Fra cultura e legislazione

Annibale Volpe, Giovanna Sighinolfi

La legge 40 ha portato ad un crescente sforzo della ricerca medica per perfezionare le tecniche al fine di creare un’alternativa valida quanto il congelamento degli embrioni, in pochi anni, dal 2004 al 2012, la sperimentazione ha consentito di affinare in modo significativo le tecniche.

Negli ultimi anni, a causa delle importanti evoluzioni sociali, economiche e lavorative avvenute nella società italiana, l’età media della prima gravidanza è andata spostandosi sempre più avanti, portando ad un conseguente aumento della difficoltà per le coppie di concepire e portare a termine una gravidanza. La fertilità spontanea della donna diminuisce, infatti, all’aumentare dell’età anagrafica, tanto che, già a 30 anni, nell’ovaio si trova solo il 13% dei follicoli presenti alla nascita. Questo numero scende drammaticamente al 2% quando la donna raggiunge i 40 anni. Le aumentate difficoltà hanno comportato che un numero sempre crescente di persone abbia chiesto di poter usufruire delle tecniche di Procreazione Medicalmente Assistita (PMA).

In Italia, dall’entrata in vigore, nel 2004, della legge 40, soprattutto dell’articolo 14, il quale prevede ci debba essere un “unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre (embrioni)”, è vietato il congelamento di embrioni da utilizzare per eventuali successivi tentativi in caso di fallimento del primo ciclo “a fresco”. Ciò comporta che, nell’eventualità in cui non si instauri la gravidanza, la donna debba ripetere l’intero iter di stimolazione ormonale, con tutto quello che tale procedura comporta in termini di salute fisica e disagio emotivo.

Se, da un lato, ha limitato la possibilità di creare embrioni in esubero, la legge 40 ha però portato ad un crescente sforzo della ricerca medica per perfezionare le tecniche al fine di creare un’alternativa valida quanto il congelamento degli embrioni, ma meno invasiva rispetto alla ripetizione di più cicli a fresco. Questa alternativa è stata trovata nel congelamento degli ovociti. In pochi anni, dal 2004 al 2012, la sperimentazione ha consentito di affinare in modo significativo le tecniche. La conservazione degli ovociti, oltre che nell’ambito della fecondazione in vitro, assume un’importanza fondamentale anche per preservare la fertilità in giovani donne che si debbano sottoporre a trattamenti citotossici sull’ovaio, trattamenti, cioè, che possono comportare un danno permanente sulla gonade. In questi casi, il congelamento degli ovociti (o quello, ancora in fase sperimentale di ricerca, del tessuto ovarico) può rappresentare l’unica chance riproduttiva.

Fra le tecniche di congelamento degli ovociti, particolarmente promettente risulta il metodo della vitrificazione: assicurando la sopravvivenza allo scongelamento di circa il 90% degli stessi, permette di ottenere risultati simili a quelli conseguiti con ovociti ‘freschi’.

Al congelamento degli ovociti si affiancano altre tecniche che consentono di intervenire sulla componente maschile di infertilità. Anche in questo campo la ricerca ha portato, oltre ad un perfezionamento di quelle già esistenti, alla nascita di nuove metodologie. Tra queste, citiamo l’IMSI (Intracytoplasmic Morphologically Selected Sperm Injection), che permette la scelta degli spermatozoi con cui fecondare l’ovocita utilizzando un microscopio ad alto ingrandimento e che viene utilizzata nei casi di grave oligo-asteno-terato spermia (numero ridotto di spermatozoi con motilità compromessa e con anomalie della morfologia). Oltre all’IMSI ricordiamo anche la TESA (testicular sperm aspiration) e la TESE (testicular sperm extraction) che consistono nel prelevare direttamente gli spermatozoi dal testicolo.

Le possibilità per le coppie con problemi di sterilità si sono dunque diversificate e, assieme alle richieste di procreazione medicalmente assistita, sono notevolmente aumentate anche le chance di successo del concepimento. Questo aumento pone in modo urgente la questione dei costi sociali legati alle gravidanze che derivano da questo tipo di tecniche.

Uno degli effetti più evidenti del trasferimento di più embrioni in utero è quello delle gravidanze gemellari. Queste risultano maggiormente esposte al rischio di complicanze, sia materne, sia fetali, rispetto alla gravidanza singola. In particolar modo, in caso di gravidanza bigemina o trigemina, aumenta il rischio di parto pretermine, con tutti i costi che questo comporta in termini di assistenza al neonato prematuro.

Per ovviare a questo problema, la strada attualmente più praticabile è quella del single embryo transfer (SET), praticata con ottimo successo in molti Paesi del Nord Europa. Consiste nel trasferimento in utero di un unico embrione altamente selezionato attraverso una coltura prolungata (trasferimento in 5^-6^ giornata allo stadio di blastocisti). Naturalmente, con questa tecnica aumenta il rischio che non ci siano embrioni da trasferire, in quanto nessuno è stato in grado di sopravvivere fino a questo stadio fuori dall’utero materno, ma, in caso di successo, diminuisce notevolmente il rischio di gravidanze multiple.
Al momento, la sfida della ricerca, muovendosi all’interno di una legge restrittiva come la 40, è mirata a migliorare le tecniche sopra citate in modo da potere raggiungere un equilibrio sempre più ottimale tra successo della PMA, preservazione della salute della donna e prevenzione di gravidanze multiple nell’interesse dei genitori, dei nascituri e della società.

Annibale Volpe
Professore Ordinario di Ginecologia,
Direttore del Reparto di Ostetricia dell’Ospedale Policlinico di Modena
Giovanna Sighinolfi
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

Rispondi