La gente di Bengasi

La guerra civile in Libia – che fin dall’inizio ci è apparsa né breve né indolore – ci impone oggi di fare la nostra parte.

Ho esitato a lungo prima di scrivere questo commento sulle ragioni dell’impegno del Cesvi in Libia. Diversi motivi mi spingono a rimanere alla larga dal dibattito politico sulla guerra in corso:
1. Con la Risoluzione 1973, le Nazioni Unite mostrano di riprendere quel percorso che si stava faticosamente profilando dopo i genocidi del Ruanda e di Srebrenica – per determinare un quadro di diritto internazionale nel caso in cui la comunità mondiale si trovi costretta a fermare con le armi i massacri di civili. Dopo l’11 Settembre, per dieci anni, le Nazioni Unite sono state “anestetizzate” dallo “scontro delle civiltà” e dalle strategie seguite dall’Occidente con le “guerre giuste”, contro gli “Stati canaglia”. La guerra non è più ammissibile. Sono però necessarie operazioni di “polizia internazionale”, in certi casi, a certe condizioni e secondo certe regole. Invece che su queste, il dibattito viene ancora risucchiato dalla dicotomia fra il no alla guerra e le “guerre umanitarie” (un ossimoro!).
2. Proprio con le finalità umanitarie vengono nobilitati malcelati interessi politici ed economici. La bandiera umanitaria sventola ormai come foglia di fico di ogni ingerenza armata.
3. La gestione della crisi libica da parte dell’Italia e dell’Europa è stata pessima. Ad accrescere la confusione, i risvolti di politica interna e dai problemi dell’immigrazione.
4. Eccedere i limiti del mandato ONU verrà percepito dal mondo arabo come l’ennesima intrusione che mette a repentaglio il ruolo delle Nazioni Unite, indispensabile per affermare la pace. Anche il cosiddetto “double standard” (pesare in modo diverso le rivolte arabe a seconda degli interessi in gioco), metterà a rischio il ruolo delle Nazioni Unite. A complicare ulteriormente la situazione, vi sono anche i problemi etnici (i conflitti fra i clan
per non parlare di quello fra Sciiti e
Sunniti). 5. Infine, nel piccolo mondo dell’umanitario, vorrei sfuggire alla tentazione sempre viva in molti colleghi di comparire in campo politico, rompendo così la separatezza posta alla base della reciproca autonomia. In questo ginepraio, in una situazione in continua evoluzione, in un dibattito politico sempre più rissoso, il rischio è che il Cesvi venga percepito come un’organizzazione schierata, a scapito del valore prezioso dell’indipendenza. D’altra parte, la nostra missione interculturale, in questi dieci anni, ci ha tenuto ben lontani dalla teoria dello “scontro delle civiltà”. Abbiamo continuato a guardare al mondo islamico senza pregiudizi, con rispetto e curiosità. Proprio per questo, in diverse parti del mondo, siamo rispettati ed ascoltati per i nostri valori laici e per la nostra identità europea: dal Corno d’Africa all’Asia Centrale, compreso il Pakistan. Oggi, sono proprio le rivolte nei Paesi arabi a smentire le teorie sull’inevitabile deriva Al Qaedista dell’Islam. Ancor prima di questa esplosione, ci eravamo ripromessi di impegnarci maggiormente in favore delle comunità povere nostre dirimpettaie nel Mediterraneo. La guerra civile in Libia
– apparsa fin dall’inizio né breve, né indolore ci impone di fare la nostra parte. Per questo, il 3 marzo siamo entrati in Libia con 10 tonnellate di aiuti alimentari. Ci siamo installati in Cirenaica per fronteggiare la crisi alimentare già profilatasi e destinata ad aggravarsi con la prosecuzione del conflitto, le difficoltà di trasporto ed approvvigionamento alimentare, la sospensione del pagamento delle pensioni e dei sussidi, il funzionamento a singhiozzo di banche ed attività economiche. Il 10 marzo, insieme ai colleghi dell’Ong francese Acted, nostri partner nel network europeo Alliance 2015, abbiamo avviato una prima fase della distribuzione di cibo (pasta, riso e farina) e di beni non alimentari (coperte, kit igienici ecc.) a 140 famiglie di tre baraccopoli situate
alla periferia di Bengasi. Dal 15 al 24 marzo siamo stati costretti ad abbandonare la Libia per motivi di sicurezza. In quei giorni, il nostro staff ha operato a Sallum, sul confine egiziano. In questa località,
13.000 lavoratori di diverse nazionalità, in fuga dalla Libia, sono rimasti ammassati in una sorta di campo profughi prima di evadere le formalità di frontiera. Cesvi ha assistito le Ong locali nell’alleviare la tensione, soprattutto con la divulgazione delle diverse procedure amministrative da seguire a seconda della nazionalità. Gli aiuti agli sfollati dalle zone maggiormente colpite dalla guerra stanno proseguendo a Bengasi e da Bengasi per Misurata, attraverso un corridoio umanitario via mare. Per l’individuazione dei bisognosi e la distribuzione degli aiuti, a Bengasi, ci siamo avvalsi dei comitati islamici caritatevoli. Li abbiamo incontrato in loco. Si tratta di organizzazioni informali di giovani attivi nell’erogare servizi assistenziali. Una felice sorpresa che ci conforta nella nostra iniziativa. E’ forse questo l’aspetto che più merita la testimonianza dei nostri espatriati. Così ci scrive la nostra Micol Picasso da Bengasi:
