Le radici della Nazione

L’italiano cinquecentesco è poco distante da noi, chiaro ancora e parlante alle orecchie di un Italiano del Duemila. Machiavelli scrive in un italiano che sembra ancora fresco di giornata. Anche Dante è relativamente facile da leggere. Non lo è, al contrario, Chauser per un Inglese, non lo è il Cid per uno Spagnolo, o la Chanson de Roland per un Francese, che vanno tradotti perché oggi li si possa capire.

Per prima è venuta la lingua: la lingua della letteratura, le cui validità e tenuta hanno prefigurato, sin dalle Origini, un’unità nazionale immaginata ed inseguita come un desiderio. Era toccato cinque secoli prima ad un poeta, Dante, segnare la data d’inizio di quest’unità ideale, quando, nel De vulgari eloquentia, vedeva l’Italia come lo spazio geografico su cui una lingua letteraria avrebbe dovuto diffondersi. Dante pensa ad un volgare letterario del sì di ampio respiro, fondato su un gruppo non solo di toscani, ma sul gruppo meridionale dei siciliani già fioriti al tempo di Federico II, ed accoglie nella ‘federazione’ dei lirici anche un bolognese, Guinizelli. La parola letteraria già si stende su un’unità geografica e culturale prima che essa esista realmente. Soltanto sei secoli dopo si realizzerà quell’antico “desiderio”. L’idea e la fondazione di un’unità linguistica sarà più a fondo acquisita nel Cinquecento, quando, sulla base dei concetti dell’umanesimo, cioè il valore culturalmente aggregativo assegnato alla parola ed al pensiero, si conferirà un valore imprescindibile alla scrittura come condizione necessaria alla durata. La fede nel valore perenne dei testi starà alla base della nostra storia (e non solo linguistica). Come la pedagogia umanistica aveva fissato il canone dei buoni autori da prendere a modello per scrivere latino, così, nei primi del Cinquecento, il Bembo additava anche per il volgare i buoni libri degni di imitazione, vale a dire i classici fiorentini dell’«aureo» Trecento. A noi mancava una Nazione, mancava una monarchia nazionale, ma la cultura umanistica precedeva nei tempi gli altri Paesi, tracciando in ambito culturale i confini di una forte ed indelebile unità. Un’unità certamente aristocratica, nobile, elitaria, popolare se non quando ha saputo nutrirsi degli umori regionali e dialettali, quasi mai materna, nativa, perlopiù acquisita. Nel corso del tempo abbiamo faticato non poco a costruirci una Nazione ed una lingua comune.

Oggi, a 150 anni dall’Unità raggiunta, ci sono Italiani che ancora sentono di appartenere più alla ‘piccola’ che alla ‘grande patria’. Lo spirito di fazione ha radici antiche. Da tanta e lunga divisione dipende l’allentato sentimento patriottico-identitario di noi Italiani, così diverso da quello degli altri. Ma nel nostro Paese ci ha pensato la lingua della letteratura ad indicare, sin dalle Origini, una perseveranza, un desiderio di unità che si protende nel tempo e con forza tra le pieghe delle scritture. Quest’unità, più umilmente sotto forma di aria di famiglia, noi rifacciamo ogni giorno anche nel parlare quotidiano. Come ricordavo nella recente “Vela” einaudiana (Mia lingua italiana. Per i 150 anni dell’unità nazionale, Torino 2011), le parole delle patrie lettere noi le usiamo quotidianamente come echi di un riconoscimento: affondano le radici nei classici letti a scuola, che hanno costantemente fatto da collante, mantenuto la memoria storica della comunità, fatto da contrappeso alla labilità della nostra coesione nazionale. Ma a proposito dell’importanza della lingua letteraria come ripetizione, come tenuta o continuità, si pensi a come la nostra letteratura nazionale abbia contribuito a lasciare di sé dei segni duraturi nella lingua, come l’abbia caratterizzata dall’interno. Innanzitutto ha fatto sì che la lingua rimanesse nei secoli vicina, strutturalmente, alla lingua delle Origini. Cosa che negli altri Paesi europei non è capitato.

L’italiano non è una di quelle lingue ad aver subìto, nel lungo periodo, dei cambiamenti importanti o radicali. L’italiano cinquecentesco è poco distante da noi, chiaro ancora e parlante alle orecchie di un Italiano del Duemila. Machiavelli scrive in un italiano che sembra ancora fresco di giornata. Anche Dante è relativamente facile da leggere. Non lo è, al contrario, Chauser per un Inglese, non lo è il Cid per uno Spagnolo, o la Chanson de Roland per un Francese, che vanno tradotti perché oggi li si possa capire. Nessuno pensa di tradurre Dante. È una lingua, la sua, che ancora riconosciamo non lontana. Tanta continuità è dovuta al fatto che la formidabile elaborazione letteraria trecentesca del dialetto fiorentino ha nel giro di poco fornito alla nostra lingua le strutture fondamentali con i grandissimi testi delle «tre corone», e in essi la nostra letteratura si è riconosciuta. È, al riguardo, molto interessante misurare la progressiva diffusione del toscano su tutta la penisola man mano che si diffondono sul territorio i manoscritti di Dante e di Petrarca. Sono state le lettere e non gli eserciti a diffondere l’italiano. L’affermarsi di un dialetto (il fiorentino) su tutti gli altri è il prodotto di fattori esclusivamente culturali, non di un potere politico centrale, non di una integrazione sociale. Ma da noi (con una corona di grandi testi del Trecento come base per un’unità linguistica d’élite, con l’italiano non lingua materna: materni soltanto i dialetti) l’italiano doveva tardare a diventare, in un’Italia divisa, una lingua comune e popolare, veramente parlata. Ancora nel secondo Ottocento, ai tempi dell’unificazione, l’italiano restava una lingua colta destinata alla scrittura, lingua per pochi. Allo stesso Manzoni era sembrata una lingua «morta»: sui libri ne aveva dovuto difatti approfondire la competenza. Ma per scrivere un romanzo nazionale occorreva una lingua «viva e vera», che in qualche modo appartenesse anche ad una società di parlanti. Il suo fondo comune non poteva essere, a suo avviso, che il fiorentino. All’Ascoli, invece, pareva che una lingua nazionale non potesse che ritemprarsi nelle fonti vive di tutta la Nazione e non di una sola città. Ed era stato profetico nel pensare che soltanto una circolazione di uomini, di cose, un dialogo di idee, che soltanto il concorso di tutte le parlate regionali avrebbero costruito l’unità della lingua. Il tempo fu dalla parte dell’Ascoli, meno dalla parte del Manzoni. Ma a parte la lingua per scrivere romanzi o poesie, era la lingua della conversazione che mancava, e, soprattutto, mancava all’Italia una «lingua media». Materni erano i dialetti, e l’italiano una lingua «con la penna» (Ascoli). Il Novecento ha in parte risolto l’annosa «questione», completando la diffusione della lingua nazionale sull’intera penisola. L’unità faticosamente raggiunta non ha comunque cancellato la molteplicità, l’ha anzi rinsaldata in un vivido mosaico e ne ha esaltato i colori. Siamo diventati Italiani senza rinnegare il passato, le tradizioni, le diversità: una diversità che sarebbe rimasta tale se non ci fossimo confrontati e uniti.

Gian Luigi Beccaria
Professore Ordinario di Storia della Lingua Italiana
presso l’Università di Torino, Membro dell’Accademia della Crusca

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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