Dalle leggi ad personam alle riforme

Paolo Borgna

A magistrati ed avvocati deve chiedersi una leale ed onesta riflessione su regole processuali e prassi professionali che non aiutano la difesa dei diritti e, alla lunga, creano discredito sociale a tutta la Giustizia.

È finita la “seconda Repubblica”? Se è così, è forse finita anche l’epoca delle leggi ad personam. Può allora – finalmente – cominciare la stagione delle riforme. Il paradosso di questi anni è che il gran parlare dei mali della giustizia ha fatto sì che ogni serio processo riformatore fosse congelato. Contraddittorie, spesso mal scritte, a volte condizionate da interessi corporativi o, addirittura, personali, le tante riforme che hanno inondato la giustizia negli ultimi decenni non hanno mai avuto una visione organica che le sorreggesse. Mancava loro quel respiro profondo che può nascere soltanto dalla riflessione pacata sui problemi reali della giustizia, arricchita del confronto con la cultura accademica.
Una discussione onesta sulla giustizia deve fondarsi sulla consapevolezza che tutti i temi agitati contro l’ordine giudiziario dall’inizio degli anni ‘80 – dapprima dal Craxi dell’estenuante polemica contro i magistrati autori delle “ingiustizie della giustizia”, quindi dalla destra populista che ha occupato la scena politica della seconda Repubblica – toccano questioni reali: la verifica della professionalità e della laboriosità dei magistrati, le scelte discrezionali di politica giudiziaria operate insindacabilmente dai Procuratori della Repubblica, la spesso insoddisfacente responsabilità disciplinare, il possibile contributo degli avvocati nella valutazione dei magistrati e nelle scelte organizzative degli uffici, la lentezza dei processi, l’abuso nella pubblicazione delle intercettazioni telefoniche. Ognuno di questi problemi è stato, in questi anni, spesso strumentalizzato, esibito di fronte all’opinione pubblica da chi aveva in mente obiettivi diversi dalla loro risoluzione. È stato presentato con una logica punitiva. La reazione difensiva di chi vedeva questi temi branditi e roteati come clave sulla propria testa è stata, sovente, quella di negare l’esistenza dei problemi. Abbiamo così avuto questioni reali strumentalizzate da una parte e questioni reali eluse in quanto strumentalizzate dall’altra. Prendiamo il tema delle intercettazioni: si denunciava la vergogna della pubblicazione sui giornali di conversazioni che riguardavano esclusivamente la vita privata delle persone e si indicava, quale unica ricetta possibile, un minore ricorso a questo strumento. È invece evidente che la soluzione non è la rinuncia dei giudici ad utilizzare questo prezioso mezzo investigativo, bensì contrastare, in tutti i modi, chi fa uscire e pubblicare le conversazioni. Oppure, si pensi al problema dei problemi: la lentezza dei processi. Se ne denunciava l’esistenza, ma poi si indicava come rimedio una legge (quella sul c.d. “processo breve”) che prevedeva dei limiti temporali, superati i quali i giudici dovevano fermarsi, mandando al macero tutto il lavoro svolto sino a quel momento. Una medicina che avrebbe aggravato il male: qualunque imputato colpevole dotato di risorse avrebbe fatto di tutto per mettere i bastoni tra le ruote, allungare ulteriormente i tempi e giungere al traguardo dell’estinzione del processo. Al contrario, l’eccessiva lentezza dei processi, civili e penali, può essere affrontata esclusivamente con una riforma delle procedure e con un ridisegno delle circoscrizioni dei tribunali (ed una loro diminuzione numerica), un’organica rivisitazione delle garanzie disordinatamente affastellatesi negli ultimi decenni, una rivisitazione che lasci intatte e, magari, renda più salde le norme che realmente garantiscono il diritto del cittadino-imputato di rivendicare la propria innocenza e, allo stesso tempo, elimini le norme utilizzabili semplicemente per rallentare il corso della giustizia. Qualche esempio, ma si tratta solo di accenni: prevedere il rischio – oggi inesistente – per l’imputato che faccia appello di vedersi condannato ad una pena più grave in secondo grado; abolire la prescrizione del reato dopo il rinvio a giudizio.
