La crisi penitenziaria in Italia

Enrico Sbriglia

Non c’è, evidentemente, un solo rimedio, ma un progetto di cura si, e le misure vanno assunte assieme, rappresentando diversi galenici di politica socio-criminale.

Eppure si può uscire dalla crisi del sistema penitenziario attuale, purché lo si voglia per davvero. In che modo? Con l’intransigenza.
No, non spaventatevi, non è mia intenzione invocare o suggerire leggi più dure, di quelle ne abbiamo abbastanza nei codici. Dovremmo, piuttosto, aprire il forziere delle pene e buttar via i vecchi abiti che non utilizziamo più o che, pur quando li volessimo ancora indossare, ci farebbero apparire ridicoli o burleschi, se non stupidi.
Riordinare le cose, alleggerirle, sforzarci di immaginare chi siano i destinatari dei precetti e finanche delle sanzioni.
Tutto qui? Potreste dirmi: “Ma è stato sempre così. Da quale bizzarra Università provieni per dirci queste cose?”
Lo so, non sono un dotto teorico del diritto, né, tanto meno, somministro la giustizia a piccole o grandi dosi da sballo. Perdonatemi, cercherò di spiegarmi meglio.
Da qualche tempo ho cominciato a credere che le leggi non siano solo per le masse, ma, anzitutto, per le elite, purché non le chiamiate “responsabili”, sostanzialmente per quanti ci governino.
Si, i primi destinatari sono proprio loro, quanti rappresentano lo Stato con tutti i suoi altisonanti organi e, via via, fino all’amministratore di condominio. Facile, no?!
Ebbene, se quel che provo a dire ha un minimo di logica, conseguenza vuole che lo Stato debba essere il primo osservante delle sue norme. Questa è la prima regola del risiko della vita, sia dei cittadini, sia degli Stati, “costi quel che costi” (in questo momento, immagino di trovarmi ancora al cospetto di Edward Three-mounts – lo sfortunato “mani di forbici” del Ministero dell’Economia).
Uno Stato, infatti, che non voglia autocommiserarsi, uno Stato che pretenda il rispetto dei suoi cittadini, uno Stato che voglia additare i colpevoli, piegandoli al tormento delle pene, non potrebbe tollerare le carceri che noi operatori penitenziari siamo costretti a vedere, non potrebbe consentire ciò che il sistema avvitato della giustizia italiana alimenta e produce come insicurezza.
Ho già detto tanto, fin troppo, sullo stato delle carceri, sulle loro condizioni penose e di come ciò non incida solo sulle persone detenute, ma sugli stessi operatori penitenziari, costretti man mano a spegnere la luce della coscienza, costretti, giorno dopo giorno, ad infettarsi di malbianco, di quella cecità che Jose Saramago racconta accaduta in un Paese che potrebbe essere il nostro: tutti, divenuti ciechi, non solo non vedono più l’altro, ma, addirittura, abusano a vicenda dei più deboli e sfortunati. Una mano pietosa ricopre con una pennellata di bianco gli occhi dei santi e dei cristi di una chiesa, affinché essi non debbano vedere quel che i ciechi, pur non vedendo, combinano in nefandezze, in disumanità.
Quali rimedi, quindi? Eccoli, con gli occhi del visionario che sono, con l’avvertenza, però, che la malattia delle carceri rappresenta la febbre di quella ancor più grave, ma cronica, della giustizia: le carceri, in sostanza, sono diventate la malattia opportunista che ti uccide quando sei ammalato di AIDS.
Non c’è, evidentemente, un solo rimedio, ma un progetto di cura si, e le misure vanno assunte assieme, rappresentando diversi galenici di politica socio-criminale.
Anzitutto, e con lo stato d’animo del perdente, occorre pensare, per davvero seriamente, ad un’amnistia: essa rappresenterà una sorta di diluvio universale che trascina tutto e tutti, ma che monda allo stesso tempo. È il diluvio che scaraventa per terra e nel vento la putredine di montagne di fascicoli processuali che affogano i nostri tribunali, e che consentono, alle mani furbe ed adunche degli scaltri, di scegliere le storie che interessano, perché si rinnovino nella memoria collettiva, mentre tante altre si prescrivono per stanchezza e disinteresse. L’amnistia è il bello dell’iniziare daccapo, con la promessa solenne di non farlo mai più, e non mi riferisco, ovviamente, al criminale certificato, meglio se straniero, se questo è tale, ci riproverà, ma a quelli che sono i farisei dei riti sacri processuali.
È il modo di liberare risorse, risorse sonanti, tin tin, come quando cadono le monete per terra: che il processo da farsi sia per il furto di una scatoletta di sgombro o di una BMW luccicante, il rito è praticamente lo stesso. Devi ugualmente pagare un notificatore, un cancelliere, un magistrato, un carabiniere, un poliziotto penitenziario, un avvocato, luce, acqua e gas, la pulizia dell’aula del tribunale, il mantenimento in carcere, il costo degli allarmi, delle armi, lo stipendio del direttore, dell’assistente sociale, del medico, dell’impiegato, degli straordinari…: lo sgombro, anche ove fosse pieno di mercurio, costa davvero tanto!
Un’amnistia significherebbe, a seconda di come la si volesse graduare, non solo azzerare i ruoli di tantissimi processi, sgombrando le aule di giustizia di un’umanità improvvisamente libera, ma anche fare uscire dalle indecenti carceri italiane alcune decine di migliaia di signori-nessuno, spesso proletariato del proletariato, spesso gente i cui vernacoli sono quelli del mondo, sfruttati dai caporali padani e pugliesi quando sono solo “irregolari”, dalle nostre criminalità indigene quando sono “clandestini delinquenti”.
