Il cambiamento di un’epoca

Difficile prevedere quando l’onda delle proteste si arresterà definitivamente o come sarà composto il nuovo panorama politico arabo. Difficile comprendere quali strade percorreranno Egitto e Tunisia dopo le elezioni politiche. La sbandierata voglia di Democrazia cederà il passo a nuove forme di populismo, magari condite in “salsa islamista”, o i movimenti liberali riusciranno ad imporsi, pur stretti fra movimenti islamisti e le vecchie élite burocratico-militari?

La grande slavina politica che ha travolto il mondo arabo è iniziata con le proteste popolari avvenute in Algeria ed in Tunisia per il rincaro dei beni di prima necessità. Il prezzo di questi prodotti è fortemente sussidiato in molti Paesi arabi e tali proteste avvengono quasi ogni anno. Ma questa volta, a differenza del passato, si sono trasformate in qualcosa di più forte, che ha portato al collasso il lungo dominio di presidenti autocrati come Ben Ali o Hosni Mubarak, provocato una sanguinosa guerra civile in Libia e scosso la gran parte degli altri Paesi del Mediterraneo e del Golfo.

Una rivoluzione inaspettata?

L’onda di queste rivolte (o rivoluzioni, a seconda dei punti di vista) è giunta inaspettata. Lo si è ripetuto tante volte. Certamente, era imprevedibile il tracollo repentino di regimi pluri-decennali o l’effetto domino attraverso tutta la regione mediorientale. Ma in realtà, per quanto non fossero prevedibili le cause contingenti, quanto era ben noto – e sottolineato dalla maggior parte degli analisti più seri – era l’evidente sclerotizzazione del sistema politico arabo. In questi decenni, il modello politico statuale uscito dalla decolonizzazione aveva tradito tutte le aspettative popolari ed aveva anche dimostrato una crescente incapacità di auto-riforma, anche limitatamente ad un semplice ricambio generazionale, se non con la formula della “Repubblica dinastica”. Tutte le illusioni seguite alla fine del sistema coloniale si erano progressivamente spente nel grigiore di regimi illiberali a partito unico, corrotti, incapaci di rispondere alle crescenti richieste della propria popolazione. La loro sopravvivenza era sostenuta dai timori internazionali di cambiamenti repentini, dalla paura dell’islamismo radicale, dai numerosi conflitti. Tante crisi, paradossalmente, cementavano lo status quo, più di quanto potesse fare l’effettiva forza interna di questi governi.

Le differenze fra autocrazie e dittature

Sorpresa dalla concitata evoluzione delle rivolte e dai mutamenti politici avvenuti nel Medio Oriente, l’opinione pubblica internazionale fatica a distinguere i tratti che differenziano i diversi accadimenti, benché questi vadano necessariamente compresi. Si è abusato della definizione “voglia di Democrazia”, la quale costituisce una spiegazione semplice, ma rischia di diventare semplicistica. Vanno innanzitutto distinti i regimi autocratici (Tunisia ed Egitto) e le dittature sanguinose e dure (Libia e Siria). Nel primo caso, i Presidenti illiberali sono caduti con sorprendente rapidità per il rifiuto delle forze armate di reprimere nel sangue le sempre più estese proteste popolari. Privati del sostegno militare, i regimi sono implosi senza grandi violenze. Buona parte delle élite politiche e burocratiche sono però rimaste al loro posto. Sembrano, anzi, lavorare in accordo con i militari, i quali – a Tunisi ed al Cairo – non vogliono che la transizione diventi instabilità. Nel caso dei sistemi dittatoriali più duri, ove i gruppi al potere si giocano tutto, la reazione alle proteste è stata ben più forte. In Libia, le fragilità istituzionali della jamariyya (il potere diretto del popolo) si sono unite alle rivalità tribali ed agli eccessi del clan Gheddafi, provocando un’insurrezione che ha portato alla spaccatura del Paese ed all’intervento internazionale. Il rischio maggiore è che subentri uno stallo politico e militare, con la divisione del Paese in un territorio fedele al colonnello ed in uno in mano agli insorti. In ordine alla sicurezza europea, ed italiana in particolare, due Nazioni significano la mancanza di un interlocutore. Diverrebbe così impossibile controllare la regione ed arginare il flusso dei profughi provenienti da tutto il continente africano. In Siria, la durezza del regime ba’thista si sovrappone ad una peculiarità del Paese: una piccola minoranza, quella della comunità alawita, domina tramite il Ba’th le principali strutture di potere. Per gli Alawiti, un’apertura verso le riforme istituzionali significherebbe essere spazzati via dalla scena politica. Ma qui il regime sembra più solido e le proteste meno generalizzate, legate più alle rivalità tribali ed all’insofferenza dei Sunniti più dogmatici verso quella minoranza religiosa. La Siria costituisce, soprattutto, uno snodo cruciale delle tante crisi mediorientali. Oggi, nessuno, neppure Israele, guarda con favore ad un crollo repentino del suo regime. Difficile prevedere quando l’onda delle proteste si arresterà definitivamente o come sarà composto il nuovo panorama politico arabo. Difficile comprendere quali strade percorreranno Egitto e Tunisia dopo le elezioni politiche. La sbandierata voglia di Democrazia cederà il passo a nuove forme di populismo, magari condite in “salsa islamista”, o i movimenti liberali riusciranno ad imporsi, pur stretti fra movimenti islamisti e le vecchie élite burocratico-militari? Certamente, una sollevazione così generalizzata, capace di sfidare i violenti strumenti di repressione e coercizione, ha dimostrato che il tempo dell’acquiescenza dei popoli arabi è finita. E che, in tutto il Medio Oriente, il tempo delle riforme, non quelle solo cosmetiche, non appare più rinviabile.

Riccardo Redaelli
Professore Associato di Storia delle Civiltà e delle Culture Politiche.
Docente di Geopolitica e di Cultura e Civiltà del Medio Oriente Facoltà di Scienze Linguistiche e Letterature Straniere dell’Università Cattolica del
S. Cuore di Milano.

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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