L’etica delle piccole virtù

Carlo Flamigni

La legge 40 del 2004 aveva regolato le tecniche di fecondazione assistita in modo decisamente astruso. Gli interventi della Magistratura (in particolare quello della Corte Costituzionale) hanno eliminato gran parte dei divieti.

Come accade per tutte le cose nelle quali è coinvolta una grande quantità di denaro, anche per la fecondazione assistita si deve ammettere l’esistenza di molti comportamenti scorretti e disdicevoli. Posso cercare di non accorgermi di quante persone cerchino continuamente di prendere possesso del palco della popolarità, attribuendosi meriti certamente inesistenti, dichiarandosi autori di innovazioni rubacchiate da varie parti, sempre e comunque con lo scopo di richiamare l’attenzione per attrarre pazienti: quello che dovrebbe essere sanzionato con energia è il continuo ricorso a piccole e disoneste astuzie per dimostrare che i propri risultati sono migliori di quelli degli altri. Ma questa storia dei risultati merita qualche commento.
Agli esordi, le probabilità di successo di queste tecniche erano talmente modeste che nessuno riusciva ad immaginare, per loro, un’utilizzazione routinaria. Col tempo, i risultati sono migliorati, ma con percentuali diverse per le differenti classi di età e ci si è accorti che, superata un’età collocabile intorno ai 40 anni, i risultati cambiavano pochissimo, malgrado il miglioramento complessivo delle tecniche. Si è così arrivati alla decisione di sconsigliare alle donne di età superiore ai 43 – 44 anni di sottoporsi a questi trattamenti, perché le speranze di successo non erano più calcolabili statisticamente ed erano comunque molto vicine allo zero. Contemporaneamente, si decise di non calcolare più i risultati complessivi che un centro riusciva ad ottenere, ma di suddividerli secondo le diverse classi di età, cosa che, purtroppo, viene fatta solo in alcuni ospedali.
Ma la scorrettezza più comune nel riferire le possibili probabilità di successo riguarda il modo in cui i risultati sono calcolati. In realtà, le probabilità si possono riferire non solo al numero di coppie ammesse alle terapie, ma anche a quello di casi in cui si è giunti al prelievo di oociti ed a quello di effettivi trasferimenti embrionari, calcolando come successi le prove di gravidanza positive, la verifica ecografica di un battito cardiaco fetale o il numero di bambini nati sani e capaci di sopravvivere. E’ evidente che, a seconda di come questi dati vengano incrociati, lo stesso laboratorio può dichiarare di poter contare sul 10 o sul 40% di probabilità di successo. Non credo sia necessario indicare come queste “disattenzioni” dei medici possano essere evitate, i mezzi sono assolutamente ovvi.
Un altro problema che deve essere corretto e che riguarda il modello di medicina al quale la maggior parte dei medici che si occupano di PMA si ispira ha invece a che fare con la scarsa quantità di informazioni fornite alle coppie: sappiamo tutti che non è più il tempo del paternalismo medico, siamo consapevoli di essere tutti portatori di diritti e che il nostro primo diritto, per quanto riguarda la gestione dei nostri problemi di salute, riguarda la scelta, un diritto che ci deriva dalla nostra autonomia. Ebbene, non è possibile scegliere con saggezza se non si possiedono le conoscenze corrette e queste conoscenze ce le deve fornire il medico: cosa che non accade praticamente mai.
La legge 40 del 2004 aveva regolato le tecniche di fecondazione assistita in modo decisamente astruso, proibendo di fertilizzare più di tre oociti e di eseguire accertamenti genetici sugli embrioni prima dell’impianto. Altri divieti riguardavano la donazione di gameti e l’accesso alle coppie portatrici di malattie genetiche o infettive, ma normalmente fertili. Gli interventi della Magistratura (in particolare quello della Corte Costituzionale) hanno eliminato gran parte di questi divieti, mantenendo solo quello di donazione di gameti, oltretutto ancora oggetto di valutazione da parte di alcuni tribunali che dubitano della sua costituzionalità. Uno dei principi più importanti affermati dalla Corte Costituzionale nel dichiarare illegittimi questi divieti è stato quello relativo alla necessità che i medici si adoperino per fare in modo che le coppie ricevano il trattamento più adatto a conseguire i loro specifici interessi. Sarebbe interesse delle coppie che i laboratori si mettessero in grado di crioconservare gli embrioni soprannumerari, attività svolta solo da alcuni centri. Altri preferiscono congelare oociti e altri ancora hanno paura di irritare il Ministero della Salute, il quale ha continuato a dichiararsi contrario alla crioconservazione degli embrioni ed a manifestare addirittura sospetti (infondati) sulla liceità di questa tecnica. Ebbene, è mio fermo convincimento che in questi centri le coppie ricevano un trattamento inadeguato e che questi comportamenti dovrebbero essere sottoposti al giudizio della Magistratura. Allo stesso modo, dovrebbero essere denunciati i centri che rifiutano di eseguire accertamenti genetici pre-impiantatori sulla base di un immaginario, residuo, divieto legislativo, aspetto anche questo che induce molte coppie a cercare migliore fortuna all’estero.
