La strada delle energie

Il costo dell’energia determina buona parte del costo di tutto ciò che utilizziamo. Per produrre un oggetto, serve energia: pensiamo all’estrazione delle materie prime, al trasporto delle stesse, all’eventuale fusione, stampaggio, ecc., fino al trasporto dell’oggetto finito verso i negozi adibiti alla distribuzione. Se l’energia costasse cara, potremmo permetterci ben poco di ciò che oggi utilizziamo ed acquistiamo in abbondanza.

La “questione energia” è assurta alla ribalta mediatica ormai da diversi anni. Lungi dal costituire una moda, essa assume, anzi, una rilievo sempre maggiore ed è probabilmente destinata a diventare una priorità assoluta a livello mondiale. La ragione è presto detta: se oggi gli abitanti dei Paesi “avanzati” possono permettersi un tenore di vita molto migliore di quello possibile anche ai ricchi di qualche generazione fa, ciò avviene grazie al fatto che l’energia, oggi, costa davvero poco. Il costo dell’energia determina buona parte del costo di tutto ciò che utilizziamo. Per produrre un oggetto, serve energia: pensiamo all’estrazione delle materie prime, al trasporto delle stesse, all’eventuale fusione, stampaggio, ecc., fino al trasporto dell’oggetto finito verso i negozi adibiti alla distribuzione. Se l’energia costasse cara, potremmo permetterci ben poco di ciò che oggi utilizziamo ed acquistiamo in abbondanza. Dei circa 180.000 miliardi di kWh di energia che l’umanità usa in un anno, oltre l’80% deriva dalle cosiddette “fonti fossili” (petrolio, carbone, gas naturale).

Dalla rivoluzione industriale in poi, l’uomo si è focalizzato su modi sempre più efficienti di utilizzo di queste fonti energetiche primarie al fine di ottenere energia “utile” a costi sempre più bassi. Le fonti fossili sono costituite da sostanza biomassa che ha subito varie trasformazioni nel corso delle ere geologiche. L’energia è stata immagazzinata nei legami chimici che uniscono gli atomi di carbonio in lunghe catene. L’origine di queste catene è la fotosintesi clorofilliana: le piante catturano l’energia solare e la immagazzinano in questi legami chimici assumendo il carbonio dall’atmosfera (presente nella forma della famosa anidride carbonica). Quando bruciamo la legna, oppure la benzina che alimenta le nostre vetture, rompiamo queste catene di atomi di carbonio, liberando di nuovo l’energia ed il carbonio catturati originariamente dalla fotosintesi. Questo meccanismo di cattura della luce solare, seppur poco efficiente (meno dell’1% in media), perpetuato su scala mondiale per milioni di anni prima che l’uomo comparisse sulla Terra, ha permesso l’accumulo di enormi quantità di energia sotto forma di biomassa fossile. Oggi ce la ritroviamo a disposizione, concentrata e a basso costo, nel carbone, nel petrolio e nel gas naturale. Un litro di petrolio costa solo mezzo euro, quanto una bottiglia di comunissima acqua da bere.

Ma in un litro di petrolio sono concentrati ben 10kWh di energia (circa), una quantità corrispondente a quella che il corpo umano può sviluppare in almeno una settimana di duro lavoro! Bene. Allora perché indaffararsi per cercare di cambiare le cose, anziché mantenere lo status quo? Ci sono diversi motivi per farlo. Ne illustro due, a mio avviso prioritari. Cominciamo con l’inquinamento. Una centrale termoelettrica ordinaria da 1GW (“GW” significa giga-watt, un miliardo di watt. Quella di Montalto di Castro sviluppa una potenza di 3,6GW) immette ogni giorno nell’atmosfera circa 20.000 tonnellate di anidride carbonica, 300 tonnellate di ossidi di azoto e di zolfo, 5 tonnellate di ceneri disperse. Fa male alla salute? Non affronto questo problema, che magari può riguardare soprattutto chi abita in prossimità di queste centrali. Vorrei però dire qualcosa sulle possibili conseguenze sul clima. Dal confuso dibattito mediatico sul cambiamento climatico, che chissà perché si confonde con quello politico, si capisce almeno una cosa: è un dato di fatto che il clima sia sempre cambiato: nel medio evo, in Inghilterra, si coltivava la vite e, a ridosso dell’anno mille, Erik il Rosso arrivò in Groenlandia e la chiamò Grønland, “Terra Verde”. Qui prosperò di allevamento una colonia scandinava. Poi, nel Rinascimento, si entrò nella cosiddetta piccola era glaciale, fino ad arrivare al 1815, l’anno senza estate. L’evento fu causato anche dall’eruzione del Monte Tambora, nel Sud-Est Asiatico. Terribili carestie si abbatterono ovunque. Dalla metà dell’800 iniziò un continuo riscaldamento a livello planetario, via via intensificatosi fino ai giorni nostri. Oggi abbiamo raggiunto valori forse record da quando siamo usciti dall’ultima glaciazione.

