L’isola che non c’è

Daniela Capitanucci

Tutto il personale va formato adeguatamente, perché il trattamento del gioco d’azzardo patologico, come quello di qualsiasi altra patologia, non si può improvvisare.

Sono passati dieci anni da quando, nel 2001, in un articolo pubblicato su una rivista scientifica narravo, attraverso la fiaba di Cenerentola, le sventurate vicende di questa patologia, tanto invalidante quanto misconosciuta dalle leggi italiane, relegata ai margini a confronto con altre patologie da dipendenza, nonostante l’OMS, già dal 1980, la annoverasse tra i disturbi mentali degni di cura.
Da allora, purtroppo, le cose sono cambiate solo per quel che riguarda l’offerta di azzardo, sempre in aumento e sempre più pervasiva. Essa ha portato un’attività in precedenza praticabile in pochi ambiti ad attestarsi quale consumo di massa di proporzioni inaudite ed a generare danni sanitari e sociali sempre più rilevanti. La sempre crescente disponibilità di giochi d’azzardo e la progressiva disillusione circa le possibilità personali di accedere, tramite le proprie competenze, ai valori della cultura dominante (sfoggiare, esibire, possedere) hanno determinato un forte incremento degli Italiani disposti ad affidarsi al caso praticando tali giochi come unica chance di successo. Si è poi constatato il conseguente aumento di situazioni patologiche.

Per oltre un decennio, la politica socio-sanitaria nazionale ha continuato sistematicamente ad ignorare la tematica della dipendenza da gioco d’azzardo (ribattezzandola persino con il nomignolo “ludopatia”). Essa è invece diventata uno dei problemi più gravi che la nostra comunità si trova a dover fronteggiare.
L’omissione di soccorso e la mistificazione dei termini risultano particolarmente odiose proprio per la prevedibilità del degrado conseguente all’overdose da azzardo che ci ha investiti: basti osservare come il mondo politico di un tempo, illuminato e dimenticato, l’aveva già compreso e descritto. Don Luigi Sturzo, nell’”Appello ai Siciliani” dell’agosto del 1948, sulle pagine del Popolo affermava: “Senza una legge dello Stato che impedisca la proliferazione indiscriminata dei luoghi e delle occasioni dell’azzardo (…) vedremmo fare come Salomone, che su ogni altura elevava un tempio alle false divinità di ogni nuova sposa o concubina che fosse; [senza una legge] noi in Italia avremmo avuto non quattro (come oggi), ma quaranta case da gioco debitamente autorizzate, incensi alle divinità dei sette vizi capitali”. Se Don Sturzo vivesse ai giorni nostri, non inorridirebbe vedendo le circa 2.400 sale VLT, con 30.000 terminali attivi, veri e propri minicasinò elettronici di quartiere?

Il gambling patologico veniva definito, nel ’96, una tossicomania senza farmaci.
Dunque, perché, ancora oggi, gli operatori psico-socio-sanitari dei servizi pubblici e privati delle dipendenze e della psichiatria, travolti dai loro inconoscibili destini legati ad una politica socio-sanitaria che di gioco d’azzardo non ha ancora cominciato ad occuparsi, nella migliore delle ipotesi riescono a relegare questa patologia ai margini delle loro attività, talvolta persino scotomizzandola tra i loro stessi pazienti tossico-alcol dipendenti o psichiatrici in trattamento?
E perché, ancora oggi, gli operatori sociali dei Comuni, quando rilevano la correlazione tra nuove povertà, indebitamento e gioco d’azzardo, non dispongono di reti di sostegno a cui appoggiare le famiglie travolte?
Salvo sporadici casi, in questo decennio sono stati i gruppi di mutuo aiuto, le associazioni ed alcuni SerT, a fornire risposte di cura a questi pazienti ed ai loro familiari, consunti dalle conseguenze del gioco sfuggito ad ogni controllo ed estenuati dalle ricerche, spesso tortuose, volte ad identificare un luogo ove portare la richiesta di aiuto.

Ormai ci sono anche dati epidemiologici precisi sulla diffusione di questo disturbo: le ricerche indipendenti condotte dal CNR ci dicono che almeno lo 0,8% della popolazione generale manifesta comportamenti di gioco patologico inquadrabili secondo i criteri stabiliti dall’OMS.
Istituire i Servizi significa ammettere responsabilità sull’origine del GAP? Ed essere responsabili significa avere l’obbligo di fornire risorse?
Non entrerò nel merito dell’inquadramento diagnostico. Sottolineerò solo che la complessità del problema (che investe il giocatore patologico a più livelli – individuale, familiare, sociale – impattando su più sfere della sua esistenza – psicologica, sanitaria, relazionale, economica, legale, occupazionale) necessita di una risposta qualificata e pluridimensionale.
Le equipe multidisciplinari dei Ser.T., abituate da anni ad un lavoro integrato sulle dipendenze patologiche, potrebbero accogliere il problema del gambling sia per modalità di lavoro adottate, sia per tipologia di figure professionali presenti (anche se sarebbe auspicabile l’aggiunta di consulenti fiscali e legali per orientare i pazienti ed i loro familiari a gestire situazioni debitorie complesse e compromesse che richiedono un parere tecnico specialistico, quali sono quelle che si presentano ai Servizi nel momento in cui viene finalmente formulata la richiesta di aiuto e la possibilità di operare qualche inserimento in regime residenziale a breve termine).

