Il Paese dei processi infiniti

Angela Caporale e Marta Parisi

La storia dei procedimenti aperti di fronte alla Corte di Strasburgo per violazioni dell’art. 6 è piuttosto lunga, tant’è che, nel 2001, è stata approvata la cosiddetta legge Pinto, che avrebbe dovuto snellire e migliorare la situazione.

Con l’obiettivo di accrescere le possibilità di tutela dei diritti dell’uomo e per determinare il loro contenuto in maniera più vicina alla sensibilità culturale ed alla storia delle varie parti del mondo, l’ONU ha promosso, nel quadro della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, un processo di regionalizzazione trasversale.
Il sistema europeo si fonda sulla Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali, atto internazionale promosso dal Consiglio d’Europa dedicato esclusivamente ai diritti civili e politici. La Convenzione, detta CEDU, è stata adottata nel 1950 ed è entrata in vigore nel 1953, in Italia nel 1955. Attualmente, è in vigore in tutti gli Stati parte del Consiglio d’Europa.
La CEDU ha istituito, inoltre, un organo giurisdizionale competente per la tutela dei diritti previsti in essa: la Corte Europea dei Diritti Umani, avente sede a Strasburgo.
La Corte è competente a ricevere ricorsi inter-statali ed individuali, con la condizione che siano rispettati i parametri ed i requisiti posti dalla Carta stessa.
Con il ricorso inter-statale, ogni parte contraente può deferire alla Corte la violazione delle disposizioni della Convenzione imputabili ad un’altra parte contraente. La ratio di questa tipologia di ricorso è il generale interesse al rispetto degli obblighi assunti reciprocamente dagli Stati.
Con il ricorso individuale, persone fisiche, gruppi di individui ed organizzazioni non governative che si ritengano vittime di una violazione dei diritti previsti dalla CEDU possono adire alla Corte di Strasburgo contro qualsiasi parte contraente, previo esaurimento delle vie di ricorso interne.
Le sentenze della Corte sono definitive e vincolanti. Di conseguenza, le parti devono attenersi ad esse ed assumere tutte le misure necessarie per conformarvisi.
La Convenzione Europea contiene una serie di diritti e libertà fondamentali tra i quali il diritto alla vita, il divieto della tortura, il divieto della schiavitù e del lavoro forzato, il diritto alla libertà ed alla sicurezza, il diritto ad un processo equo, il principio di legalità, il diritto al rispetto della vita privata e familiare, la libertà di pensiero, di coscienza e di religione, la libertà di espressione, la libertà di riunione e d’associazione, il diritto al matrimonio, il divieto di discriminazione, il diritto ad un ricorso effettivo.
Particolarmente significativo per l’Italia è l’articolo 6, il quale garantisce l’equità e la ragionevole durata del processo: “1. Ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti ad un tribunale indipendente ed imparziale costituito per legge, al fine della determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla stampa ed al pubblico durante tutto o una parte del processo, nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigano gli interessi dei minori o la tutela della vita privata delle parti nel processo, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale quando, in speciali circostanze, la pubblicità potrebbe pregiudicare gli interessi della giustizia”.
La storia dei procedimenti aperti di fronte alla Corte di Strasburgo per violazioni di questo articolo da parte dell’Italia è piuttosto lunga, tant’è che, nel 2001, è stata approvata la legge n° 89 del 24 marzo (“Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile”), la cosiddetta Legge Pinto, che avrebbe dovuto snellire e migliorare la situazione.
Questa legge è strumentale all’attuazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e lo scopo è quello di rendere possibile una forma di risarcimento effettivo nell’ordinamento interno, prevedendo l’attribuzione di competenza per la valutazione dei casi anche ai giudici italiani, rimandando alla Corte Europea soltanto le fattispecie più gravi e complesse.
La legge Pinto, che riconosce per la prima volta nel nostro ordinamento il diritto ad un’equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo, se dal punto di vista dell’ordinamento interno può ritenersi una delle prime applicazioni dell’articolo 111 della Costituzione, in relazione al sistema della Convenzione rappresenta il tentativo di “filtrare” l’accesso alla Corte di Strasburgo subordinandolo alla previa presentazione della domanda di riparazione dinanzi al giudice interno.
Di conseguenza, la competenza primaria ad assicurare il rispetto dell’articolo 6 della CEDU è prevista in capo ai tribunali nazionali e solo in via sussidiaria è consentito l’accesso al meccanismo di tutela europeo.
La disposizione è risultata inefficace. Gli stessi processi legati alla legge Pinto hanno violato l’art. 6.