Va proposta, poi, una riflessione sull’obbligatorietà dell’azione penale. Questo principio – scolpito nella nostra Costituzione dall’art. 112 – è sempre stato strenuamente difeso dai magistrati italiani perché costituisce un baluardo della loro indipendenza: soltanto un pubblico ministero privo di discrezionalità nell’esercitare o meno l’azione penale può essere totalmente libero dal potere esecutivo. Ma la pratica di tutti i giorni ci insegna che l’assoluta rigidità di questo principio conduce a risultati abnormi. Da un lato, l’eccessivo numero di processi, anche per fatti sostanzialmente irrilevanti, ingolfa la macchina giudiziaria; dall’altro, proprio l’impossibilità di celebrare tutti i processi – pena il rischio di vederli, alla fine, tutti prescritti – costringe i pubblici ministeri a scelte di priorità nella trattazione dei fascicoli che costituiscono vere e proprie scelte di politica giudiziaria (le quali, però, non vengono esplicitamente dichiarate, e dunque non sono discutibili). Ci sarebbe un rimedio – già approntato dal Ministro della Giustizia Flick nel 1996, ma poi, purtroppo, accantonato – il quale, pur non intaccando il principio di obbligatorietà, lo attenuerebbe e consentirebbe soluzioni di maggior buon senso. L’idea è quella di introdurre, per il processo ordinario, un meccanismo simile a quello già previsto per i reati di competenza dei giudici di pace. La ricetta si chiama “irrilevanza del fatto”. Essa prevede che il pubblico ministero possa chiedere al giudice per le indagini preliminari di archiviare tutti i casi in cui “non emerga un interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento ed il fatto risulti di particolare tenuità, in considerazione dell’esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato nonché della sua occasionalità, tenuto conto, altresì, del pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta alle indagini”. Si potrebbe così evitare di instaurare un processo nei casi – secondo il nostro codice – procedibili d’ufficio, ma che, in realtà, non hanno provocato un serio danno sociale. Si pensi al furto di oggetti di scarsissimo valore (magari pochi euro) commesso da un giovane incensurato il quale, immediatamente dopo, restituisca la merce sottratta. Nessuno può seriamente pensare di poter depenalizzare il furto. Ma, ugualmente, nessuno può seriamente sostenere che valga la pena istaurare un processo (con tre gradi di giudizio e costi rilevanti) per episodi bagatellari come quello dell’esempio appena considerato.
Su questi temi, a magistrati ed avvocati deve chiedersi una leale ed onesta riflessione su regole processuali e prassi professionali che non aiutano la difesa dei diritti e, alla lunga, creano discredito sociale a tutta la Giustizia. Su questo terreno è urgente non solo un superamento dell’incomunicabilità tra politica e magistratura, ma anche una nuova stagione di dialogo tra avvocati e magistrati. Soltanto una ricomposizione della cultura giuridica, un ritorno alla stessa lingua che sappia spazzare via le reciproche scorie corporative – spesso alimentate dalle inframmettenze di opposti schieramenti politici – possono dare fiato, gambe e passione civile ad un pacato intervento del Legislatore. Per questo, le prime parole del nuovo Guardasigilli – “spero di avere un dialogo con tutti, la fiducia di tutti e il consenso di tutti” – ci sono sembrate una ventata di aria pura che entra in una stanza piena di fumo. E che accende una speranza: che in questa nuova fase di “impegno nazionale”, fortemente voluta dal Presidente Napolitano, si possa realizzare, o almeno rendere un po’ più vera, l’utopia di Calamandrei, secondo il quale la giustizia è quella cosa capace di tradurre il linguaggio della legge nell’umana parlata della gente semplice.

Paolo Borgna
Magistrato, Procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica – Tribunale di Torino

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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