I lavori dell’Assemblea Costituente

Pur essendo opera interamente umana, la nuova Costituzione è il segno e l’espressione di una vita nuova: quelle norme non si riducono alla mera imposizione di divieti, ma delimitano e presiedono ancor oggi lo spazio della nostra libertà.

Il 25 giugno 1946 si insedia l’Assemblea Costituente della nuova Repubblica italiana ed il 20 luglio comincia i suoi lavori la Commissione (detta “dei 75”) incaricata di redigere un progetto di Costituzione. Il progetto verrà consegnato alla presidenza dell’Assemblea plenaria il 31 gennaio 1947 e, discusso ed emendato, verrà votato nel testo definitivo il 22 dicembre dello stesso anno. È un anno e mezzo di confronti tra culture e forze politiche molto diverse, contrassegnato da un clamoroso cambio di governo (dall’alleanza tripartita tra i grandi partiti popolari verso i governi “centristi”) in un clima di crescente, enorme, turbolenza e tensione interna ed internazionale. Eppure, in quei mesi, gli Italiani portano a compimento il loro Esodo dall’Egitto, la loro liberazione dalla schiavitù. Come per le tavole bibliche, la nuova legge è segnata dalla storia che la precede e da un’esperienza di liberazione già presente. È un comando, ma che si rispetta non per essere salvati, ma perché si è già salvi. Ed è quasi un mistero: pur essendo opera interamente umana (di uomini spirituali?) la nuova Costituzione – lungi dall’essere un nuovo pesante fardello – è il segno e l’espressione di una vita nuova: quelle norme non si riducono alla mera imposizione di divieti, ma delimitano e presiedono ancor oggi lo spazio della nostra libertà. Due testimonianze di grandi costituenti – Palmiro Togliatti e Aldo Moro – illuminano la consapevolezza di quei giorni intorno al nostro “cambio” storico, sociale, istituzionale e sulla natura liberante, profondamente umana, della nuova Costituzione. L’11 marzo 1947 il comunista Palmiro Togliatti interviene all’Assemblea plenaria della Costituente nella discussione preliminare del Progetto di Costituzione. Si chiede “perché facciamo una Costituzione nuova” e prende spunto dall’intervento in Assemblea di qualche giorno prima di Francesco Saverio Nitti.

Esponente del vecchio ceto dirigente prefascista, Nitti aveva premesso ad una valutazione complessivamente negativa del Progetto che “dopo le grandi guerre, cambiare le Costituzioni è nei tempi nostri destino dei popoli vinti. I vincitori non le cambiano”. In realtà, reagisce Togliatti, via via che si consolida nella vita dei popoli il principio democratico (“del governo del popolo, per il popolo, attraverso il popolo”), “accade alle volte ad una stessa generazione di essere spettatrice di un dramma storico ed esecutrice dei giudizi di condanna che ne derivano nella coscienza popolare. Allora veramente, secondo il profondo motto del filosofo e poeta «die Weltgeschichte wird Weltgericht», la storia universale si fa giudizio universale; e si fa giudizio universale, proprio perché i popoli si sentono responsabili del proprio destino, verso se stessi e verso i propri figli”. La Costituzione, insomma, sarà “nuova” per tener conto di ciò che è accaduto, tirando le somme del processo storico-politico conclusosi con la catastrofe nazionale. Una catastrofe figlia della politica di una classe dirigente “la quale non seppe né vedere, né prevedere”, lasciò fare e, per questo, fu complice. Togliatti si rivolge agli esponenti della vecchia classe liberale che siedono in Assemblea con rispetto, ma anche con severità, in uno stato di comprensibile, forte, emozione. “Perché voi avevate occhi e non avete visto. Quando si incendiavano le Camere del lavoro, quando si distruggevano le nostre organizzazioni, quando si spianavano al suolo le cooperative cattoliche, quando si assaltavano i municipii con le armi, o si faceva una folle predicazione nazionalistica, non dico che voi foste complici diretti, ma senza dubbio eravate in grado di dire quelle parole che avrebbero potuto dare una unità a tutto il popolo, animandolo a una resistenza efficace contro quella ondata di barbarie”. Tollerabili “esuberanze”, oppure metodi considerati accettabili per ridurre alla ragione i “sovversivi”.

