L’Europa dei diritti e dei doveri

Leoluca Orlando

È nei momenti di crisi che si pongono le basi per la ripresa. È ora di far nostro questo insegnamento.

Mentre assistiamo alla ripresa, anche sul versante dell’economia reale e dell’occupazione, degli Stati Uniti, l’Eurozona brancola ancora nel buio e si avvia verso un 2012 all’insegna di una “leggera recessione”, con una disoccupazione che, in alcuni Paesi, vede numeri drammatici ed un’endemica difficoltà a riacquistare credibilità sui mercati internazionali. Una situazione che si intreccia con l’instabilità politica dei singoli Stati, ma che si riproduce anche sullo stato di tenuta dell’Europa a 27, messa a dura prova dall’eccessivo rafforzamento di rapporti bilaterali ed accordi intergovernamentali. Europa a 27 ed Eurozona a 17 Stati, sempre più fragili e divise tra “buoni e cattivi”.
Una vera competizione ed un vero sviluppo dovrebbero fondarsi su una solidarietà concreta, nelle istituzioni europee ed all’interno dei singoli Stati. Cosa abbiamo, invece, di fronte? L’Inghilterra – con il veto di Cameron alla Riforma dei Trattati Europei – si ritira in uno “splendido isolamento” di vittoriana memoria. La Germania torna – ancora una volta nella sua storia – ad esser percepita come “ossessionata dalla disciplina e dalle regole” e da un egoismo nazionale spinto sino ad apparire ed essere in contrasto con la migliore tradizione europeista tedesca. La Grecia – culla della civiltà europea e patria di quella Res Publica senza la quale l’Europa non sarebbe tale – resta in preda ad un futuro incerto, nei confronti del quale, probabilmente, neanche il nuovo prestito potrà esser risolutivo.
Qual è il rischio di questo contesto? Che la crisi globale trasformi l’asse politico franco-tedesco in una sorta di “diarchica”, creando, di fatto, una progressiva emarginazione della Commissione e del Parlamento europeo e che, parallelamente, l’austerity si traduca in un taglio alla spesa sociale, con la conseguenza di approfondire le disuguaglianze.
Da cosa ripartire, dunque? Forse dalla maturazione di un processo da molti auspicato, e mai veramente concretizzato, di rafforzamento dell’istituzione europea e del nostro “sentirci europei”, senza i quali ciò che resta è una “moneta senza Stato”. Anomalia storica ed astrazione finanziaria nei confronti della quale già Helmut Kohl e Tommaso Padoa Schioppa ci avevano messo in guardia.
Non c’è altro modo per uscire da questa impasse che promuovere un’Europa che non sia l’Europa delle banche e della finanza – e meno che mai di una finanza senza regole – ma che sia l’Europa dei diritti e dei doveri.
È di pochi giorni fa la notizia che la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per i respingimenti in mare dei clandestini, così come, precedentemente, il Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa aveva stigmatizzato le condizioni in cui vivono i detenuti nelle carceri italiane, gli immigrati clandestini nei Cie, i rom nei campi nomadi. Ben venga, dunque, un’Europa che ci ricordi che essere Europei non significa solo condividere una moneta, ma dei valori, prima di tutto, spirituali e culturali.

L’Unione Europea è all’altezza delle aspettative se promuove eguaglianza formale e rimozione di ostacoli che limitano l’eguaglianza sostanziale. Questo è un principio fondativo dello stesso diritto di cittadinanza europea. Per questo motivo desideriamo un’Europa fondata sul lavoro, ma non su quello precario, nero o sottopagato. Desideriamo un’Europa fondata su un’espansione economica sostenibile imperniata sul rilancio, anche temporaneamente incentivato, della domanda interna, unico modo per garantire la crescita della produttività e dei salari. Desideriamo un’Europa fondata sul rispetto del diritto di informazione, perché sia possibile essere informati senza monopoli o bavagli, ed un’Europa che recuperi il diritto dell’imprenditore di fare impresa, senza essere ostacolato da conflitti di interesse, pizzi, tangenti e dall’inefficienza della burocrazia. Desideriamo un’Europa in grado di contrastare efficacemente, nei singoli Stati, la corruzione e l’evasione fiscale (che in Italia ha assunto dimensioni pari, ogni anno, a decine di manovre finanziarie pesanti dei Governi Berlusconi e Monti).

Non dobbiamo dimenticare che l’Europa nasce per garantire i diritti di tutti i suoi cittadini, anche contro i governi dei singoli Stati che la compongono: doveva essere e deve essere il soggetto politico che più fortemente difende i diritti, non la legalità del diritto del singolo Stato, ma la legalità dei diritti di tutti i cittadini europei. Ci dovrebbe insegnare, pertanto, che occorre rispettare tempi e regole, senza proroghe né deroghe, situazioni che, nel nostro Paese, costituiscono il pane quotidiano di un certo modo di governare, amministrare, fare impresa, vivere.

