Il perchè del Volontariato

Le associazioni e le organizzazioni di Volontariato vanno considerate, in primo luogo, attori “politici”, portatori di una visione della società e del suo sviluppo diversa da quella affermatasi nella modernità, e non solo, né principalmente, come organizzazioni strumentali e di servizio.

Nelle analisi degli studiosi americani ed in quelle della maggior parte degli europei e degli italiani, che ad esse si sono ispirati, lo studio del Volontariato o, più in generale, del Privato sociale/Terzo settore, è stato a lungo dominato dalle teorie economiche neo-classiche che ne collegano l’emergere ai “fallimenti” incontrati dalle grandi istituzioni della modernità – Stato e mercato – in molte aree di intervento. Letto in questa chiave, il Volontariato diviene un fenomeno solamente funzionale, considerato sotto il profilo della produzione e della fornitura di servizi integrativi, sostitutivi o alternativi a quelli pubblici e/o di mercato. Io ritengo riduttivo l’approccio di studio accennato e vorrei proporre un’interpretazione diversa della nascita del Volontariato, di natura sociologica. Parto dall’osservazione che nell’Occidente, culturalmente influenzato dal Cristianesimo, alcuni settori della società hanno sempre sviluppato la consapevolezza della necessità di organizzarsi per rispondere in modo autonomo ai bisogni o ai problemi prodotti dalle condizioni sociali esistenti. Naturalmente, la forma assunta da queste risposte si è continuamente modificata, passando dagli ordini monastici e dalle confraternite del medioevo alle congregazioni religiose della prima modernità, per arrivare alle iniziative laiche denominate in Italia “Società di mutuo soccorso”. Ciò che è rimasto costante, nel mutare delle forme empiriche, è stata la volontà evidenziata da alcuni attori sociali di rispondere concretamente alle condizioni di bisogno o ai problemi, propri ed altrui, senza rimandare all’intervento dello Stato. Ciò è avvenuto anche quando lo Stato ha deciso di farsi carico dei bisogni sociali e li ha riconosciuti come diritti sociali della cittadinanza, e senza assumere la forma dell’impresa di mercato, anche dopo l’affermarsi dell’economia capitalistica come modello dominante. Per capire adeguatamente come e perché sia esploso il fenomeno del Volontariato nell’Italia degli anni ’60-‘70, dobbiamo, quindi, analizzare non solo le cause “esterne”, le strutturali carenze di Stato e mercato che hanno reso necessario l’apporto integrativo, sostitutivo o riparativo delle famiglie e delle associazioni (si pensi all’alluvione di Firenze o al terremoto in Irpinia), ma anche le cause “interne”, le motivazioni affermatesi entro settori della società civile nel processo di cambiamento che ha coinvolto la società italiana a partire da quegli anni, anche come effetto dello sviluppo economico. Alle tradizionali espressioni della carità cristiana e della solidarietà laica si sono aggiunti i nuovi movimenti sociali che hanno cominciato a protestare contro una crescita solo quantitativa, misurata, cioè, solo sull’incremento annuale del PIL (prodotto interno lordo), contrapponendo ad essa una domanda di “qualità” della vita che, col susseguirsi delle varie ondate di protesta (movimenti femministi, studenteschi, operai, ecologisti, pacifisti, terzo-mondisti), ha messo in discussione in modo più o meno radicale i pilastri dell’economia capitalista e dello stile di vita occidentale. Le critiche non hanno riguardato solo il mercato, ma anche il ruolo dello Stato, accusato da alcuni movimenti, ad esempio quello femminista, di scarso interventismo, con l’effetto di sovraccaricare il ruolo femminile e rendere problematici l’accesso e la permanenza delle donne nel mercato del lavoro, o di essere inefficiente. Altre critiche si sono però concentrate sulla denuncia dell’effetto di progressivo indebolimento del legame sociale indotto dalla crescita dell’interventismo statale. Da parte di alcuni gruppi e da parte di alcuni movimenti si avvertiva che lo Stato cosiddetto sociale tendeva ad espandere continuamente i propri interventi (e la relativa spesa) per sostituirsi ad una società che quegli stessi interventi tendevano ad indebolire progressivamente, in quanto incapaci di produrre società, intesa come solidarietà interpersonale, legame sociale esteso oltre i confini del privato familiare e funzionali, invece, alla riproduzione di lavoratori/consumatori “adatti” al mercato capitalistico. Per contrastare questo processo di rinsecchimento o “colonizzazione” dei mondi vitali, e non solo per motivi funzionali, un certo numero di individui, famiglie e gruppi ha sentito l’esigenza di costruire e/o rafforzare forme di risposta ai bisogni del vivere quotidiano che esprimessero anche il “senso” di vita buona o di qualità della vita da loro condiviso, che non riconoscevano né nello stile di vita pubblicizzato dai mezzi di comunicazione di massa al servizio del mercato, né nel modello di relazioni sociali sotteso al sistema istituzionale di welfare state. È, dunque, anche una nuova domanda di “senso” quella che ha rimesso in gioco le formazioni sociali intermedie, in un contesto in cui il welfare state in Italia era ancora in costruzione. Nella prospettiva che propongo, quindi, le associazioni e le organizzazioni di Volontariato vanno considerate, in primo luogo, attori “politici”, portatori di una visione della società e del suo sviluppo diversa da quella affermatasi nella modernità, e non solo, né principalmente, come organizzazioni strumentali e di servizio.

