Il fuoco amico

Antonietta Gatti, Stefano Montanari

La nostra esperienza personale di laboratorio è quella di constatare malattie da polveri, nella quasi totalità dei casi di natura tumorale, in chi ha sostato in zone bombardate dalle Nazioni della coalizione occidentale.

Fare prevenzione in guerra. Sembra quasi un ossimoro. Eppure, al di là di ogni considerazione umanitaria, o genericamente morale, la cosa è pragmaticamente logica.
La guerra è un evento più o meno protratto nel tempo, volto a sopraffare un nemico che, per essere sopraffatto, deve per forza essere danneggiato. Come la Storia ci ha mostrato in più di un’occasione, non è affatto detto che un nemico resti tale anche dopo la guerra, come non è detto che un alleato non diventi poi avversario. Basti pensare alla Seconda Guerra Mondiale, con Americani, Inglesi e Francesi alleati dei Sovietici e poi, in un lampo, a vittoria ottenuta, trasformatisi in acerrimi e duraturi nemici. Percorso contrario per Tedeschi e Giapponesi, trasformati, senza por tempo in mezzo, in amici. Dunque, gli antagonisti siano danneggiati, sì, ma fino ad un certo punto. Nella guerra moderna esiste un altro aspetto che deve indurre ad allestire forme di protezione dalla nostra stessa attività: il fuoco amico. Con questo termine non intendiamo la banale pallottola finita per errore nella schiena del compagno d’armi, ma qualcosa diventato attualmente un po’ più complicato e che vedremo meglio tra qualche riga. Poi c’è la popolazione civile, la quale, anche non partecipando attivamente allo svolgimento bellico, ne è, comunque, fortemente coinvolta, portando involontariamente con sé le generazioni a venire, anch’esse toccate non di rado dagli effetti dei combattimenti. Le due esplosioni che hanno calato il sipario sulla Seconda Guerra Mondiale, di fatto la prima e, per ora, unica guerra atomica della storia, ne sono un esempio. Nel 1945 nessuno sapeva esattamente quali sarebbero state le conseguenze a medio e, soprattutto, a lungo termine di un uso offensivo di nozioni scientifiche applicate fuori dall’etica della Scienza. Ad oggi, gli abitanti di Hiroshima e Nagasaki restano le sole cavie di un simile “esperimento”. Più recentemente, soprattutto a partire dalla fine degli anni ‘70, sono entrati nell’arsenale strumenti di offesa forse ancora più impegnativi da maneggiare, anche perché implementati secondo tecnologie avanzate di cui non si conoscono appieno le conseguenze. Tra queste armi ci sono quelle che basano la loro azione principalmente sull’alta temperatura sviluppata, come le bombe al tungsteno o quelle all’uranio impoverito. Questo tipo di armamento produce effetti tali da rendere, se non inutile, quanto meno non così efficace come si penserebbe lo starsene lontano dal luogo dell’esplosione. L’altissima temperatura raggiunta, intorno ai 5.000°C per il tungsteno ed un po’ sopra i 3.000 per l’uranio, fa sì che il bersaglio ne risulti vaporizzato, con la conseguente formazione di polveri estremamente fini e mobili, capaci di viaggiare in atmosfera per moltissimi chilometri e di cadere sui vegetali di cui uomini ed animali si cibano. Inalate ed ingerite, queste polveri costituiscono l’innesco di una lunga serie di malattie battezzate nanopatologie, in “onore” delle nanopolveri. Esse sono in grado di danneggiare anche le generazioni non ancora nate al momento dell’evento bellico. Trasmettendosi da madre a feto, particelle minute di materia solida ineliminabile ed indistruttibile da parte dell’organismo possono provocare aborti e malformazioni fetali. Essendo in grado di penetrare all’interno del nucleo, a livello cellulare possono danneggiare il DNA, con conseguenze di estrema gravità. Nella famiglia numerosa e sconosciuta al pubblico delle armi escogitate dagli scienziati contemporanei, oltre a questo tipo di proiettili, il cui uso è stato per anni negato da chi, poi, ha dovuto ammetterne l’uso su larga scala, esistono le bombe DIME (Dense Inert Metal Explosive), armi con una testata di fibra di carbonio e resina epossidica in un involucro d’acciaio. Nella loro struttura, esse possiedono anche una lega di tungsteno. Gli effetti che provocano, ancorché limitati per estensione, sono devastanti. Queste armi hanno un potere esplosivo che si dissipa molto rapidamente, tanto che il raggio interessato non supera la decina di metri. Chi ne è colpito viene tagliato a pezzi. Sono soprattutto gli arti inferiori a subire le conseguenze più gravi.

