Buddhismo e Cristianesimo

Per il Cristianesimo gli esseri umani dovrebbero amarsi nella misura in cui sanno di essere figli di un unico Dio che li ha amati sacrificandosi; per il Buddhismo gli esseri umani dovrebbero amarsi comprendendo di essere tutti connessi tra loro, come nodi di una rete infinita.

Tentare un confronto tra Buddhismo e Cristianesimo pone subito due problemi preliminari: quale Buddhismo? Quale Cristianesimo? Vi sono infatti state, sia per il Buddhismo, sia per il Cristianesimo, diverse fasi storiche e diverse forme dottrinali. Semplificando al massimo questa enorme varietà di eventi e di correnti, si potrebbe scegliere di porre a confronto il contenuto dei rispettivi ‘testi sacri’. Tuttavia, ancor prima di confrontare i contenuti specifici, va considerato che l’uso della nozione stessa di “testi sacri”, se risulta legittimo per il Cristianesimo, non lo è altrettanto per il Buddhismo. Ovvero, lo è, ma in un senso assai diverso: il Canone redatto in lingua pali – che raccoglie i discorsi fatti dal Buddha in 45 anni di predicazione – non è un vero e proprio testo ‘sacro’ per il semplice motivo che il Buddha non si considerò mai un dio. Le sue parole, quindi, non vennero mai considerate “parola di Dio”. Da questa constatazione deriva un altro elemento che differenzia fin dall’origine il Buddhismo dal Cristianesimo: non essendoci nel Buddhismo un testo sacro, non vi fu nemmeno la necessità di disporre di personale specializzato addetto alla sua interpretazione.

Il maestro (guru, shi, lama, a seconda delle diverse tradizioni) possiede certamente i requisiti per fornire un’interpretazione autorevole dei testi, ma tale interpretazione è affidata soprattutto alla verifica che ciascun praticante deve effettuare nella propria esperienza. I testi non rappresentano la fonte della verità, per cui non si pone nemmeno il problema della ricerca del loro vero significato: in altri termini, nel Buddhismo non rileva la questione dell’ortodossia. Tanto è vero che le diverse interpretazioni delle parole del Buddha nel corso della storia si sono accumulate, affiancate, sovrapposte, sono entrate in concorrenza, ma non si sono quasi mai date battaglia. È per questo motivo che nella storia del Buddhismo non si registrano casi clamorosi di eresia, né si annoverano persecuzioni o guerre di religione scatenate in base a divergenze dottrinali. È tuttavia a livello dei contenuti che si registrano le differenze più significative tra Buddhisno e Cristianesimo. In particolare, vanno considerate quelle che riguardano tre questioni fondamentali, nei confronti delle quali il Buddha espresse più volte la volontà di non pronunciarsi, né contro, né a favore: esiste o no un Assoluto; esiste o no la vita dopo la morte; l’universo è finito o infinito. È noto, invece, che il Cristianesimo, soprattutto per quanto riguarda le prime due, ebbe fin da subito opinioni ben precise, tanto da costituire veri e propri dogmi. Non solo: mentre per il Cristianesimo è fondamentale l’esperienza delle fede nel Dio unico e nel Cristo Suo figlio, per il Buddhismo è fondamentale l’esperienza come tale, la capacità di ciascun individuo di sperimentare i contenuti delle Quattro Nobili Verità (1 esistenza del dolore; 2 individuazione della causa della sofferenza; 3 fiducia nella possibilità di eliminare tale causa; 4 messa in pratica dei consigli per eliminarla). Questa differenza – e molte altre da queste derivanti – non sono di poco conto. Non impediscono, tuttavia, che si possano individuare ed intravvedere sullo sfondo un interesse comune ed alcuni punti di consonanza.