Ma chi erano – e sono – i sovversivi? “Le nuove forze del lavoro e le loro classi dirigenti che vogliono il posto che spetta loro nella direzione della vita pubblica e dello Stato, che vogliono imprimere una vita nuova a tutta la Nazione”. Non è solo rappresentativo del suo partito, Togliatti, quando esclude per il futuro ogni tolleranza del “giuoco, più o meno aperto, più o meno palese, di gruppi che vorrebbero manovrare a loro piacere la vita politica italiana perché concentrano nelle loro mani le ricchezze del Paese”. La rottura – costituzionale e perciò “rivoluzionaria” – col passato prefascista è dichiarata: Togliatti rifiuta con forza le proposte di tornare in qualunque modo al precedente Statuto Albertino (anche rinnovato, anche rinvigorito) ed afferma la necessità di un’Assemblea Costituente dedicata al preminente compito di redigere una Carta Costituzionale vera e propria (con rigoroso limite di durata). Non solo qualche diritto, non solo il congegno organizzativo dello Stato, ma una Carta veramente nuova, espressiva di tutto un nuovo ordinamento politico e sociale. Pregiudiziale (e provvidenziale!) l’abbattimento dell’istituto monarchico e la fondazione di un regime repubblicano. “Guai se non l’avessimo fatto! Realmente avremmo costruito sulla sabbia la nuova Costituzione, perché l’avremmo costruita sopra una menzogna. Qualunque Costituzione avessimo fatto, se fosse stata la Costituzione di quella monarchia che fu responsabile della nostra rovina, sarebbe stata una mostruosità morale, qualche cosa che non avrebbe potuto resistere in nessuno modo, non dico alle critiche degli uomini, ma alla critica delle cose stesse”. Il democristiano Aldo Moro interviene in Assemblea plenaria il 13 marzo 1947 per illustrare gli articoli 1, 6 e 7 del Progetto. Nel testo definitivo della Costituzione, l’art.1 (che manterrà la stessa numerazione) reciterà: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro; la sovranità popolare appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. L’art. 6 diventerà il 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. L’art. 7 diventerà il numero 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Moro richiama il fervido lavoro della più ristretta Prima Sottocommissione “Diritti e doveri dei cittadini” che ha elaborato quegli articoli (e che – con i principi fondamentali – ha sostanzialmente elaborato tutta la prima parte dedicata ai rapporti civili, etico-sociali, economici e politici). Una commissione (un formidabile cenacolo: La Pira, Dossetti, Moro, Togliatti, Marchesi, Iotti, Basso, Lucifero!) dominata da un duplice sentimento: da un lato, la responsabilità che, con una Costituzione, “non facciamo soltanto dell’organizzazione dello Stato, non definiamo soltanto alcuni diritti che intendiamo sanzionare per la nostra sicurezza nell’avvenire; determiniamo appunto una formula di convivenza, una forma essenziale di solidarietà umana, la quale sia la premessa necessaria e sufficiente per la costruzione del nuovo Stato”; dall’altro, la necessità di trovare per tanto ambizioso progetto “un punto di contatto, un punto di confluenza”, senza il quale “veramente la nostra opera può dirsi fallita”. Moro non dimentica la “fatica di alcune iniziali incomprensioni”, quando “i termini da noi usati sembrava che nascondessero qualche interesse di parte”, “ma poi, quando amichevolmente, cordialmente si conversava, si capiva che la sostanza era eguale e che si poteva passare al di là delle parole per cogliere il fondo comune”. In realtà, una “sana, accettabile ideologia” veniva condensandosi nei tre articoli che Moro comincia ad illustrare: “questi tre pilastri sui quali mi pare che posi il nuovo Stato italiano”, “indicazione dei fini del nostro Stato, del volto storico che assume la Repubblica italiana”. Innanzitutto, “non avremmo ancora detto nulla, se ci limitassimo ad affermare che l’Italia è una Repubblica, o una Repubblica democratica”. Certo, i poteri di direzione della cosa pubblica appartengono a tutti i cittadini, i quali li esercitano in condizioni fondamentali di eguaglianza, realizzando così la migliore gestione possibile in senso conforme all’interesse collettivo (sovranità popolare). Ciò realizza, attraverso la forma parlamentare, il primo aspetto della Democrazia italiana. Ma è estremamente importante anche l’aggiunta voluta espressamente da Moro e da alcuni colleghi della prima Sottocommissione “per precisare in modo inequivocabile, dopo la dura esperienza fascista, che i poteri nello Stato si esercitano in modo conforme alla Costituzione e alle leggi” (sovranità della legge). Il potere dello Stato non è, quindi, “un potere o un prepotere di fatto”. Moro chiarisce poi il senso del richiamo al “lavoro” come fondamento della Repubblica: se per il cristiano esso “eccita una tradizionale sensibilità per la sorte della dignità umana e per la sorte delle classi meno abbienti e più sfortunate”, politicamente rileva “questo grande problema di immettere sempre più pienamente nell’organizzazione sociale, economica e politica del Paese quelle classi lavoratrici le quali, per un complesso di ragioni, furono più a lungo estromesse dalla vita dello Stato e dall’organizzazione economica e sociale”. Una “meta altissima per il nuovo Stato italiano”. Sul tema del lavoro rinvio alle numerose specificazioni del testo costituzionale (art. 35-40), ma ci tengo a segnalare l’importanza di ulteriori scavi sulle percezioni e sulle intenzioni dei Padri costituenti. In questo senso, è a mio avviso centrale – nella seduta della Prima Sottocommissione del 15 ottobre 1946 – la reazione di Moro alla proposta di Lucifero di introdurre, insieme al diritto di sciopero, anche il diritto di serrata: “Moro dichiara che voterà contro… inquantochè in uno Stato progressivo a base sociale è inammissibile il diritto dei produttori di negare il lavoro”. Ma “si tratta di realizzare in fatto, il più possibile, attraverso la legislazione sociale, l’eguale dignità di tutti gli uomini”. Anche la parte del Progetto che chiede alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’eguaglianza degli individui e impediscono il completo sviluppo della persona umana ha nell’articolato un “significato evidente, discreto, accettabile”. Moro passa quindi all’articolo concernente i principi “inviolabili e sacri” di autonomia e dignità della persona e dei diritti delle formazioni sociali ove si svolge la personalità umana.