Quali siano, poi, gli effetti sull’organismo nel tempo, prescindendo dalle ovvie mutilazioni, è un dato mancante alla Medicina. Se vogliamo fare la guerra, dobbiamo inventare sempre qualche novità per superare il nemico. Dobbiamo, però, anche sapere come garantirci contromisure contro le nostre stesse offese. Pensiamo agli effetti delle bombe al tungsteno o all’uranio impoverito, le seconde ben più impiegate delle prime per ragioni sia tecniche, sia economiche. Come si è accennato, l’altissima temperatura sprigionata dal loro uso crea quantità enormi di polveri finissime, le quali penetrano negli organismi e ne provocano la malattia. Questo fatto venne già previsto come eventualità da uno studio del 1977-78 condotto nella base militare di Eglin, Florida, dall’esercito statunitense, ed a lungo rimasto segreto. Nessuna sperimentazione è stata però condotta relativamente a questo aspetto. Solo diversi anni dopo, le nostre ricerche, effettuate senza essere a conoscenza del problema bellico, hanno dimostrato sperimentalmente i danni che polveri di dimensioni leggermente superiori od inferiori al micron provocano all’organismo. In breve, arrivò pure la consapevolezza dell’“eternità” di quelle particelle o, almeno, di gran parte di esse. Nel nostro caso, la parola eternità indica la persistenza nel tempo di quei materiali, non degradabili dalla Natura. Una volta generati, questi materiali permangono dunque per moltissimi anni – ancora non sappiamo esattamente quanti – nell’ambiente, andandosi così ad accumulare. Ecco, allora, che a quelle polveri patogene, capaci di galleggiare nell’aria e di risollevarsi da terra ad ogni soffio di vento, saranno inevitabilmente esposte anche le generazioni future. Restando al presente e limitandoci al fatto acuto, il momento dell’esplosione con conseguente creazione delle polveri ed i giorni immediatamente successivi, quando la concentrazione delle particelle è particolarmente elevata, occorre fare in modo che l’organismo non ne resti “contagiato”, prendendo in prestito un concetto dagli infettivologi. Ed ecco qui un esempio di fuoco amico moderno: le micro e nanoparticelle, come pallottole invisibili impazzite, una volta generate, non fanno alcuna distinzione tra gli schieramenti e nemmeno rispettano chi non c’entra nulla, come popolazione civile, operatori umanitari, giornalisti. Forse non sarà immediato attuare forme di prevenzione di fronte ad un’aggressione così invasiva e subdola, ma, di certo, la base imprescindibile sta nella conoscenza del fenomeno. È precauzione elementare non cibarsi di frutta, verdura e cereali cresciuti nella zona di più probabile ricaduta del particolato, né farvi pascolare gli animali da carne: in quella carne, poi cibo dell’Uomo, sarà inevitabile la presenza di particelle inorganiche non biodegradabili e biocompatibili. Un effetto visibile di questo tipo d’inquinamento è quello di ritrovare, in percentuali ben superiori all’abituale, animali malformati, nella maggior parte dei casi incapaci di sopravvivere al parto. Il motivo del fenomeno osservato esaminando gli organi dei cadaveri è il passaggio al feto del particolato patogeno dalla madre che si è nutrita di cibo, spesso erba, inquinato.