Questo intervento di primo livello sul paziente giocatore e sulla sua rete primaria ristretta non deve essere necessariamente erogato esclusivamente dai Ser.T., ma può essere gestito anche da enti del terzo settore che abbiano maturato un’esperienza specifica documentata e significativa, lavorando secondo criteri stabiliti, o in collaborazione con il servizio pubblico.
Tutto il personale va formato adeguatamente, perché il trattamento del gioco d’azzardo patologico, come quello di qualsiasi altra patologia, non si può improvvisare. Accanto agli interventi sulla dipendenza, già noti agli operatori, vanno infatti aggiunti quelli peculiari della patologia dell’azzardo: su questo versante, generalmente, gli operatori non sono preparati a sufficienza. La complessità del disturbo prevede, inoltre, che all’intervento di primo livello se ne affianchi un altro di secondo livello: una regia del processo di cura affidata a chi abbia già maturato competenze sulla tematica. Negli anni in cui la sua patologia è progredita, infatti, il giocatore è certamente entrato in contatto non solo con familiari, conoscenti, amici, compagni di gioco e colleghi di lavoro (rete primaria allargata), ma anche con fornitori di gioco, banche, finanziarie, usurai (reti secondarie di mercato), enti di volontariato, parrocchie, Caritas, gruppi di mutuo aiuto (reti secondarie di terzo settore), nonché con i servizi sociali del Comune, i servizi specialistici dell’azienda ospedaliera e dell’Asl, il sistema giudiziario penale o i giudici tutelari (reti secondarie formali) rendendo auspicabile un intervento di rete per la soluzione del problema. In particolare, ciò si rende necessario se non si opta per la costituzione di centri specialistici di trattamento del gioco d’azzardo patologico in cui tutte le risorse necessarie alla riabilitazione del giocatore e della sua famiglia vengano ricomprese, costruendo, con quanti più interlocutori possibile, una rete territoriale di supporto al giocatore d’azzardo. Nella stesura della legge di riferimento va dunque posta la questione dell’affidamento di questo ruolo di case-manager, una sorta di regista che governi e presidi le reti secondarie e favorisca e promuova le reti primarie nell’ambito di una progettazione comune. Tutti questi attori possono infatti essere connessi con legami diversi per tipologia ed intensità, che vanno definiti alla luce della differenziazione operativa di ciascuno e del loro grado di coinvolgimento nel progetto.

Va posta particolare attenzione ad alcune criticità: in primis, bisogna verificare di non affidare tale ruolo a chi, in passato o nel presente, si sia prestato a dubbie contiguità con le realtà del business dell’azzardo. È troppo ipotizzare che, così facendo, si verificherebbe un pericoloso conflitto di interessi? È inoltre opportuno vigilare affinché l’expertise maturata in oltre un decennio di documentata attività da poche storiche realtà venga valorizzata come patrimonio da far fruttare, piuttosto che essere soppiantata dalla pletora di “esperti dell’azzardo” i quali, come funghi, si stanno ultimamente affacciando alle luci della ribalta, anche con pretese di orientare politiche e fondi. Dov’erano costoro in tutti questi anni di lavoro volontaristico e pioniere nei territori? Dov’erano quando accoglievamo le famiglie distrutte dall’azzardo? In conclusione, si può affermare che, sino ad oggi, purtroppo, non è stato ancora raggiunto l’obiettivo di attivare una rete efficace di supporto al giocatore d’azzardo arrivando a sviluppare una norma condivisa per l’azione e mobilitando le risorse presenti. Nonostante si cominci a parlarne, la strada da percorrere pare tuttora lunga e non priva di insidie. Resta ancora da garantire ai pazienti dipendenti da gioco d’azzardo ed alle loro famiglie quello spazio di cura adeguato alla gravità della malattia che li affligge e quella sensibilità sociale, politica ed istituzionale necessaria per orientare i programmi di prevenzione e riabilitativi continuando a sperare che, quanto prima, il gambling patologico possa, come Cenerentola, modificare definitivamente il suo status, conquistando il diritto ad esserci, smettendo di essere l’isola che non c’è. «In quel momento arrivò la madrina che, con un tocco di bacchetta magica sul vestito di Cenerentola, lo fece diventare ancora più splendido degli altri. Allora le sorelle la riconobbero. Si gettarono ai suoi piedi e le chiesero perdono di ogni maltrattamento che le avevano fatto subire» Perché mai, infine, dovremmo prevedere una legge ad hoc per legittimare la cura di una patologia già riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Salute?

Daniela Capitanucci
Psicologa, psicoterapeuta,
Presidente Associazione AND-Azzardo e Nuove Dipendenze,

www.andinrete.it

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

Tags:

Rispondi