L’inclusione lavorativa

Piero Rossi

Lavorare, ancorché duramente e con scarsissima competitività contrattuale – come è nel labour intensive – è più salutare, sotto il profilo dell’accezione olistica di benessere, che delinquere.

Partiamo dal presupposto che l’inclusione sociale – attraverso il lavoro, ma anche qualunque altro strumento di facilitazione ri-adattiva – oggi costituisce il banco di prova più vero ed impegnativo di promozione politica, in senso lato, dei diritti civili e sociali delle persone cosiddette svantaggiate ed a rischio di emarginazione, in età lavorativa. E che tale circostanza, fatalmente, rappresenta il terreno di confronto tra la classe dirigente e la gente.
Quando le cose stanno così, conviene forse riprendere una riflessione sulla costruzione dei rapporti tra soccorritori e bisognosi, tra professionisti del sociale ed utenti/clienti, tra erogatori di servizi ed utilizzatori di quelle erogazioni. Insomma, una rilettura, appunto, attualizzata, del rapporto tra classe dirigente e popolo.
La letteratura, narrativa e cinematografica, è lì a testimoniare storie affascinanti ed emblematiche di questo eterno confronto. Laddove è proprio divertente, oltre che interessante, cogliere la saggezza popolare nella refrattarietà di fronte agli illuminati ed illuministici entusiasmi di irredentisti, patrioti e rivoluzionari, a seconda della storia narrata.
In diversi processi di aiuto si può assistere al fenomeno della totale mancanza di gratitudine da parte del target nei confronti degli operatori del soccorso.
Un’ingratitudine ex ante, sia ben chiaro, ché di quella ex post nessuno si sognerebbe di discettare, se non per l’occasione di affermare la veridicità dei vecchi adagi tipo: “fa del bene e scordatene” o dell’aforisma di Le Rochefoucauld: “Spesso la manifestazione di riconoscenza non è altro che l’introduzione alla richiesta di un ulteriore favore”.
Il fatto è che tale incontrovertibile dato è stato soltanto esorcizzato – nel vano tentativo di neutralizzarlo – da varie tecniche di politica sociale come l’educazione all’espressione ed alla selezione del bisogno, l’offerta di servizi anche a fronte di mancanza di espressione dei bisogni cui tale offerta si riferisce – ad incoraggiamento dell’emersione del bisogno medesimo -, l’educazione all’esercizio del diritto, invece dell’invocazione di un favore, l’empowerment, la progettazione partecipata ed altri espedienti più o meno manipolativi ed ipocriti.
Purtroppo, però, la proiezione irrinunciabilmente narcisistica delle proprie aspettative mette gli interpreti dell’azione sociale nelle condizioni di invocare, talvolta pretendere, dagli utenti/clienti/beneficiari – come li si voglia denominare – reazioni, conformi alle attese, senza una corretta analisi del contesto nel quale costoro vivono ed hanno consolidato il loro patrimonio cognitivo, dei valori cui hanno orientato la costruzione della propria scala di riferimento e dei processi di costruzione identitaria dei quali costituiscono il prodotto finale e, talvolta, definitivo.
Si devono allora aprire le porte all’accettazione del patteggiamento, della negoziazione e del compromesso. Dimenticare l’aspirazione al cambiamento e praticare la strada della sperimentazione. Ma più che ricorrere alla semantica della ricerca scientifica, farei riferimento a concetti più basici, per non confonderci le idee: più che di esperimenti, parlerei di tentativi, di prove dimostrative.
Sono tornato sul terreno dell’inclusione sociale attraverso il lavoro, naturalmente, riferendomi, precipuamente, a quelle volte nelle quali l’attrattività del cambiamento non riposa né sul piano della rivisitazione critica del proprio passato, né su quello della redditività – come è ovvio – ma su altro, altrettanto tangibile, però.
Lavorare, ancorché duramente e con scarsissima competitività contrattuale – come è nel labour intensive – è più salutare, sotto il profilo dell’accezione olistica di benessere, che delinquere.
Lo stress fisico e psicologico, nonché il pericolo costante cui sono sottoposti beni primari, come l’incolumità da un lato e la libertà personale dall’altro, valgono il valore e la fatica del tentativo.
Aspetterei di proporre una tale prospettiva di veduta soltanto a chi avesse già preso tanti di quei calci in bocca dalla vita da avere definitivamente archiviato il sentimento di superpotenza ed indistruttibilità proprie dell’ubriacante sfida adolescenziale (“andar a fari spenti nella notte per vedere se poi è così difficile morire”). Oppure ragionerei in termini di riduzione del danno, in attesa che passi quella sbornia. Se non altro, sarebbe una maniera intelligente di (far) trascorrere il tempo, senza infingimenti ed auto/etero illusioni.
Ciò detto, non è affatto scontato che non si debba fare pedagogia sociale. Purché ci si assuma la responsabilità di agire in un setting sicuramente sbilanciato ed asimmetrico.
Insomma, nessuno aspiri alla partecipazione democratica dei processi decisionali quando parla il maestro. Lui dice quel cha va fatto, quando e come. Poi, non è detto che debba trovare il tempo e la pazienza per far capire il perché. Tanto, se la cosa riesce, certe risposte ciascuno se le darà da solo.