Esistono anche forme di esposizione definibili “a lungo raggio”, difficili da prevedere senza una conoscenza accurata del fenomeno ed un’attenzione meticolosa. Un caso interessante che abbiamo avuto occasione d’indagare nel nostro laboratorio è quello relativo ad un militare francese deceduto per un linfoma. Rimasto di stanza nei Balcani con mansioni di servizio, senza mai partecipare o essere vicino ad azioni di guerra, mostrava nel suo tessuto patologico la presenza di polveri con chimiche non riscontrate in altri soldati che avevano operato nella zona. La spiegazione di questa apparente stranezza venne quando fummo informati dal padre che il ragazzo aveva vissuto per sei mesi, dormendoci e mangiandovi, in un autocarro telonato proveniente dall’Iraq, mai ripulito dalle polveri di cui era sporco. Polveri provenienti da un altro inquinamento bellico. In quel caso, sarebbe bastata la conoscenza del problema per mettere in atto una forma tanto semplice e banale, quanto efficace, di prevenzione. Di pari interesse fu l’indagine che conducemmo sul tabacco di sigarette prodotte a Sarajevo in tempo di guerra, la cui superficie risultò disseminata di particelle contenenti anche uranio, senza dubbio inalate da chiunque avesse fatto uso di quel prodotto. Anche in quel caso, la consapevolezza del problema, con il conseguente scarto di quelle foglie, avrebbe consentito di evitare di aggiungere ai noti effetti nocivi del tabacco quello costituito dall’inalazione nei polmoni di polveri di uranio. Per anni si è negato l’uso delle armi all’uranio impoverito, attribuendo le patologie dei militari a cause fantasiose. Ancora oggi i governi nazionali tendono a minimizzarne gli effetti, peraltro lampanti quando si osservano al microscopio elettronico i tessuti malati secondo le tecniche da noi sviluppate nell’ambito del progetto europeo Nanopathology, concluso a metà del 2005. Da quelle osservazioni, la responsabilità delle polveri risulta certa. Purtroppo, però, riconoscere questa ovvietà costringerebbe i governi a risarcire in termini monetari i militari ammalati. Un impegno ancora maggiore potrebbe risultare nei confronti dei civili ammalatisi per la stessa ragione. È cosa fin troppo nota che, oggi, le casse di tutti gli Stati sono vuote. Nessuno dispone delle cifre che entrerebbero in ballo. Così, a costo di sostenere ciò che è scientificamente insostenibile, arrampicandosi su specchi sempre più scivolosi, si tenta una strategia “negazionista”, la quale, a volte, diventa a dir poco imbarazzante. In aggiunta, riconoscendo quegli effetti, sarebbe inevitabile ammetterne la diffusione a popolazioni non coinvolte nella guerra e, soprattutto, la trasmissione alle generazioni future, il che iscriverebbe immediatamente quelle armi nell’elenco di quelle proibite secondo le convenzioni internazionali. Potrà essere oggetto di meditazione considerare come gli stessi governi che negano o mettono in forte dubbio la nocività delle polveri investano poi qualche soldo negli studi per sviluppare sistemi di difesa e, dunque, di prevenzione, verso quelle stesse polveri.

Ovvero, di come, nel corso delle ultime guerre, e quando le condizioni lo richiedevano, l’esercito statunitense abbigliasse i suoi soldati in maniera acconcia, per esempio dotandoli di maschere per naso e bocca, lasciando che fossero gli eserciti di alleati meno attenti ed informati a presidiare le zone dove le polveri erano particolarmente dense. A margine, si consideri, infine, come in tutto l’Occidente esistano leggi che, senza connessioni con la guerra, prevedono addirittura sanzioni per quelle comunità nelle cui zone di competenza si superano i livelli stabiliti dalla legge stessa per la concentrazione di particelle analoghe a quelle di origine bellica. Altro elemento di meditazione può essere quello di osservare come i militari USA inviati nelle zone in cui gli armamenti ad alta temperatura erano impiegati fossero invitati a non procreare per qualche anno al ritorno dalle missioni. Una spiegazione la vediamo nel nostro laboratorio esaminando al microscopio elettronico campioni di sperma dei reduci, sperma inquinato dalle polveri di cui si sta trattando. Come informazione a margine, quella presenza estranea può causare sterilità. L’inconveniente è superabile depurando in maniera idonea il liquido seminale ed intervenendo poi con una fecondazione assistita, sempre che si sia al corrente del problema e della sua soluzione. Oltre alla sterilità, nel caso di rapporto sessuale, quello sperma provoca l’insorgenza nella partner della condizione nota come “burning semen disease”: in essa si assiste alla formazione di piaghe sanguinanti, dolorose e refrattarie ai trattamenti farmacologici e chirurgici a livello della mucosa vaginale. La forma di prevenzione più semplice ed efficace in quel caso è l’uso di un preservativo. Analogamente a quanto avviene in settori diversi, la carenza d’informazione, a qualunque causa questa carenza sia dovuta, è il primo ostacolo alla prevenzione degli effetti non voluti degli armamenti. Un’informazione palesemente carente in un numero enorme di casi è quella di cosa sia stato impiegato e dove. Nelle zone in cui la guerra è ormai un evento del passato, è molto raro che si disponga di mappe credibili che mostrino con chiarezza le zone in cui è stato impiegato un determinato mezzo d’offesa. In queste condizioni, diventa arduo tentare una bonifica, sempre, comunque, molto difficile e mai radicale. Tutto questo non è limitato ai teatri di guerra, ma si estende anche ai poligoni militari, non di rado particolarmente estesi. In essi si svolgono per anni, quasi sempre decenni, esercitazioni e sperimentazioni di armi di cui, quanto agli effetti sanitari, si ha una conoscenza solo superficiale e del cui impiego è difficile, se non impossibile, risalire a distanza di molto tempo, quando si manifestano gli effetti sulla popolazione umana ed animale. Ma, anche restando in ambiti ben più piccoli, la mancata conoscenza provoca effetti deleteri. Un esempio è quello delle caserme improvvisate, ricavate all’interno di edifici bombardati, ma ancora in parte agibili, o di piccoli ospedali con tanto di sale operatorie allestite in situazioni analoghe. La nostra esperienza personale di laboratorio è quella di constatare malattie da polveri, nella quasi totalità dei casi di natura tumorale, in chi in quelle costruzioni si era acquartierato senza affatto escludere i medici che vi avevano lavorato. Condizioni ancora più critiche si riscontrano in bunker sotterranei molto estesi e complessi come, ad esempio, quelli afghani di Tora Bora. Attorno ad essi si verificarono esplosioni ad altissima temperatura, con formazione di polveri le quali, stante il tipo di costruzione senza sfoghi all’esterno, non possono far altro che restare intrappolate entro quella rete di sale, corridoi e cunicoli.