Il processo di stabilizzazione economica e la restituzione della credibilità dell’euro sono una strada ancora tutta da percorrere. La via d’uscita è quella di riaffermare il primato della politica sui mercati. Il che significa tornare all’idea di unione federale tra i Paesi dell’Eurozona, dotata di poteri reali, basata sul consolidamento dell’unione monetaria e tesa a creare un’unione fiscale. Il rischio, altrimenti, è che la crisi dell’euro si traduca in crisi del progetto europeo.
Il problema dell’Eurozona non è la Grecia, così come non lo sono l’Italia, il Portogallo, la Spagna. La debolezza attuale dell’euro, esplosa con la crisi dei mutui sub-prime, è stata generata non solo da un’elevata tendenza all’indebitamento degli Stati e dall’andamento sfavorevole dei mercati finanziari, ma dall’inadeguatezza del processo di costruzione dell’Unione Europea – che non è riuscito ad affiancare all’euro un’Entità politica europea forte, con un governo unitario delle politiche fiscali ed economiche – e dalle divaricazioni tra i vari Paesi in termini di produttività e competitività.
Per superare questo momento, occorrono politiche che delineino, come cita la mozione Idv sull’Unione Europea approvata dall’Aula di Montecitorio lo scorso 25 gennaio, “una vera unione politica del continente con un ruolo maggiore del Parlamento europeo, con una comune politica fiscale e finanziaria, con obiettivi comuni per lo sviluppo economico, sociale e culturale dell’area monetaria, ponendo su una base comune il finanziamento statale degli Stati membri”.
Occorre, contemporaneamente, promuovere azioni concrete che favoriscano crescita, competitività e coesione sociale, attraverso un sempre maggiore ruolo del Parlamento europeo (un ruolo da vero Parlamento) nelle decisioni dell’Unione, una politica comune della difesa europea ed una politica comune della mobilità delle persone.
Occorre, come abbiamo indicato nella mozione, un’Europa che investa nell’economia reale e nel rilancio del mercato interno, tramite iniziative per combattere la disoccupazione giovanile ed una politica di ridistribuzione dei redditi che favorisca la domanda e combatta monopoli, rendite di posizione e privilegi di caste.
Occorre, infine, un ‘Europa che garantisca la stabilità dell’euro, attraverso una riforma delle regole della finanza all’insegna della trasparenza. In quest’ottica, riteniamo fondamentale l’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie e di un’agenzia di rating europea indipendente ed autorevole, così come l’affermazione del concetto di responsabilità per le conseguenze delle valutazioni errate delle stesse agenzie.
Parsimonia e lavoro devono ispirare le politiche economiche dei singoli Stati, ma tracciare una linea di demarcazione che individui, da un lato, i “giusti” – i Paesi virtuosi, quelli nordici, con i conti in regola – e, dall’altro, i peccatori – i Paesi inaffidabili, meridionali, che devono consolidare le finanze pubbliche e riformare le economie – non serve a nessuno. Meno che mai ad un’Eurozona che ha bisogno di regole, ma non di moralismi, né, tanto meno, di punizioni che finiscono con il premiare le speculazioni e le rendite parassitarie e con il colpire i redditi d’impresa e di lavoro.
Il cammino è lungo e in salita. Ma appare meno arduo se guardiamo a quanto ci unisce la nostra coscienza europea o il cammino fin qui svolto.

Quel che deve motivarci è, per dirla insieme a Federico Chabod, “il concetto di Europa dal punto di vista culturale e morale; dell’Europa che forma un quid a sé, distinta dalle altre parti del globo, per certe determinate caratteristiche del suo modo di pensare e di sentire, dei suoi sistemi filosofici e politici; dell’Europa come individualità storica, che ha una sua tradizione e può far appello a tutta una serie di nomi, di fatti, di pensieri, che le hanno dato, nei secoli, un’impronta incancellabile”. Orgogliosi di ciò che siamo, dovremmo sfruttare l’attuale contesto, per quanto difficile, per rilanciare quel progetto di un’Europa libera e unita, messo nero su bianco per la prima volta nel 1941 con il Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli. Un progetto che ha subìto accelerazioni ed arresti improvvisi, nuovi momenti di rivitalizzazione e fiducia – come nel 2007, quando, con grande ottimismo, si celebrava il 50° anniversario dei Trattati di Roma. Questo processo dialettico è ancora in fieri: noi, cittadini europei, abbiamo una moneta unica, un Parlamento, una Corte di Giustizia. Ma non ancora uno Stato ed un governo federali. Questi necessitano di un passo indietro, da parte dei governi nazionali, nella direzione di una parziale rinuncia alla sovranità nel campo dell’economia e della sicurezza. In questo limbo, infatti, prevalgono gli Stati nazionali, più facilmente aggredibili, in quanto singoli, dalle speculazioni finanziarie.

Leoluca Orlando
Deputato della Repubblica, Presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sugli errori sanitari e i disavanzi sanitari regionali

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