Pre-meditare per essere consapevoli che l’erogazione di un aiuto efficace non corrisponde sempre alle attese di chi ne ha bisogno. E per non essere autori di un fallimento premeditato.
È chiaro che la tentazione di affidarsi alla funzione assistenzialistica (sia per gli operatori, sia per i clienti) rappresenta un esercizio di infantilismo dipendente o di adultocentrismo, a seconda dell’angolo visuale. Entrambe le interpretazioni di ruolo concorrono al cosiddetto doppio legame, all’invischiamento di un rapporto che nasce viziato.
L’inserimento lavorativo sta lì a dimostrare che un’adultizzazione, seppure tardiva, spesso riesce, a partire dalla ricostruzione della stima di sé. Che non ha niente a che fare con la panzana che il lavoro nobilita l’uomo (ché quello scadente e senza garanzie lo umilia e basta, altro che chiacchiere e luoghi comuni). Ma in una società nella quale l’unica maniera per avere un riconoscimento di cittadinanza è quella di essere produttivi attraverso un lavoro remunerato, anche una monnezza di impiego aiuta.
E, per giunta, la domanda effettiva di lavoro marca la corrispondente effettività dell’offerta e deflaziona la questuanza di chi chiede opportunità e invece intende paga (senza far niente, s’intende).
In una società nella quale la politica penale non riesce a fare a meno della pena privativa della libertà o, meglio, di privare della libertà una persona tenendola segregata in carcere, occorrerebbe riflettere sulla circostanza per la quale la totale intempestività dell’erogazione della sanzione (anche per questo strutturalmente incerta, nel senso che, all’(in)-certezza della pena concorre non soltanto l’an ed il quantum, ma anche il quando e, comunque, sempre il quommodo) finisce per cogliere sempre più spesso il condannato intento a sbarcare il lunario onestamente, per essere brutalmente reinserito nel circuito penale. Salvo, poi, lo stesso Stato padre che dice ormai “no”, trasformarsi in mamma che si straccia le vesti per dire di nuovo “si”.
A quel punto, si tenta di recuperare quell’impiego irrimediabilmente perduto – quasi sempre con un avvilente simulacro del posto di lavoro appena abbandonato – prima “dentro” (quasi sempre mission impossible) poi, appena possibile, “fuori”.
Con l’attivazione, medio tempore, di un presidio costoso e farraginoso fatto di educatori, esperti, osservatori, terapeuti, assistenti sociali, equipes multidisciplinari, avvocati e giudici e tutta la documentazione prodotta in tale contesto.
È a partire da queste considerazioni che sorge l’impellenza di fare leva su quello che c’è per fare quel che è possibile, in attesa di inventare qualcosa che ancora non c’è in termini di strumentario normativo.
Vale, insomma, la pena di impegnarsi perché la pena valga qualcosa oltre l’afflittività (piacendo l’interpretazione autentica del dettato costituzionale, circa l’ontologia rieducativa della sanzione).
Se le caratteristiche strutturali e gestionali degli istituti di pena fossero ovunque – non soltanto qua e là – realmente compatibili con lo svolgimento di attività industriali ed artigianali, produttive di beni e servizi, si accorcerebbero le distanze tra la popolazione carceraria e l’obiettivo del reinserimento attraverso il lavoro. Iniziative tra le più varie sono fiorite in tutti i settori produttivi, da opere d’ingegno e d’arte a vera e propria tecnologia avanzata. Ma sappiamo anche che dietro l’angolo giacciono ancora sacche di pregiudizi ed avversioni in grado di dar vita a veri e proprio boicottaggi a spese sia individuali, sia collettive, sulle quali dovrebbero vigilare con sempre maggiore attenzione gli Uffici dei Garanti territoriali e regionali.
Il conflitto, sempre latente, seppure sopito, tra amministrazione penitenziaria e popolazione detenuta, come direbbe Weber, deve essere slatentizzato e portato alla piena luce per passare dal livello della lotta e della rivendicazione (nei limiti del consentito dallo status detentivo) a quello della negoziazione (entro i medesimi limiti).
Proprio per questo occorrono presidi di mediazione per non fare delle istituzioni totali luoghi di tentazione di totalitarismo. Tra l’altro, proprio tra i gestori di quel potere “totale”, ci sono dirigenti (direttori e commissari) capaci, attivi e motivati, che dovrebbero essere costantemente aiutati ed incoraggiati ad esercitare l’altro potere, straordinariamente efficace, della contaminazione virtuosa.
Qualche rivisitazione della materia, di tipo innovativo: deflattiva del sistema d’”ingresso” – più che incentivante di quello di uscita -, introduttiva di sistemi sempre maggiormente attrattivi di investimenti imprenditoriali intramurari (qualcosa che vada oltre la cd. Legge Smuraglia), consolidante del continuum tra i percorsi formativi interni e quelli di inserimento lavorativo esterni, rafforzativa dell’idea di un “altrove”, dove scontare la detenzione (domicilio, comunità residenziali, gruppi appartamento), risulterebbe ormai provvidenziale e non soltanto per far più spazio in prigione.

Piero Rossi
Avvocato, Criminologo, Sociologo della devianza, già esperto ex art. 80 Ordinamento penitenziario, Garante Regionale di Puglia per i diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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