Ma veniamo ai problemi specifici che riguardano l’evoluzione delle tecniche.
Se si fa eccezione per tutta la parte che riguarda i problemi genetici e la conservazione della fertilità per un impiego futuro, non si può certamente affermare che lo statuto scientifico posto alle spalle delle tecniche di procreazione assistita abbia goduto, sinora, di uno stato particolarmente avanzato. E’ possibile che le cose siano destinate a cambiare e alcuni dei temi che la ricerca scientifica correlata alle PMA sta affrontando lo fanno supporre.
Temi importanti della ricerca attuale sono certamente quelli della preparazione di protocolli di stimolo ovarico più razionali, che tengano conto delle differenti caratteristiche delle gonadotropine disponibili e ne facciano un uso più adeguato. L’uso di questi protocolli dovrà riguardare soprattutto le donne che rispondono male agli stimoli ovulatori, una fetta piuttosto consistente (e in crescita) della popolazione femminile che ricorre alle cure per la sterilità. Fanno parte di questa stessa ricerca anche le indagini rivolte ad identificare, sempre nelle low responders, gli oociti migliori, una ricerca a tutto campo che investe problemi di ordine genetico, metabolico ed enzimatico e che tiene conto persino del tipo di vascolarizzazione dei follicoli ovarici, esaminati con ecografi particolarmente sensibili. Al momento, la ricerca scientifica è indirizzata a migliorare le conoscenze relative ai terreni di coltura ed alla sintesi di gonadotropine adatte a specifiche condizioni e a particolari momenti del ciclo, con vita media più lunga e maggiore potenza biologica.
La maggior parte dei fallimenti della fertilizzazione in vitro avviene nel momento dell’impianto della blastocisti in utero, un evento che si verifica tra i 7 e gli 8 giorni dopo la fertilizzazione dell’uovo e che attualmente viene studiato con particolare impegno. Sono oggetto di indagine soprattutto le interazioni tra trofoblasto ed epitelio endometriale, e tutte le sostanza secrete dall’endometrio che interferiscono con questo rapporto. In tempi relativamente brevi sono attesi importanti progressi nel campo delle indagini genetiche pre-impiantatorie, delle terapie geniche, delle separazioni tra spermatozoi portatori del cromosoma x e del cromosoma y (cioè del sesso femminile e del sesso maschile) e della crioconservazione degli oociti e del tessuto ovarico. La Cornell University di New York ha affrontato questo stesso problema dell’impianto embrionale con l’impiego di un modello sperimentale molto avanzato, che consente di studiare gli effetti dei farmaci che dovrebbero facilitare il rapporto tra embrione ed endometrio con una sorta di elementare ectogenesi.
Fanno parte di un’area di ricerca molto avanzata gli studi relativi alla possibile protezione dei gameti in vitro nel corso di chemioterapia o di radioterapia utilizzate per curare tumori maligni. Attenzioni particolari vengono dedicate alla maturazione in vitro di oociti immaturi e di cellule ancora diploidi della linea germinale maschile e alla cosiddetta moltiplicazione dei pre-embrioni. Quest’ultima è già stata eseguita con successo in molti mammiferi trasferendo singoli blastomeri prelevati da un embrione a 4 o a 8 cellule all’interno di oociti enucleati: la totipotenza di ciascuno di questi blastomeri consente, infatti, di dare inizio allo sviluppo di un normale embrione, identico geneticamente (se non per il poco Dna mitocondriale contenuto nell’ooplasma degli oociti) a tutti gli embrioni prodotti con blastomeri di identica provenienza. Questa ricerca è stata iniziata con successo anche nell’uomo alcuni anni or sono, negli Stati Uniti, utilizzando embrioni anomali, ma è stata oggetto di critiche particolarmente violente e non è stata, per quanto mi è dato sapere, ripetuta.
