Fra disabilità ed integrazione

Sono passati molti anni da quando il Parlamento italiano recepì le convinzioni che un grande movimento culturale, sociale ed educativo portava avanti fin dagli anni ‘60, il superamento dell’idea di “istituzionalizzazione” quale metodo educativo e sociale di promozione umana.

Un Paese non può dirsi civile solamente perché è in grado di offrire benessere e ricchezza. E’ tale quando riconosce la dignità e rispetta i diritti di tutti i suoi cittadini, anche di coloro i quali vivono ai margini, conducendo un’esistenza che richiede continuamente aiuto e sostegno, o sono diversi sul piano fisico, mentale, sensoriale, o non riescono ad adattarsi ai normali canoni di convivenza sociale. L’articolo 3 della nostra Costituzione è molto chiaro: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” Un Paese può dirsi civile, quindi, quando riconosce i diritti dei più indifesi e cerca di offrire loro sostegno, protezione ed opportunità idonee alla soddisfazione dei loro bisogni. L’educabilità dell’uomo non può ammettere remore. Se l’uomo, come affermava Rosmini, “è il diritto”, non possono essere tralasciati nessuna azione e nessun impegno per poter offrire tutto ciò che la sua condizione richiede.

Le persone con disabilità in Italia
Se esiste una realtà, un settore in cui noi Italiani siamo guardati con stima e rispetto, è il nostro modello formativo e sociale di integrazione. Non diciamo questo per rivendicare una sterile supremazia in qualche campo o per orgoglioso nazionalismo fuori luogo ed inconcludente, ma sottolineiamo un dato di fatto: solo ora alcuni Paesi occidentali tentano, con grande fatica, di percorrere i sentieri di integrazione che da molto tempo sono conosciuti in Italia. Sono passati molti anni da quando il Parlamento italiano recepì le convinzioni che un grande movimento culturale, sociale ed educativo portava avanti fin dagli anni ‘60, il superamento dell’idea di “istituzionalizzazione” quale metodo educativo e sociale di promozione umana. Con la legge 517 del 1977 si aprirono le porte delle scuole comuni all’integrazione, anche se il fondamento giuridico del diritto a frequentare le classi normali risultava già definito dalla legge 118 del 1971. Se guardiamo con occhi attenti e sereni a questi lunghi anni, constatiamo che il cammino effettuato non è stato vano e quella scelta si impose con tutto il suo valore. Contribuì a modificare l’intera scuola italiana in tutti i suoi aspetti pedagogici e didattici. La presenza nelle classi dell’allievo disabile ha provocato, negli insegnanti, la ricerca di un nuovo modello educativo didattico, capace di soddisfare i bisogni di tutti gli allievi presenti in aula.

L’integrazione a scuola
La scuola ha imparato, e dove si lavora bene ciò è ben documentato, ad accogliere l’allievo con deficit, a dialogare con medici, psichiatri e specialisti della riabilitazione, innestando un processo di costruzione unitaria di percorsi educativi e riabilitativi e di comunicazione multidisciplinare e plurispecialistica grazie anche alla legge 104 del 1992. Dove si lavora bene, l’integrazione ha favorito quell’apertura al territorio che ha dato sviluppo all’interesse educativo verso l’esperienza concreta, valore aggiunto per ogni processo formativo finalizzato a preparare alla vita. Ha costretto gli insegnanti a promuovere un cambiamento radicale nel modello didattico tradizionale, quello cattedratico e, soprattutto nei cicli inferiori, si sono notate innovazioni metodologiche molto interessanti. Ha aumentato il benessere degli allievi poiché l’interesse verso la persona “educanda” è diventato l’aspetto primario del lavoro degli insegnanti, mettendo in subordine il programma ministeriale. Ha favorito l’abbattimento di un altro muro del nostro modello scolastico, l’incomunicabilità fra docenti: gli insegnanti non possono più vivere la loro professione come monadi isolate, hanno compreso che si opera in modo competente e significativo solamente programmando in gruppo ed operando in modo condiviso anche con gli allievi, non solo all’interno di una classe, ma più globalmente a livello di plesso scolastico. Lo studio sulle interazioni sociali degli studenti integrati in classi normali ci dice, inoltre, come i benefici acquisiti siano importanti sia per i soggetti disabili, sia per i compagni privi di deficit.