Ma l’amnistia non basta, occorre dell’altro. Occorre fare il lifting al nostro codice penale, occorre “dimagrirlo”. Si sa che grasso non è bello, lo sanno in particolar modo gli amici Radicali. Per questo fanno gli scioperi della fame. Occorre, però, farlo in fretta, e, se anche così fosse, forse sarebbe già tardi. Occorre, insomma, depenalizzare, mantenendo, ove lo si voglia, il valore dell’illiceità delle condotte riprovevoli attraverso la loro trasformazione in illeciti amministrativi, prevedendo sanzioni corrispondenti, quelle si davvero talvolta molto efficaci, oltre che dolorose: pensate a cosa significhi ritirare per sei mesi la patente, non frequentare taluni luoghi, non poter andare all’estero o allo stadio, non poter svolgere la propria professione…
Ma non basta. Occorre anche rivedere il sistema delle sanzioni penali, imponendo, per alcune famiglie di reati, come di “prima scelta”, le misure alternative alla detenzione, ma con l’obbligo del risarcimento vero, reale, sonante, nei riguardi della vittima o di chi ne abbia titolo, imponendo direttamente al condannato tutti gli oneri della sicurezza, ex D.Lgs. n. 81 del 2008, laddove debba svolgere lavori socialmente utili (dall’acquisto delle scarpe antinfortunistiche ai guanti per ripararsi dal freddo…). Se poi non fosse in grado, solo in questo caso lo Stato potrebbe, ad esempio con la cassa delle ammende, anticiparne la spesa imponendogli, a sua volta, ulteriori prescrizioni e controprestazioni (abbiamo tanti greti di fiume da pulire, spiagge sporche e giardini incolti che solo ad elencarli ci vorrebbe un’altra amnistia!)
Ma ancora non basta. Occorre migliorare, anzi, trasformare, le carceri attuali da luoghi penosi a luoghi del vivere, sobri, sani, ordinati, per il vivere e non per il morire.
Occorre lanciare l’idea di un’architettura penitenziaria. Occorre, cioè, immaginare le carceri come luoghi propri di sperimentazione sociale avanzata, dove la pedagogia è e non invece sarà. Occorre accostarsi alle carceri come ci si accosta ai luoghi sacri, templi di legalità, dove la pietra delle fondamenta si confonde con la pietas sociale, dove il tentativo di recupero è reale semplicemente perché così impone la Costituzione e le leggi che pure abbiamo.
Occorre trasformare il carcere da un non-luogo ad un luogo trasparente. Esso deve essere permeabile alla società, deve dare conto alla comunità.
È assurdo che ancora non si sia intervenuti per affermare che tutti i sindaci abbiano titolo pieno per entrare in carcere, non solo come “ospiti” riluttanti e forzati, ma come primi garanti dei detenuti sul territorio.
Il sindaco, ma anche il Direttore Generale dell’Azienda Sanitaria Locale ed il Dirigente Regionale Scolastico, dovrebbe avere la possibilità di accedervi come i parlamentari e le altre figure previste.
Ma occorre anche consentire che il cittadino comune abbia pieno titolo, abbia diritto a conoscere come sia fatto un carcere e come ci si viva dentro. L’obbligo deriva per il solo fatto che manteniamo queste strutture con la raccolta fiscale, con le imposte e con le tasse, che per fare carceri non facciamo ospedali o scuole, che per fare carceri non facciamo palestre per i nostri giovani o parchi per i nostri anziani.
Si può anche pensare a nuovi complessi penitenziari, nel rispetto dell’art. 5 della Legge Penitenziaria (Caratteristiche degli istituti penitenziari), che ospitino un numero contenuto di persone detenute, realizzati con la formula del project financing, una volta fatta solare chiarezza che tutti i servizi alla persona ristretta, sia di sorveglianza, sia educativi, sanitari, etc., siano saldamente ed esclusivamente in mano pubblica, che siano assicurati da pubblici dipendenti, nel pieno rispetto di quanto previsto dall’art. 28 della Costituzione Italiana. Le altre cose, pure economicamente apprezzabili (manutenzione dell’immobile, gestione del calore, gestione degli impianti elettrici, gestione della mensa del personale, bar aziendale, asilo aziendale, parcheggi, spazi murari per affissioni, padiglioni per uso industriale, biblioteche, lavanderie…), non direttamente attinenti alla sicurezza ed al recupero della persona detenuta, potranno essere conferite a gestori privati.
Occorre, infine, che il personale penitenziario sia di altissimo livello fin dall’inizio e non costretto a divenire tale per necessità, soffrendo, consumandosi e rischiando la cecità morale.
Occorre, in una parola, spendere di più, spendere sia in termini economici, sia di speranza: la speranza di avere speranza è il dono sociale più bello che uno Stato possa fare ai suoi cittadini.
Sapranno i nostri governanti tradurre le poche cose che ho detto in norme?
Lo spero. Anche io, da operatore penitenziario, ho il diritto di avere una speranza.

Enrico Sbriglia
Segretario Nazionale del SI.DI.PE.
(Sindacato Direttori e Dirigenti Penitenziari)

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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