Vediamo ora quali sono le aree di sviluppo possibile, quelle la cui crescita è minacciata per problemi squisitamente scientifici (grandi problemi teorici e pratici da risolvere, costi enormi) e per l’ostacolo fortissimo delle critiche morali a loro rivolte.
Sappiamo che tutte le cellule contengono un numero fisso di cromosomi, diverso per le differenti specie. Nell’uomo, le cellule somatiche (tutte le cellule del corpo esclusi i gameti) hanno una copia paterna ed una copia materna di ciascun cromosoma (23 più 23) con un assetto diverso per i maschi (caratterizzati dalla presenza di un cromosoma x e di un cromosoma y) e per le femmine (dotate di due cromosomi x): queste cellule si definiscono diploidi. I gameti hanno solo un set di cromosomi (23 in tutto, sia gli oociti, sia gli spermatozoi) che rappresenta una miscela di Dna materno e paterno per un fenomeno di rimescolamento (crossing over) verificatosi durante la divisione cellulare che porta alla loro formazione: queste cellule si chiamano aploidi. I gameti si differenziano notevolmente per quanto riguarda i cromosomi sessuali, sempre x negli oociti, a volte x e a volte y negli spermatozoi (responsabili, perciò, della determinazione del sesso); combinandosi fra loro, riportano il numero di cromosomi a quello caratteristico delle cellule somatiche, cioè 46. È dunque facile capire che per la fertilità occorrono cellule aploidi.
La prima eccezione a questa regola è stata fatta con la clonazione, della quale ricordo il principio biologico: si tratta di enucleare un oocita e posizionare, al posto del nucleo asportato, il nucleo prelevato da una cellula somatica, diploide e completamente differenziata, dedita, cioè, ad un’attività specifica, diversa a seconda del tessuto dal quale è stata prelevata. Questo nuovo nucleo viene sollecitato da messaggi provenienti dall’ooplasma a regredire nella differenziazione fino a diventare totipotente: da questo momento, l’oocita si comporta come uno zigote, comincia a dividersi e forma un embrione.
I tentativi di creare gameti, cioè cellule aploidi, utilizzando le tecniche di trasferimento nucleare sono per ora falliti. Le ricerche attuali sono rivolte alla possibilità di costruire gameti a partire da cellule staminali, in particolare da quelle cellule ottenute a partire da cellule specializzate e fatte regredire fino alla condizione di staminali embrionali.
Un’interessante, ma ancora molto iniziale, linea di ricerca riguarda la possibilità di aumentare il numero di gameti per migliorare la potenzialità riproduttiva dei soggetti ipofertili. Ciò dovrebbe risultare più facile per quanto riguarda l’uomo, anche se, fino a questo momento, la coltura in vitro di tubuli seminiferi contenenti cellule germinative primordiali non ha avuto successo. Per quanto riguarda i gameti femminili, bisogna ricordare che gli oociti sono andati incontro ad una differenziazione definitiva prima della nascita e che, in circostanze normali, niente può indurli a dividersi o a cambiare morfologia. Per questa regione sono state proposte alcune linee di ricerca che studiano la possibilità di arrestare la divisione meiotica e consentire agli oociti di dividersi più volte per mitosi, aumentando così il proprio numero.
Uno dei problemi più importanti che i medici debbono affrontare oggi nella terapia della sterilità è il progressivo aumento dell’età delle loro pazienti: in molti centri di PMA, l’età media delle donne trattate supera i 38 anni. Un problema non dissimile è quello legato all’aumento continuo delle donne che sopravvivono a trattamenti per malattie neoplastiche e si ritrovano guarite, ma sterili. Si pone, quindi, il problema della conservazione della fertilità, realizzabile crioconsevando oociti e tessuto ovarico. Al momento, le probabilità di avere una gravidanza utilizzando la fertilità “messa da parte” sono ancora modeste, ma stanno aumentando lentamente e, tra non molto, potrà essere offerta un’occasione concreta anche alle donne che scelgono queste tecniche per il cosiddetto “social freezing”, la cui motivazione (rinviare il momento in cui diventare madre a domani per poter utilizzare più tempo per la propria carriera) trova ancora molti dissensi e molte critiche.
