Una prospettiva insolita

Carlson ha perdonato chi ha ammazzato la sorella. Lotta contro la condanna a morte. Da dodici anni gira il mondo per raccontare come è cambiata la sua vita.

Un omicidio non comporta solo l’uccisione di una persona, ma anche l’uccisione morale dei suoi cari. Ma la condanna a morte dell’assassino dà sollievo ai parenti delle vittime? Li libera dalla furia omicida che essi stessi covano e che rende amara, spesso invivibile, la loro esistenza? Secondo alcuni di questi, sembrerebbe di no. Riuniti, in America, in associazioni come Journey of Hope, Victim’s Family for Reconciliation, madri, padri, fratelli di vittime di omicidi, raccontano le loro storie terribili e testimoniano contro la pena di morte. Incontriamo uno di loro, Ron Carlson, durante una conferenza organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio, a Napoli, il 30 novembre, durante la giornata internazionale dedicata ai condannati a morte. Ron parla a una platea di giovani. La sua vicenda è tra le più toccanti. Nel 1983, la sua unica sorella, Deborah, viene uccisa a colpi d’ascia da due balordi entrati di notte nella casa dell’amico che la ospitava. “Non riuscivo a crederci. Volevo uccidere gli assassini con le mie stesse mani. Avevo tanto odio in corpo da sentirmi paralizzato”, racconta Ron.

La sua voce è lenta e rauca, come un disco rotto, ma Ron scandisce bene le parole. Quello che segue è agghiacciante: un anno dopo, anche il suo “padre naturale” viene assassinato, stavolta in una rapina. Ron insiste sulla tossicità dell’odio contro gli assassini. Odio che non permette riparazione, che offusca anche il ricordo delle vittime. Per sopravvivere, Ron fa uso di alcool, droghe, farmaci. Nel frattempo, gli assassini della sorella, Carla Faye Tucker e Danny Garret, vengono processati e condannati a morte. Appena diciottenne all’epoca dei fatti, alle spalle una vita di abbandono e abusi, Carla Faye Tucker comincia in prigione un processo di pentimento, tanto da apparire, ad un giornalista che la va ad intervistare per la seconda volta “un’altra persona”. In termini cristiani, Carla si converte. Contatta Ron Carlson. Lui accetta di incontrarla. Da questo incontro scaturisce un legame umano molto forte, che sovverte l’ordine sociale e che conduce Ron, gradualmente, a trasformare la sua rabbia in perdono. Ma cos’è questo perdono? “Mi sono sentito guarito dall’odio. Mi sono sentito sollevato. Potevo ricominciare a vivere”.

Come avviene? “È un processo lungo, difficile. Ma alla fine ho visto Carla come una persona. Siamo tutti nelle braccia di Dio. È l’amore di Dio che rende possibile il perdono”. Ron, divenuto anche lui credente, usa il linguaggio del Vangelo per spiegare il processo di avvicinamento alla carnefice di sua sorella. Il 3 febbraio 1998, Ron Carlson presenzia all’esecuzione di Carla. Non è seduto nei posti riservati ai parenti delle vittime, ma è accanto a Carla: un evento unico nella storia delle esecuzioni. Dopo l’iniezione letale, Ron dichiara: “Questo non è un giorno migliore per il Texas e per l’America”. Parole che suscitano commozione, ma anche ostilità. Durante la conferenza napoletana, un ragazzino racconta di avere avuto un parente ucciso: “Non perdonerei mai. Questo perdono mi farebbe sentire un traditore”. Ron tiene a precisare: “Io non sono per perdonare e lasciare libero un assassino. È giusto che la società punisca. Dico solo che la pena di morte non aiuta a chiudere i conti”. E tiene anche a precisare che ci sono assassini che non dovrebbero mettere il piede fuori dalla prigione, perché impenitenti, come l’assassino di suo padre. Tuttavia, dice Ron, esiste una “contabilità” superiore: “Se perdono te, verrò perdonato”, e aggiunge “Anch’io sono un peccatore, quindi ho bisogno di perdono”. Questo linguaggio, basato sulle Scritture, è asciutto. Non si flette nelle sfumature della psiche, non spiega i complicati percorsi interiori. Ma quello che arriva, è chiaro: il mio perdono nei tuoi confronti mi arreca pace. È di un processo di guarigione che si parla. L’insight, o conversione, di Ron Carlson è straordinario, ma non unico. Nelle testimonianze di Kristi Smith, Sam Reese Sheppard, Ranny Cushin e altri parenti di vittime che hanno cessato di volere la morte dell’assassino, ricorrono le stesse affermazioni di Ron Carlson: “Ho sentito le mie spalle liberarsi da un peso”, “Mi sono sentito più leggero”, “Ho ricominciato a vivere”. Ci troviamo, dunque, di fronte a fenomeni che non sono facilmente comprensibili in un’ottica semplicemente emotiva o politica. Bud Welch, padre di una ragazza uccisa nell’attentato di Oklahoma City nel 1994, nel sito di Journey of Hope, afferma: “Dicono che la pena di morte aiuti a chiudere i conti.

Ma chi mi riporta indietro la mia bambina? La pena di morte gira intorno alla vendetta e all’odio, le stesse cose che hanno portato alla morte Julie e altre 167 persone”. La “contabilità” di cui parla Ron Carlson risulta, dunque, avere un suo codice e una sua oscura, paradossale, procedura che travalica le regole automatiche dell’istinto primitivo e anche quelle sociali, che prevedono un bilancio costo/beneficio in termini economici. In un caso estremo come quello di Ron, poi, la relazione tra l’assassina pentita e un congiunto della vittima muove un processo di riparazione collettivo che si estende a raggiera sulle comunità di appartenenza. Al funerale di Carla Faye Tucker, Ron era presente. Un vecchietto gli si avvicinò e gli disse: “Sei l’unica persona a cui sento di essere legato”. Era il nonno di Carla, assassina di sua sorella Deborah. Ron lo racconta con voce ancora rotta dall’emozione.

*Rif. articolo: Manifestazione ‘Città per la Vita’, Napoli 30 novembre 2010.

Paola Mazzarelli
Insegnante presso l’Istituto Caracciolo di Napoli, esperta di educazione e di tematiche sociali

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