Si è quindi assistito, negli ultimi dieci anni, ad una proliferazione di ricorsi che hanno affermato la violazione di questo articolo nei processi generati dalla stessa legge Pinto. Questi casi sono stati denominati “Pinto su Pinto”. Attualmente, sono pendenti di fronte alla Corte più di 3.900 ricorsi. È particolarmente significativo ricordare il “Gaglione ed altri VS Italia”, deciso dalla Corte nel 2010.
I ricorrenti, parti in procedimenti giudiziari, hanno investito le giurisdizioni competenti nell’ordinamento ai sensi della legge “Pinto” per denunciare la durata dei processi.
Con le decisioni assunte tra il dicembre del 2003 ed il luglio del 2007, le Corti competenti hanno constatato il superamento di una durata ragionevole ed hanno attribuito ai ricorrenti somme in risarcimento danni per il pregiudizio morale subito. Successivamente, i ricorrenti hanno avviato i procedimenti esecutivi. Tuttavia, per alcuni di essi, il ritardo accumulato nelle vertenze era compreso tra i 9 ed i 49 mesi, ed era pari o superiore a diciannove mesi nel 65 % dei ricorsi.
Il Governo ha contestato questa tesi sostenendo che alcuni dei casi, come quello di Gaglione, erano inammissibili perché il pregiudizio arrecato era minino (circa 300-400 euro) e perché i danni causati dal ritardo sarebbero stati compensati dalla corresponsione di interessi di mora.
La Corte ha respinto l’eccezione sollevata dal Governo, considerando i ricorsi ammissibili anche in virtù delle sue precedenti sentenze su argomenti analoghi, ritenendo, come affermato dal professor Paolo De Stefani che “Se si seguisse questo ragionamento, si entrerebbe in un circolo vizioso che renderebbe il diritto del cittadino ad un processo equo e di ragionevole durata del tutto illusorio.”
La Corte si è quindi pronunciata in maniera definitiva con la sentenza Gaglione e altri c. Italia 21 dicembre 2010.
Per quel che riguarda l’articolo 6.1, la Corte ha affermato con decisione che il diritto ad un tribunale garantito dalla Convenzione comprende il diritto all’esecuzione di una decisione giudiziaria definitiva e vincolante e che l’esecuzione di una sentenza deve essere considerata parte integrante del “processo” ai sensi dell’articolo 6.
Poiché l’esecuzione è la seconda fase del merito dell’azione, il diritto in causa trova piena realizzazione ed affermazione unicamente nel momento dell’esecuzione. In questo caso, quindi, nel momento del pagamento dell’indennizzo stabilito entro un termine ragionevole. Secondo il parere della Corte, questo deve essere inferiore ai 6 mesi dal momento della decisione definitiva.
Pertanto, la Corte di Strasburgo ha affermato nella sentenza che il comportamento delle autorità italiane ha violato le disposizioni dell’articolo 6 della CEDU, poiché ha omesso per un lasso di tempo non ragionevole l’adozione delle misure necessarie per rendere effettive le decisioni degli organi giurisdizionali ex lege Pinto. La Corte ha deliberato che “indipendentemente dalle specificità connesse ad ogni ricorso, i ricorrenti sono tutti ugualmente vittime dell’incapacità delle autorità italiane di garantire il pagamento degli indennizzi “Pinto” entro un termine compatibile con gli obblighi che scaturiscono dall’adesione dello Stato difensore alla Convenzione dei Diritti dell’Uomo. Considerando quanto sopra e deliberando equamente, la Corte ritiene opportuna l’assegnazione di una somma forfettaria di euro 200 per ogni ricorso a titolo di risarcimento del danno morale”.
La pronuncia è, quindi, chiara ed incisiva nel riaffermare il ruolo della Corte di garante della tutela dei diritti dell’uomo previsti dalla Convenzione Europea e dai suoi protocolli aggiuntivi, e non quello di compensare le carenze e le mancanze delle autorità giudiziarie interne degli Stati parte.
Si ritiene, dunque, che in Italia sia necessaria una riforma strutturale del sistema giudiziario al fine di risolvere e snellire le procedure nel quadro generale dei diritti previsti dalla CEDU e dagli altri strumenti internazionali ratificati ed adottati dal nostro Paese.
In conclusione, l’atteggiamento della Corte si mantiene ambivalente ed orientato al bilanciamento di varie istanze: da una parte la necessità di un’effettiva tutela e garanzia dei diritti, dall’altra lascia una certa autonomia agli Stati nell’esecuzione delle sentenze in considerazione del fatto che la Corte è un organo del Consiglio d’Europa, organizzazione intergovernativa condizionata dalle esigenze politiche degli Stati che la compongono.
Nello specifico caso analizzato, notiamo come si sia pronunciata in maniera contraria allo Stato italiano non solo considerando ammissibili i casi e rigettando la tesi statale, ma anche condannando lo Stato e richiedendo in modo deciso un’azione legislativa che possa garantire in maniera completa ed efficace le disposizioni in questione.
Tuttavia, l’indennizzo previsto, fissato per tutti i ricorrenti in euro 200, non è risultato troppo oneroso per le casse dello Stato che, quindi, nonostante la comprovata carenza legislativa e giudiziaria, non ha subito un pregiudizio incisivo.

Angela Caporale e Marta Parisi
Studentesse dell’Università di Padova –
Facoltà di Scienze Politiche, Relazioni Internazionali e Diritti Umani.

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