Ectogenesi significa normale sviluppo di un prodotto di concepimento fuori dal grembo materno. Per quanto mi è noto, c’è solo un esempio di un impianto sperimentale di un embrione umano in un utero mantenuto vitale in vitro con un sistema cuore-polmoni: la sperimentazione fu eseguita a Bologna quasi venticinque anni or sono e fu interrotta dopo tre giorni. Sistemi di ectogenesi molto semplificata sono stati proposti, oltre che dalla Cornell, anche dal Karolinska Institutet di Stoccolma, nel 2007, ma sempre con finalità molto limitate. È probabile che placente artificiali siano allo studio in qualche laboratorio, ma non ci sono pubblicazioni su questo argomento. È stato invece utilizzato con successo, nelle pecore, un sistema che consente la sopravvivenza di feti piccolissimi, il cui cordone ombelicale viene attaccato ad un sistema automatico il quale, oltre a pompare ed estrarre il sangue, provvede a depurarlo, arricchirlo di ossigeno ed a trasfondere tutte le sostanze necessarie per la crescita.
Almeno in alcune specie, la partenogenesi non è incompatibile con la vita. Esistono tartarughe e lucertole che utilizzano esclusivamente questa forma di riproduzione e ce ne sono altre che la usano in modo intermittente. Che esista anche nell’uomo la possibilità di una riproduzione per sviluppo della cellula uovo non fecondata sembra potersi escludere, anche se esistono casi in cui un individuo riceve entrambe le copie di un particolare cromosoma dallo stesso genitore (isodisomia uniparentale). Poiché una divisione partenogenetica può iniziare anche a seguito di stimoli meccanici, è possibile che la microiniezione di spermatozoi nell’ooplasma o il prelievo del primo globulo polare siano responsabili di un evento di questo tipo, destinato a concludersi quasi immediatamente per un’intrinseca incapacità di crescere. Esiste anche una forma di riproduzione – la ginogenesi – nella quale lo spermatozoo attiva la partenogenesi (cioè il genoma paterno non viene incorporato nell’embrione): questo tipo di riproduzione è stata osservata in alcune salamandre e soltanto quando la temperatura ambientale si abbassa.
Può sembrare strano questo grande interesse degli studiosi di biologia riproduttiva umana per queste particolari forme di riproduzione. In effetti, è l’uovo che è al centro dell’attenzione degli scienziati, molto più di quanto non lo siano i vari tipi di riproduzione. Si cerca di scoprire quale sia la fonte di messaggi che partono certamente dall’ooplasma e condizionano i comportamenti nucleari. Ho già detto che nella clonazione l’ooplasma induce il nucleo di una cellula somatica, ormai totalmente differenziata e cronicamente dedicata ad una sola funzione, a regredire, differenziarsi e tornare ad assumere le potenzialità di una cellula embrionaria. E, cambiate le condizioni di sopravvivenza e di stimolo, è sempre dall’ooplasma che giungono, ad un nucleo diploide trapiantato, messaggi che lo inducono a produrre cellule staminali, formando corpi embrioidi invece di embrioni.
Esistono, dunque, alcune capacità sostanziali nell’oocita la cui conoscenza potrebbe migliorare moltissimo le tecniche di procreazione assistita, evitando, al contempo, i rischi, le critiche e le perplessità delle attuali sperimentazioni empiriche.
In attesa che almeno alcune di queste linee di ricerca arrivino a conclusione, quella che abbiamo a disposizione resta una tecnica piuttosto empirica, poco generosa di risultati e perciò responsabile di un grande numero di cocenti delusioni. Mi sembra indispensabile che i medici se ne rendano conto e sappiano gestire la loro responsabilità con saggezza. La morale di senso comune impone loro di adottare un modello di medicina basato sull’etica delle piccole virtù, virtù che nessuno di noi può dichiarare di non possedere o evitare di esercitare: la pazienza, la compassione, la capacità di ascolto, la comprensione del significato della responsabilità. Virtù piccole, ma fondamentali.

Carlo Flamigni
Membro del Comitato Nazionale per la Bioetica

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