Chi dovesse per qualunque ragione entrarvi, dovrà essere ben cosciente del rischio, anzi, della certezza, di venire contaminato dalle polveri. Dovrà, dunque, penetrarvi con protezioni che lo isolino completamente dall’ambiente. Da tenere nella giusta considerazione è, poi, l’uso dei cosiddetti “fornelli”. Accade che un esercito s’impadronisca di armi del nemico di cui non sappia che farsene o abbia la necessità di liberarsi delle proprie, a volte per l’antieconomicità di riportarle in patria. Così se ne fa un mucchio, il “fornello”, magari accatastato in un buco nel terreno, e lo si fa esplodere. In questo modo si generano polveri in quantità, eppure è possibile trovare su internet video nei quali si vedono i soldati impiegati nella mansione di provocare l’esplosione restare fermi, senza alcuna protezione, a contemplare lo spettacolo. Escludendo un’incoscienza suicida, non si può non presumere che quei militari non siano stati adeguatamente informati del rischio al quale sono sottoposti. Esistono pure pratiche di prevenzione del tutto elementari, addirittura raccomandate da sempre dai medici del lavoro, che non trovano applicazione. Una, basilare, è quella di non riportare a casa o, comunque, negli ambienti in cui si svolge una vita in comune, gli abiti indossati quando si è stati per qualunque ragione sottoposti all’inquinamento da polveri sottili ed ultrasottili. Quegli abiti rappresentano un veicolo formidabile di trasporto delle particelle verso individui che, altrimenti, non ne sarebbero entrati in contatto o, almeno, non in un contatto così intenso e spesso cronico, stante l’abitudine quotidiana di non svestire quegl’indumenti in un luogo idoneo dove restino isolati e vengano lavati o ricondizionati in maniera idonea, con le giuste protezioni di chi svolge l’attività di lavaggio o ricondizionamento. In conclusione, prescindendo dalla logica offensiva della guerra, che dovrebbe limitarsi davvero ad essere “chirurgica”, come l’abbiamo sentita definire con qualche venatura di trionfalismo, non è possibile esimersi dal mettere in atto forme di prevenzione che difendano i civili e chi a quei civili succederà come generazione futura. In aggiunta, dovrebbe essere cosa logica concepire il soldato non come qualcuno votato alla morte, la classica “carne da cannone”, ma, in qualche modo, come un lavoratore che deve essere protetto dalle conseguenze nocive della sua attività professionale. Questo al di là di ogni considerazione ideologica. Va detto che l’informazione sta alla radice della possibilità di praticare forme di difesa preventiva e che un messaggio corretto mette in condizione di porre in atto forme di protezioni personali e di gruppo con costi irrisori, se non inesistenti. A questo punto, la responsabilità dei governi e delle forze armate è pesantissima e almeno altrettanto pesante è quella degli scienziati che si prestano a nascondere quelli che sono nient’altro che fatti.

Antonietta Gatti
Professore associato all’Istituto ISTEC CNR di Faenza
e Visiting Professor of the Institute for Advanced Sciences Convergence (Department of State, USA)
Stefano Montanari
Direttore del Laboratorio della Nanodiagnostics di Modena

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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