Una situazione integrativa variegata
Il problema è quello di lavorare bene. Purtroppo, in Italia si notano spesso situazioni educative e didattiche molto negative sul piano integrativo. La precarietà del quadro generale è evidente: una persona disabile deve avere la fortuna di vivere in certi contesti regionali per poter sviluppare al massimo le proprie potenzialità ed alcune zone vantano una capacità di cura migliore rispetto ad altre, ospedali e specialisti della riabilitazione più qualificati, un sistema scolastico più efficace, un’esperienza di integrazione migliore. Ma anche nel medesimo ambito sociale e civile, purtroppo, il disabile non possiede la sicurezza di trovare sempre la competenza necessaria: se inserito in un programma formativo e riabilitativo idoneo, deve augurarsi che lo specialista che lo ha preso in carico sia assunto a tempo indeterminato e possa, quindi, impostare un’azione riabilitativa continuativa nel tempo, mentre, nella scuola, deve sperare che gli insegnanti del proprio team docente siano di ruolo per garantirsi la stabilità e la continuità educativa richieste dalla sua condizione. Questa situazione estremamente variegata e disomogenea si è verificata per molti motivi, in particolare perché le competenze pedagogiche speciali non sono diffuse in tutte le zone del nostro Paese come invece dovrebbero essere. I dati ci dicono che è possibile lavorare sul piano integrativo a scuola e che si possono ottenere i risultati. Purtroppo, però, ciò non si realizza sempre. E’ questo il problema. Le incompetenze in campo educativo di insegnanti incapaci di comprendere i bisogni degli allievi con problemi, di titolari di cattedra ancora convinti che il “disabile” non appartenga alla classe, ma sia un ospite sopportato solo se c’è il collega di sostegno, di dirigenti impreparati nel gestire e dirigere un istituto sul piano integrativo, conducono molti allievi a vivere con profonda sofferenza un’esperienza che dovrebbe, invece, essere esaltante, sul piano umano e culturale. In questi anni di esperienze educative con le persone disabili, abbiamo compreso che, dove si lavora bene, risulta possibile impostare correttamente un progetto di vita. Anzi, visti i risultati ottenuti quando è stato realizzato, ciò è assolutamente auspicabile per il bene del soggetto gravato da problemi. Migliaia di disabili lavorano, si alzano presto la mattina, usufruiscono dei mezzi pubblici e raggiungono il posto di lavoro come qualsiasi altro cittadino. Certo, molti vivono in famiglia, ma tantissimi risiedono in case di accoglienza e sono felici perché hanno trovato un ambiente stimolante, una nuova casa-famiglia che li ha accettati e presi in carico quando i genitori sono deceduti o prima che le loro forze venissero meno nella cura quotidiana del loro figliolo affetto da deficit. La persona con disabilità va al cinema, a teatro, si reca al mare o in montagna, pratica sport anche se presenta deficit gravi. La “normalità” della disabilità nei contesti sociali, culturali, lavorativi e sportivi è sempre più una realtà. Ma ciò è dovuto al fatto che queste persone hanno incontrato, nell’arco della loro vita, fin dai primi attimi della loro esistenza, una situazione educativa in grado di promuovere e coordinare le attività riabilitative e specialistiche indispensabili alla loro crescita e sono state inserite in un campo affettivo, sociale ed educativo capace di dare senso compiuto agli sforzi profusi, alla luce di un progetto di vita che fin dall’inizio occorre abbozzare e pensare in modo dinamico ed evolutivo. Quando tutto questo si è realizzato, quando le competenze degli operatori incontrati dal disabile hanno saputo procedere in modo unitario, confrontandosi sulla questione cruciale del progetto di vita, allora i risultati positivi sono stati raggiunti.

Il problema del lavoro della persona con disabilità
E’ assolutamente necessario che in questo periodo di profonda crisi economica si pensi con attenzione alle politiche scolastiche e sociali a favore delle persone con disabilità. A tutt’oggi, il tasso di occupazione fra i disabili è inferiore alla metà di quello rilevato fra i non disabili. Occorre porre al centro del dibattito politico e sociale l’urgenza del lavoro anche per la persona con deficit, poiché il lavoro è elemento determinante per la crescita dell’autostima e dell’identità, ed è strumento imprescindibile di indipendenza. L’integrazione delle persone con disabilità in Italia è fortemente a rischio: le abilità necessarie per un inserimento dignitoso aumentano di giorno in giorno e diventano sempre più complesse. Per le persone con deficit è sempre più difficile raggiungere l’autonomia personale, di comportamento e di movimento. Ciò rappresenta un vero problema che occorre risolvere. In questi anni si è capito che risulta possibile favorire processi di crescita ottimale rispettando il diritto all’autonomia della persona con disabilità, ma ciò si può ottenere solamente se le competenze sulle tematiche integrative diventano elevate e sempre più diffuse.

Luigi d’Alonzo
Professore Ordinario di Pedagogia Speciale presso l’Università Cattolica di Milano
Presidente delle SIPeS (Società Italiana di Pedagogia Speciale

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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