Ricorda certe iniziali riserve intorno all’opportunità ed al senso del riconoscimento nella Costituzione di “cose” così “ideologiche” come l’autonomia della persona: questioni, infine, risolte per un’essenziale ragione di impostazione sistematica (i diritti della persona sono originari e non riflessi, indisponibili all’arbitraria determinazione della Stato e delle forme sociali) e per una spontanea convergenza di buon senso. In fondo, Togliatti, nella seduta della Prima Sottocommissione del 9 settembre 1946, aveva riconosciuto che, se “lo Stato è un fenomeno storico, storicamente determinato, e la dottrina che egli rappresenta sostiene che lo Stato, ad un certo momento, dovrebbe scomparire”, “sarebbe assurdo si pensasse dovesse scomparire la persona umana”! Ma Moro affonda anche sul più problematico riconoscimento nella Costituzione stessa di una società “la quale non è unica, non è monopolizzata dallo Stato, ma si svolge liberamente e variamente nelle forme più imprevedute, soprattutto in quelle fondamentali, che corrispondono più pienamente alle esigenze immancabili della personalità umana” (famiglia, Chiesa, scuola, sindacato…). Il politico barese ricorda le discussioni in Prima Sottocommissione sulla “famiglia” quale comunità naturale o formazione storica. “Ma alla fine noi siamo riusciti a farci capire… non pensiamo una cosa contro l’altra, ché non si tratta di cose diverse. Sta di fatto che la persona umana, la famiglia, le altre libere formazioni sociali, quando si siano svolte sia pure con il concorso della società, hanno una loro consistenza e non c’è politica di Stato veramente libero e democratico che possa prescindere da questo problema fondamentale”. Da questa sollecitazione, oggi, possiamo ripartire proprio per riflettere sulle formazioni sociali allora più “imprevedute”.

Domenico Cella
Presidente dell’Istituto Regionale di studi sociali e politici “A. De Gasperi” – Bologna

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

Rispondi