si è detto in precedenza, di “compiere il grande passo” ad età via via più posticipate. Emblematica, a tale proposito, è anche l’evoluzione dell’età della prima maternità, pari a 24,7 anni nel 1975 e cresciuta di ben 5 anni nell’arco di 3 decenni. Un aumento straordinario se pensiamo ai tempi lunghi della transizione.

Al momento non è possibile avanzare ipotesi se questa ricerca della sicurezza sia destinata a dissolversi. Certo è che costituisce un freno alla realizzazione dei desideri di fecondità che tutte le indagini indicano superiore a quella effettiva. La situazione odierna non permette di essere ottimisti: l’uscita di casa dei giovani rimane tardiva e l’accesso al lavoro sempre più difficoltoso, il mantenimento di un’occupazione sempre più incerto ed il sostegno offerto dello Stato alle coppie con figli non appare, almeno nel breve periodo, destinato ad aumentare.

In questa situazione, la categoria della “scelta” non appare adattarsi alla realtà poiché chi ritarda la decisione di avere figli può non essere pienamente consapevole delle conseguenze. Si tratta di persone le quali, nel momento in cui si sentono in grado di intraprendere una gravidanza, scoprono di essere “fuori tempo massimo”. Alcune, raggiunta una “certa età”, possono entrare nel modello del rifiuto ed abbandonare definitivamente l’idea di avere un figlio: credono di avere un’età avanzata e poco adatta a gestire le attività di cura per il figlio. Altro esito del posponimento è che le coppie che rimandano la nascita dei figli rimangano intrappolate dall’”orologio biologico”, che non consente loro di avere figli. E’ probabile che vi sia una scarsa consapevolezza da parte delle coppie sul tema, spesso sottovalutato o del tutto ignorato. In questo modo, il processo di posponimento rende possibile – pur non volendolo – rimanere senza figli anche per cause fisiologiche.

Esistono soluzioni? La risposta è affermativa: nel nostro Paese sussistono limitazioni, vincoli ed ostacoli ad un progetto di fecondità. Le ricerche lo dimostrano, così come sottolineano la necessità di avviare una serie di interventi a sostegno delle coppie che non riescono a realizzare i loro desideri, interventi che si pongono l’obiettivo di progettare una società maggiormente a misura di bambino e di genitore, rispondere alla richiesta di sicurezza degli Italiani e rendere più compatibili responsabilità familiari e professionali. Il legame fra mancata genitorialità e ritardo dovrebbe portare ad introdurre interventi volti ad anticipare l’età alla maternità/paternità e flessibilizzare i rigidi tempi di vita italiani, in modo tale da favorire un’indipendenza più precoce dei giovani dalla famiglia di origine agendo sulla formazione e sul (ri)collocamento nel mercato del lavoro, in particolare dei giovani e dei neo-genitori. Dall’indagine ISTAT sulle nascite emerge, infatti, che molte delle neomadri impiegate in un lavoro precario o a tempo determinato hanno perso l’occupazione dopo l’arrivo dei figli. Altri interventi utili appaiono le campagne di informazione e sensibilizzazione alla popolazione che aumentino la conoscenza della fisiologia riproduttiva e dei rischi della maternità tardiva, in modo tale da contenere le conseguenze dell’orologio biologico o, comunque, contribuire ad aumentare tra le Italiane e gli Italiani la consapevolezza della sua inesorabile presenza.

Adele Menniti è Dirigente di ricerca del Consiglio nazionale delle ricerche. Lavora a Roma presso l’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali ed è responsabile della Linea di ricerca Analisi dei comportamenti sociali e demografici.

Adele Menniti
Dirigente di Ricerca presso il CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche)
Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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