Inquinamento post-bellico

Fernando Termentini

Quando le munizioni al DU colpiscono l’obiettivo, il materiale si frantuma, disperdendo nell’ambiente schegge a bassa radioattività, ma altamente idrosolubili e nocive. Esse possono essere ingerite da animali al pascolo o sciogliersi nell’acqua, giungendo così fino all’uomo.

In tema di guerra ed atti terroristici, è necessario non dimenticare che si tratta di eventi le cui conseguenze sono destinate a durare nel tempo. Pensiamo alla minaccia rappresentata dalle migliaia di ordigni bellici ancora attivi rimasti al suolo, pronti ad esplodere se manipolati o inavvertitamente toccati. Un inquinamento del territorio provocato da bombe di aereo, missili, proiettili di grosso, medio e piccolo calibro, mine, bombe a grappolo ed ogni altro esplosivo residuo di un conflitto armato (Explosive Remants of the War – ERW). Le guerre moderne hanno reso ancora più complesso lo specifico problema dell’impiego su larga scala di strumenti bellici realizzati utilizzando materiali ad elevato impatto ambientale. Leghe metalliche con consistente percentuale di cadmio, rame, alluminio, piombo, tungsteno, nichel, cromo ed uranio impoverito (Depleted Uranium – DU), a cui si aggiungono le miscele chimiche utilizzate per realizzare cariche esplosive sempre più efficaci e vernici particolari. Tutte sostanze che, se disperse nell’ambiente, possono contaminare l’uomo con un’azione diretta (inalazione, ingestione, ecc.) o indiretta, attraverso la catena alimentare.
Negli ultimi decenni, a partire dalla prima Guerra del Golfo, è aumentato l’utilizzo del DU, una sostanza caratterizzata da modestissima radioattività, ma soggetta a proprietà chimiche altamente tossiche. Il materiale fa parte degli scarti del ciclo di arricchimento dell’uranio. Questo deve essere opportunamente trattato per incrementarne la radioattività naturale, altrimenti troppo bassa per soddisfare le esigenze di uso civile e militare a cui è destinato. Vari sono i motivi che inducono ad utilizzare il DU nel munizionamento e nelle corazzature protettive di carri armati e bunker. Il primo è di natura economica. I metalli pregiati, essenziali per le leghe destinate a particolari scopi militari e civili, hanno costi elevati. L’impiego del DU, il cui smaltimento ha, peraltro, costi altissimi, è invece molto economico, se il materiale viene ritirato gratuitamente per essere riconvertito in munizionamento o in altre realizzazioni tecnologiche da immettere sul mercato. Un secondo motivo è di natura tecnica connessa alle proprietà fisiche specifiche dell’uranio impoverito. Rispetto agli altri metalli, esso presenta un peso specifico 1,7 volte superiore a quello del piombo. Inoltre, autoincendiandosi all’impatto, sviluppa temperature elevatissime. Piccoli volumi di DU possono, quindi, ottenere ottimi risultati per lo scopo a cui sono destinati, altrimenti raggiungibili solo impiegando quantità notevolmente superiori di metalli pesanti pregiati. Un rapporto di costo/efficacia sicuramente favorevole per l’utilizzatore, ma sfavorevole per le conseguenze ambientali che un uso indiscriminato del materiale può indurre. L’elevata pressione ed i picchi di temperatura prodotti dal DU all’atto dell’impatto determinano, infatti, l’immediata polverizzazione del proiettile e della superficie metallica colpita, trasformando i materiali coinvolti in una miscela di ossidi di uranio e nanoparticelle di metalli pesanti originate dalle leghe con cui l’obiettivo è generalmente realizzato. Si tratta di miscele caratterizzate da un elevato grado di tossicità chimica. Se disperse nell’ambiente, provocano un accumulo di polveri sottili, assimilabili ad un vero e proprio particolato altamente inquinante. Si originano micro-elementi non biodegradabili, i quali, se inspirati o ingeriti, possono provocare, nel tempo, seri danni. Quando, poi, il munizionamento al DU non colpisce l’obiettivo, il materiale si frantuma, disperdendo nell’ambiente schegge a bassa radioattività, ma altamente idrosolubili e nocive. Esse possono essere ingerite da animali al pascolo o sciogliersi nell’acqua, giungendo così fino all’uomo. Sono particelle destinate a provocare importanti danni fisici poiché coniugano la tossicità chimica delle particelle con una seppur minima radioattività delle stesse. La presenza di queste sostanze nocive è ormai accertata nella maggiore parte delle aree teatro di guerre moderne. Rappresenta una minaccia immediata per i combattenti e differita nel tempo per le popolazioni residenti. Indagini commissionate dalle Nazioni Unite, ed altre condotte da Governi ed Università, confermano la pericolosità di questi materiali. Moltissime nanoparticelle presentano forma sferica per i picchi di temperatura ed i rapidissimi processi di raffreddamento prodotti all’atto dell’impatto del munizionamento in cui è presente il DU. Recenti ed approfondite indagini diagnostiche hanno permesso di individuare nei tessuti cancerogeni asportati a militari ammalatisi dopo l’impiego nelle aree a rischio, e nella popolazione civile residente, la presenza di residuati di zinco, cromo, alluminio, cadmio, boro, miscelati a particelle sferiche di metalli pesanti e ad ossidi vari. In