L’interesse comune per Buddhismo e Cristianesimo è costituito dal problema fondamentale della salvezza dalla sofferenza. Certo, nel Cristianesimo ci si salva grazie soprattutto all’aiuto di Dio, mentre nel Buddhismo ci si salva soprattutto in base alle capacità personali ed al sostengo della comunità dei praticanti (sangha). Ma è indubbio che, per entrambi, lo scopo primario, se non l’unico, è quello di salvare e di salvarsi dalla sofferenza. E forse c’è anche qualcosa in comune nel considerare l’origine della sofferenza: per il Cristianesimo essa va individuata nel peccato originale, per il Buddhismo nella sete (tanh?), nella passione ossessiva per le cose, i beni, le persone, le idee. Non è un caso se nell’iconografia di entrambe le tradizioni ritroviamo l’origine della sofferenza rappresentata dall’atto di cogliere un frutto da un albero, anche se nel Cristianesimo l’atto è dovuto alla trasgressione di un comandamento di Dio, mentre nel Buddhismo è dovuto ad una serie di condizioni (paticca) negative imputabili alla natura umana. Per quanto riguarda alcuni singoli punti di consonanza tra Cristianesimo e Buddhismo, va segnalata la rinuncia all’egocentrismo, dalla quale deriva l’attitudine cristiana all’amore (agape) e quella buddhista alla compassione (karun?). È vero che nel Cristianesimo tale rinuncia si fonda sul comandamento “Ama il prossimo tuo come Dio ama te stesso”, mentre nel Buddhismo si fonda sull’idea di non sé (anatt?), tuttavia molte conseguenze pratiche di questa tensione comune a superare l’egocentrismo sono simili: in fondo, è più importante sconfiggere l’egocentrismo che sapere in base a quali principi e procedure lo si sconfigge. All’idea buddhista di non sé va tuttavia riservata un’attenzione particolare, sia perché è poco nota, sia perché è affatto originale, non solo rispetto al Cristianesimo, ma anche rispetto ad ogni altra tradizione religiosa e filosofica, orientale ed occidentale. La sua formulazione più concisa si trova al verso 279 del Dhammapada, uno dei testi più antichi della tradizione buddhista. Si dice: “Tutte le realtà sono prive di sé” (sabbe dhamma anatt?). Ciò non significa che tutte le realtà siano inesistenti, ma che ogni realtà ha un’esistenza relazionale: nasce, vive e muore in relazione ad altre realtà. Si può illustrare questa condizione con un esempio geometrico: un punto può essere inteso in senso ‘atomistico’, quale entità isolata ed autonoma, ma può essere correttamente inteso anche come “luogo di intersezione di (almeno) due linee”. Il punto così inteso, evidentemente, esiste.

Ma esiste solo in quanto prodotto da una relazione. Questo schema descrittivo vale per ogni cosa come per ciascun essere vivente, il quale deve la propria esistenza ad “altro da sé”: innanzitutto a chi l’ha generato, poi alle condizioni biologiche, storiche, linguistiche e culturali che lo determinano nel corso della sua vita e nel momento della sua morte. Dal punto di vista etico, significa che, secondo il Buddha, “curando se stessi, si curano gli altri; e curando gli altri si cura se stessi”: se si vuole stare in salute, è necessario badare alla qualità dell’aria, dell’acqua e del cibo che ci fanno esistere; allo stesso modo, se si vuole convivere senza sofferenza, è necessario che ognuno badi alla qualità della vita degli altri, dai quali dipende. È evidente che qui, a differenza di quanto prevede il Cristianesimo, il condividere le gioie (mudit?) e le pene (karun?) altrui non ha come base e garanzia l’amore di Dio, ma ‘solo’ la capacità umana di comprendere questa interrelazione universale che connette ciascuno a tutti gli altri. Per il Cristianesimo gli esseri umani dovrebbero amarsi nella misura in cui sanno di essere tutti figli di un unico Dio che li ha amati sacrificandosi; per il Buddhismo gli esseri umani dovrebbero amarsi comprendendo di essere tutti connessi tra loro, come nodi di una rete infinita. Tuttavia, queste differenze divengono inessenziali nel momento in cui i diversi motivi riescono a tradursi in comportamenti pratici: che si cerchi di alleviare le sofferenze in nome di Dio, o in base all’idea di una relazione universale, ciò che conta sono i risultati, non le motivazioni che li hanno prodotti.

Giangiorgio Pasqualotto
Professore ordinario di Estetica di Storia della filosofia buddhista
Docente di Filosofi a delle culture presso il Master di Studi Interculturali Facoltà di Lettere e Filosofi a dell’Università di Padova

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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