«…le notizie dal fronte non sono incoraggianti: quel che succede a Ras Lanuf, Ajbeidia e Brega indica quanto sia vicino il conflitto. Qui a Bengasi è necessario individuare un magazzino per tenere il cibo e gli altri aiuti che faremo entrare in Libia. Dobbiamo stabilire contatti; censire le famiglie colpite; conoscere i loro problemi di oggi e di prima della guerra. Creiamo come sempre un primo gruppo di collaboratori locali. Tra loro, T., un ragazzo culturalmente preparato e sveglio. Parla perfettamente l’inglese. E’ figlio di un medico che tutti i giorni va sulla linea del fronte per documentare le ferite e le morti dei rivoltosi. Con T. comincio a conoscere meglio la città, avvicino i negozianti per capire se i prezzi sono aumentati durante la crisi, mi informo sugli sfollati. Quando stiamo concludendo il contratto per l’acquisto di coperte da distribuire, accade qualcosa che mostra più di tante parole lo spirito che anima le persone qui in Cirenaica: T. trae del denaro dalla tasca dei jeans e mi dice: “Ok, questo è pagato”. “Cosa?” Abituata alla passività di tanti altri luoghi d’Africa, resto interdetta. T. aveva già rifiutato il rimborso per il suo lavoro e non posso permettere che addirittura paghi di tasca sua i materiali da distribuire! Risponde che sono soldi che i suoi genitori e parenti hanno raccolto per partecipare al lavoro del Cesvi ed aiutare le persone in difficoltà di Bengasi. A stento, T. accetta di metterli da parte come riserva, ma continua a collaborare negli acquisti e nelle distribuzioni. La struttura scolastica viene utilizzata temporaneamente come magazzino per gestire gli aiuti che provengono da diverse parti del mondo, comprese le 10 tonnellate di cibo portate dal Cesvi dall’Egitto. Suona la campanella per il termine delle lezioni e, nel cortile, i ragazzi e gli adulti si scatenano al grido di
“Libia!” Le braccia si alzano in segno di vittoria e, quando capiscono da dove vengo, tutti gridano: “THANK YOU ITALIA!”.
I nostri volontari provengono dalle file della Mezza Luna Rossa Libica. Impressionante vedere così tante persone (anche non più giovani) con il fazzolettone al collo che si passa-no i sacchi e gli scatoloni in una catena umana continua per scaricare i camion che non smettono di arrivare sul posto. Sono derrate alimentari, non food items, medicine, materiale sanitari e tende. Insieme a loro ci sono i gruppi di carità tradizionali: famiglie ricche della città che da sempre si sono organizzate per raccogliere cibo da distribuire nelle baraccopoli. N. è una ragazza poco più giovane di me, che diventa per noi la chiave d’accesso nei quartieri più poveri della città. Ha le liste dei beneficiari scritte in arabo a mano su fogli volanti, ma mi basta vederla all’entrata della prima bidonville per capire che tutti la conoscono e che la aspettavano. Ha modi bruschi e mascolini, guida un suv bianco con aggressività e scarso rispetto dei limiti di velocità. Non ha il velo, mi dice di essere nel business delle costruzioni e ha un inglese terribile. Non è semplice spiegare ai Libici che Cesvi non è una Italian Company giunta in Libia per stabilire un nuovo tipo di business. C’è voluto tutto il mio impegno per illustrare a T. i principi di imparzialità dell’aiuto umanitario che guidano il nostro operato. Ma dopo tanti anni di lavoro sul terreno, per la prima volta noto che questi concetti sono del tutto sconosciuti ai miei interlocutori. La mia presenza viene confusa con un appoggio generale agli intenti della rivoluzione, il mio aiuto come un simbolo di nuova fratellanza tra i due popoli. Mi muovo con grande precauzione per non essere fraintesa, ma è essenziale per me capire il contesto e in che maniera posso lavora-re per rispondere efficacemente ai bisogni umanitari. Guardando negli occhi il Dr. K. gli chiedo di spiegarmi perché la gente ha deciso di combattere, cosa mancava a questa Bengasi così ordinata e ricca. Lui mi racconta un aneddoto che girava ai tempi in cui gli ispettori dell’ONU erano stati mandati in Libia “alla ricerca della bomba atomica”. Uno di essi dichiarò di non avere trovato weapons of mass distruction, ma di avere prove di una mass distruction. Gli chiedo di spiegarsi meglio. Mi parla della corruzione di Gheddafi, della contaminazione dell’economia fiorente del Paese, con i suoi affari e patrimoni personali e si lamenta dello scarso rispetto che internazionalmente il Paese ha con la concentrazione di tutti i poteri in una sola persona: “La gente non paga più le tasse perché non crede più in questo Stato… L’autostrada tra Bengasi e Tripoli è solo ad una corsia e sono anni che è in via di ristrutturazione”.
Sono in Africa, ma i miei anni di esperienza in Darfur non mi sono d’aiuto. E’ una guerra, ma non è un esercito di uomini senza speranza, mosso dalla fame e pronto a tutto. E’ una rivoluzione iniziata da gente colta, socialmente impegnata e responsabile, che ha viaggiato e ha potuto confrontare la propria condizione con quella degli Stati vicini, non solo arabi. Chiede di godere della propria ricchezza, di avere giustizia sociale, uno Stato che eserciti il potere in maniera equa e trasparente. Non so se si tratta di voglia di Democrazia. Di sicuro, non si tratta di Al Qaeda.»

Giangi Milesi
Presidente Cesvi

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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