Queste oscillazioni di temperatura che riguardano il periodo “storico” dell’uomo, limitate, cioè, a circa 10.000 anni, sono fluttuazioni comunque piccole, dell’ordine di mezzo grado rispetto al valore medio di circa 14,5 gradi, realmente molto stabile. In precedenza, però, il clima sulla Terra è stato assai più mutevole: alla fine del cosiddetto stadiale “Younger Dryas”, circa 11.500 anni fa, in Groenlandia la temperatura media aumentò di 10 gradi in soli dieci anni! Nel resto dell’Europa, probabilmente, la situazione non fu molto diversa. La cosa davvero strana è, semmai, la stabilità del clima nel periodo attuale (Holocene, gli ultimi 11.000 anni). Non è un caso se l’umanità ha cominciato a svilupparsi ed a civilizzarsi proprio nel momento in cui le condizioni climatiche si sono stabilizzate. Cosa ha causato i repentini cambiamenti climatici precedenti? Probabilmente, le cause sono state diverse a seconda dei periodi: la variazione della circolazione di una corrente marina, una momentanea ripresa di attività vulcanica, ecc. In ogni caso, si tratterebbe di cause di dimensioni apparentemente marginali rispetto alle forze in gioco nel complesso meccanismo climatico. Tutto ciò ci insegna che questo meccanismo è ben lungi dall’essere stabile: piccole perturbazioni hanno avviato eventi a catena forieri di cambiamenti radicali, sia in termini di valori delle temperature, sia per la dimensione planetaria. In tempi più moderni, dalla rivoluzione industriale in poi, stiamo verificando che la temperatura media sale molto rapidamente. Siamo arrivati ai valori più alti, tra quelli visti dalla Terra in questo periodo climatico stabile. Forse, li abbiamo anche superati. È probabile che buona parte di questo fenomeno recente sia dovuto all’attività solare, piuttosto intensa ultimamente. Però, conti alla mano, l’aumento della temperatura non si spiega con la sola attività solare.

Vi è un’altra “perturbazione” che agisce sul sistema climatico, entrata in gioco a partire dalla rivoluzione industriale: l’aumento della concentrazione di anidride carbonica. In circa cento anni, la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera è, infatti, quasi raddoppiata, passando da valori vicini a 200 parti per milione a valori vicini a 400 parti per milione. È piccola questa “perturbazione” del sistema climatico globale? Indipendentemente dalla difficoltà di maturare una valutazione precisa sul contributo della CO2 sull’effetto serra, è chiaro che il raddoppio del suo valore su scala planetaria non può essere considerato trascurabile, soprattutto in un sistema dinamico, quello del clima, che abbiamo visto, e i modelli matematici lo confermano, essere sensibile a piccole variazioni. Sorge così una domanda, la madre di tutte queste considerazioni: l’aumento della concentrazione di anidride carbonica è di origine antropica o “naturale”? Abbiamo detto prima quanta CO2 immette nell’atmosfera una centrale termoelettrica di potenza media. Sapendo quanto combustibile fossile bruciamo ogni anno, è abbastanza facile calcolare quanto ne abbiamo immesso nell’atmosfera dalla rivoluzione industriale in poi. Inserendo questo flusso nel complesso ciclo del carbonio, ci accorgiamo che, in realtà, dovremmo aspettarci un aumento ancora maggiore della concentrazione di questo gas. La parte mancante è andata disciolta negli oceani, che hanno assorbito più anidride carbonica di quanto ci aspettassimo. L’aumento dell’attività solare e l’aumento della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera stanno quindi forzando il clima verso una repentina crescita delle temperature medie. Se ciò possa innescare processi di cambiamento climatico estremi, e in che misura, è impossibile da valutare. Se però ciò avvenisse, non sarebbe così sorprendente.