La cultura del Volontariato
Che tipo di cultura esprime il Volontariato? Perché è importante che i giovani la conoscano e, possibilmente, la facciano propria? Ad un livello di grande generalizzazione, che ci permette di non tener conto delle differenze ideologiche che pur si riscontrano a livelli più specifici, possiamo cogliere quali siano i valori a cui si riferiscono gli attori del Volontariato leggendo le formulazioni che compaiono nei primi articoli dei loro statuti associativi. In generale, i valori richiamati sono la solidarietà, l’attenzione alla persona umana o agli esseri viventi (comprendendo anche animali e piante), l’obbligatorietà morale del dono, che deriva spesso dalla consapevolezza di aver ricevuto da altri (Dio, il Destino, la Fortuna, altre persone, come i genitori, gli amici, i benefattori) ciò che di buono si possiede, in primo luogo la vita stessa. Si tratta di valori che, almeno in certa misura, possiamo trovare anche nelle Costituzioni o in altri documenti fondativi delle Democrazie avanzate, come la Carta dei diritti umani fondamentali. La specificità della cultura del Volontariato, quindi, non consiste tanto nel tipo di valori dichiarati, ma nell’idea che essi devono essere messi in pratica, cioè che dai valori discendono diritti che devono essere implementati, sia dagli Stati, sollecitati a tradurre i valori proclamati dalle Carte in scelte politiche conseguenti (attività di advocacy), sia dalle associazioni, che devono tradurre i valori dichiarati in azioni concrete, efficaci e durature di risposta ai bisogni di tipo assistenziale, educativo, sanitario, culturale ed ambientale presenti sul territorio. Nella misura in cui mette in relazione diritti e doveri, si può affermare che il Volontariato esprima fondamentalmente una cultura “attiva” della cittadinanza. Una dimensione ulteriore della cultura, oltre ai valori, è rappresentata dalla normatività, le regole che orientano i comportamenti.
Le due regole fondamentali del Volontariato si possono esprimere così:
– un intervento, o servizio, va prestato non perché ci sia qualcuno (Stato o privati) in grado di pagarlo o finanziarlo, ma perché c’è qualcuno a cui serve (prevalenza del valore d’uso sul valore di scambio);
– un intervento, o servizio, va prestato non perché ci sia una legge che lo preveda o che obblighi a farlo, ma perché c’è qualcuno a cui serve. Usando un ossimoro, potremmo dire che si tratta della regola dell’obbligatorietà volontaria, la quale trova le ragioni del prendersi carico nella stessa relazionalità o socialità degli esseri viventi. Differenziandosi sia dalla logica del profitto, propria del mercato, sia dalla logica del comando, tipica dello Stato, la normatività del Volontariato deve essere riferita ad un principio diverso, che molti autori hanno definito logica del dono o reciprocità. Il termine “reciprocità” descrive il carattere promozionale della logica del dono che ha come scopo ed esito finale il rafforzamento della fiducia, del legame sociale o del senso di appartenenza reciproca.

Il ruolo sociale del Volontariato
Qual è, allora, il ruolo “politico” del Volontariato per la società contemporanea?
Innanzitutto, il Volontariato produce per tutta la società un tipo particolare di beni sempre più importanti, perché rispondono a bisogni che crescono con l’aumento della complessità sociale e che non vengono soddisfatti né dai beni privati, prodotti dal mercato, né dai beni pubblici, prodotti dallo Stato. Alcuni autori hanno definito questi beni “relazionali”, perché “stanno”, cioè consistono di relazioni e crescono attraverso le relazioni. A seconda che si tratti di relazioni primarie o secondarie, parleremo di beni relazionali primari o beni relazionali secondari (o collettivi). Pensando all’esperienza di ciascuno di noi in famiglia come figlio, genitore o partner, ci si rende conto che il bene relazionale non è solo, o non è tanto, il cibo preparato, l’aiuto nello studio, il gioco fatto assieme, ma il “modo” in cui queste attività vengono offerte e ricevute, un “modo” che ci permette di capire che non sono fatte per dovere (comando) o per vantaggio (profitto), ma per la consapevolezza che si condivide qualcosa di comune (appartenenza reciproca), e che ha come esito non solo il rafforzamento del legame, ma un aumento della fiducia in sé e negli altri. Qui non si sostiene che tutte le famiglie e tutte le organizzazioni di Volontariato riescano a produrre senza limiti e nel migliore dei modi i beni relazionali di cui la società ha bisogno, ma che queste sfere riescano a produrli ed a metterli in circolo, mentre, nella maggior parte dei casi, Stato e mercato li consumano senza saper riprodurli. La differenza fra i beni relazionali prodotti dalle reti informali (beni primari) e quelli prodotti dal Volontariato (beni secondari o collettivi) è che i primi sono particolaristici, mentre i secondi, in linea di principio, sono universalistici, aperti ai bisogni di tutti. È proprio per questo potenziale universalismo che il Volontariato è stato definito come “nuova società civile”.

Conclusioni
Credo che quanto abbia cercato di esporre possa bastare a capire perché per l’Europa sia così importante il ruolo del Volontariato, al punto da eleggere il 2011 ad “Anno europeo del Volontariato”. Grazie alla cultura della cittadinanza attiva, alla norma della reciprocità ed alla produzione dei beni relazionali secondari, l’esperienza del Volontariato può diventare, specie per le nuove generazioni, un antidoto forte nei confronti delle spinte sempre più forti verso l’individualizzazione e la frammentazione sociale, aiutando a creare o a rafforzare quella coesione sociale senza la quale nessun Paese può ragionevolmente guardare con ottimismo al proprio futuro.

Ivo Colozzi
Professore Ordinario di Sociologia Generale presso l’Università di Bologna Alma Mater Studiorum

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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