molti casi, le particelle sono presenti anche nello sperma dei soldati in servizio nei teatri bellici. Ne conseguono frequenti nascite di bambini affetti da importanti malformazioni. I medesimi problemi vengono riscontrati anche negli animali destinati al ciclo alimentare, che diventano, loro malgrado, moltiplicatori della minaccia. Le prime avvisaglie si sono riscontrate subito dopo la fine della prima Guerra del Golfo, quando moltissimi soldati si sono ammalati di cancro o di altre gravi malattie catalogate in un’unica macrotipologia patologica, la “Sindrome del Golfo”. Un problema che, nel tempo, ha coinvolto principalmente la popolazione residente nel sud dell’Iraq. Nella provincia di Bassora sono aumentate di circa 8 volte le neoplasie e le leucemie, mentre crescono in maniera esponenziale le malformazioni natali. Su Baghdad, secondo un rapporto di un esperto delle Nazioni Unite per il problema dell’uranio impoverito (Jeans – Francois FECHINO), sono state lanciate circa 2.500 tonnellate di DU. L’Enviroment Programme delle Nazioni Unite (UNEP), in uno studio specifico, riporta un elevato inquinamento ambientale (acqua e suolo) nelle aree della Bosnia, e dei Balcani in generale, sulle quali vi è stato un largo impiego di aerei A10 e missili Cruise. Le sostanze tossiche presentano un’elevata percentuale di ossidi derivati dal DU e si sono sparse in seguito alle esplosioni delle bombe, alla frantumazione dei proiettili ed alla polverizzazione delle corazzature di protezione degli obiettivi. Si tratta di materiale altamente pericoloso, al quale si aggiungono le polveri nocive derivate dalle distruzioni sistematiche di ingenti quantitativi di armi e munizioni. Un’alterazione ambientale rilevante, tale fa far interdire al pascolo vaste zone del territorio, come avvenuto, ad esempio, in Bosnia Erzegovina. La contaminazione dei Balcani sta provocando una crescita esponenziale di malattie simili a quelle che affliggono la popolazione irachena, come relazionato in maniera precisa e circostanziata dall’Università di Belgrado. Anche se non ammesse da chi utilizza munizionamento realizzato con DU e metalli pesanti, queste evidenze diventano incontrovertibili valutando la tipologia dei sistemi d’arma impiegati e le successive patologie riscontrate. Per citare alcune armi impiegate, non possiamo dimenticare i missili Cruise, i carri armati Abrams USA con corazze Chobham che incorporano anche uranio impoverito, gli aerei da combattimento A10 armati con mitragliere da 30 mm con proiettili al DU, i missili a lunga gittata Tomahawk dotati di consistenti componenti di uranio impoverito ed altri metalli pesanti. Oltre che nei Balcani (Bosnia, Kosovo e Serbia), queste armi sono state utilizzate anche in Somalia, Libano, striscia di Gaza, Afghanistan, Iraq e, recentemente, in Libia. Possiamo affermare con assoluta certezza che hanno sparso sul suolo polveri sottili, nanoparticelle di metalli pesanti ed uranio impoverito. Concludendo, va sottolineato che qualsiasi conflitto moderno induce un inquinamento ambientale, in particolare quando vengono utilizzati sistemi che impiegano metalli pesanti ed uranio impoverito. Questi costituiscono una minaccia importante, che si somma a quella degli ERW, la quale colpisce dapprima i militari che partecipano alle operazioni belliche, con un’incidenza differenziata in base alle diverse attribuzioni professionali e, nel tempo, la popolazione civile. L’analisi statistica dei dati su DU e metalli pesanti riportati nella specifica letteratura non lascia dubbi sulla valenza inquinante del materiale. Essa è inoltre destinata a sommarsi agli effetti delle altre sostanze tossiche utilizzate per realizzare esplosivi, sistemi d’arma all’avanguardia e materiali militari complementari, come le vernici con particolari proprietà antiriflesso ed anti radar. Le miscele producono conseguenze estremamente dannose sull’uomo, in particolare su coloro i quali, nell’immediato, si trovano a contatto con i fumi e con le polveri “ancora calde”. Negarlo significherebbe affrontare il problema con un approccio distorto e lontano dalla realtà oggettiva. Questa ci riferisce, invece, che, in tutto il mondo, lo smaltimento di cromo, zinco, tungsteno e sostanze chimiche tossiche, in particolare uranio impoverito, è regolato da norme precise e stringenti. Esse risulterebbero ingiustificate se le scorie non fossero tossiche ed altamente inquinanti. Abbandonando qualsiasi disquisizione semantica, è quindi auspicabile rivedere la realizzazione e l’impiego dei materiali bellici, giunti oggi ai limiti di una lecita interpretazione delle convenzioni internazionali. Una scelta più attenta ed oculata delle sostanze consentirebbe, infatti, di eliminare o, almeno, rendere prossimo allo zero il rischio di una minaccia immediata e differita che sta dimostrando di avere costi sociali ed umani elevatissimi e che si aggiunge al pericolo rappresentato dalla presenza degli ERW, tuttora un dramma irrisolto per la popolazione civile.

Fernando Termentini
Generale della Riserva E.I., esperto in bonifica dei territori ed in esplosivi

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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