Insomma, abbiamo imboccato una strada pericolosa? È lecito dubitarne, ma l’affermazione non costituisce certo un assurdo: il rischio è basso, ma il pericolo è molto alto. Anche non considerando le questioni ambientali, esiste un altro motivo, forse ancor più importante, che ci deve spingere a trovare alternative all’uso dei combustibili fossili: le riserve sono quasi esaurite e dobbiamo preoccuparcene ora. Quanto dureranno i giacimenti di petrolio? Le correnti di pensiero sono due: quella degli ottimisti e quella dei pessimisti. Tra i primi, vi è una task force scientifica dell’U.S. Geological Survey. Dopo aver condotto uno studio di cinque anni, questa unità ha concluso che il mondo ha riserve sufficienti per circa 80 anni ai ritmi di consumo attuali, anche se molte di queste riserve devono essere ancora scoperte. Più realisticamente, si ritiene che disporremo di petrolio a costi accettabili ancora per 50 anni. Il fatto è che stiamo rapidamente esaurendo una risorsa preziosa, non più riproducibile, fondamentale per la produzione di innumerevoli prodotti di uso comune, come la plastica. Insomma, 50-80 anni non sono un tempo lungo per una transizione verso un’era emancipata dall’uso del petrolio. Alle alternative dobbiamo lavorare da subito, sapendo che si tratta di un compito fondamentale. Che fare? Non vi è qui lo spazio per condurre un’analisi seria sulle strategie di intervento nel settore energetico. Mi limiterò ad alcune rapide considerazioni. È stato accertato che, mediamente, il cittadino europeo ritiene che il maggior dispendio energetico sia quello elettrico. In realtà, ciò impatta solo per il 10% (circa) del totale dei consumi. In Europa, il valore principale è costituito da riscaldamento domestico e trasporto (entrambi a quota 30%). Questi dati sono importanti perché ci dicono che in Italia abbiamo la possibilità di intervenire in modo efficace nella questione energetica: siamo i primi, fra i 20, per emissioni di CO2 e consumo energetico imputabile all’edilizia (17,5% del totale europeo). Ciò deriva dal fatto che siamo terz’ultimi nella qualità della coibentazione termica dei fabbricati. Insomma, le nostre case sono un colabrodo energetico.

È quindi auspicabile, se non indispensabile, un grande piano di intervento ed incentivazione per migliorare drasticamente questa situazione, causa di sprechi di una quantità di energia ben superiore a quella ipotizzabile da un piano ultradecennale di rilancio del nucleare. Vi è poi la strada delle fonti rinnovabili. Citerò solo il solare. Di energia solare diretta ne abbiamo a disposizione fin troppa: in un quadrato di deserto di 220 km di lato, arriva in un anno tanta energia quanta ne consumiamo in tutto il mondo nello stesso periodo. Gli incentivi per il fotovoltaico e le centrali solari a concentrazione hanno dimostrato che il costo dello sfruttamento diretto dell’energia solare è probabilmente destinato, in tempi brevi (nell’ordine di poche decine di anni) ad essere competitivo con quello delle fonti fossili. La grande sfida rimane però quella sull’accumulo. Oggi non esiste un sistema di accumulo economicamente e tecnicamente idoneo a far fronte al problema dell’intermittenza delle fonti rinnovabili. Una soluzione parziale può essere reperita nel ricorso a sistemi intelligenti di reti di diverse fonti rinnovabili che abbraccino larghe aree geografiche, in modo tale che le fluttuazioni locali siano compensate su scala globale. Il progetto Desertec (http://www.desertec.org) si muove proprio in questa direzione. Oltre all’accumulo di energia nelle grosse centrali, vi è anche la necessità di risolvere il problema dell’accumulo di energia per l’autotrazione. La competizione con i 10kWh/litro di densità energetica del gasolio è quasi impossibile da vincere, ma la strada più promettente nel medio periodo è quella dell’accumulo attraverso l’idrogeno. Questo elemento possiede una densità energetica in termini di peso ben maggiore rispetto a quella delle fonti fossili, ma, essendo un gas molto leggero, la densità volumetrica è molto più bassa: 0,0028 kWh/litro a pressione ambiente! L’unica strada percorribile è quindi quella di aumentarne centinaia di volte la pressione (300/500 atmosfere), oppure ricorrere agli idruri metallici, utilizzabili quale mezzo di stoccaggio dell’idrogeno. Lo stoccaggio in idruri solidi costituisce una soluzione praticabile per il settore automobilistico. A titolo di esempio, un serbatoio di idruro è circa tre volte più capiente e quattro volte più pesante di un serbatoio di benzina che eroghi la stessa energia. Altra possibile soluzione è lo sviluppo di batterie avanzate, come quelle agli ioni di litio, oppure le interessanti Zebra, le quali si basano sul comune sale da cucina. Le densità di energie in gioco sono però ancora lontane da quelle dei combustibili fossili.
E i costi permangono molto alti.

Marco Biancucci
Primo ricercatore Istituto di Scienze Marine ISMAR CNR

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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