Processo di civilizzazione

Le pene sono apparati sociali e, contemporaneamente, un sistema di potere; esse sono un elemento carico di significati in un contesto simbolico-culturale. Tendono a riprodurre più ampie forme culturali? Se una società è violenta, tenderà a produrre arsenali sanzionatori a loro volta “violenti?”.

Insegno Criminologia all’Università di Milano-Bicocca. Necessariamente ho approfondito, nel corso della mia attività accademica, lo studio di saggi sulla pena di morte. Non ho mai svolto ricerche empiriche o considerazioni teoriche sulla questione anche perché – come è noto – in Italia la pena capitale non fa più parte, da tempo, del nostro arsenale sanzionatorio. Il mio contributo si concentrerà, allora, sulla rivisitazione di alcune riflessioni di uno dei più noti e stimati criminologi – David Garland – che hanno affrontato aspetti decisivi di questo tema. Ho tradotto e introdotto due suoi volumi. Quello a cui farò qui riferimento è Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale, pubblicato originariamente nel 1990 e in italiano nel 1999 (Il Saggiatore, Milano). Un primo punto da condividere è che, dalla prospettiva che si propone, la pena è intesa come un prodotto culturale che, in un determinato momento storico, codifica nelle sue pratiche segni/simboli della cultura. La penalità va intesa come un’area composta da “istituzioni”, “pratiche”, “relazioni”, “discorsi” e “rappresentazioni”, non riconducibile a unità e che non può essere ridotta ad una filosofia in atto o ad una morale materializzata. È piuttosto una rete complessa, in cui si intrecciano istituzioni (tribunali, carceri, ospedali psichiatrici giudiziari, riformatori giudiziari, ecc.) e varie forme di relazioni supportate da agenzie, ideologie, pratiche discorsive – tra le ultime vanno annoverate, ovviamente, anche quelle criminologiche, socio-psicologiche e psichiatrico-forensi -. Se si desidera comprendere la complessità delle funzioni e degli effetti della penalità, questa non va, quindi, concepita come una semplice risposta negativa alla criminalità. La natura, la forma ed il contenuto del campo delle pratiche penali non è determinato sotto ogni punto di vista dal “problema della delinquenza” e dalle risposte politiche, sociali e istituzionali che il fatto delittuoso invoca. Si può affermare, invece, in senso più generale, che la penalità definisce e racchiude la criminalità in quanto indica – attraverso la norma penale – i comportamenti che sono considerati reato, identifica – attraverso l’attività giurisdizionale – i comportamenti che rispondono a queste categorie, e produce una conoscenza sociale riguardo al significato ufficiale e alle caratteristiche della criminalità – intesa come fatto morale, medico o legale. Anche la pena di morte va “inquadrata” entro questa visione generale. Tornando alla questione pena/simboli culturali, abbiamo già compreso che le pene sono apparati sociali e, contemporaneamente, un sistema di potere; detto altrimenti, esse sono un elemento carico di significati in un contesto simbolico-culturale. Ma ciò equivale a dire, in modo lineare e semplicistico, che, in una determinata società, le pratiche penali tendono a riprodurre più ampie forme culturali e che, per esempio, se una società è violenta, tenderà a produrre arsenali sanzionatori a loro volta “violenti” (i. e. la pena di morte)? Questa lettura, per esempio, trova spazio negli scritti di Sutherland e Cressey – due eminenti studiosi nordamericani – intorno alla metà del secolo scorso. Il discorso è ovviamente più complesso. Il primo livello di complessità riguarda il fatto che particolari mentalità (ovvero i modi di pensare) e alcune concezioni culturali lasciano senz’altro un segno indelebile nella storia delle pratiche penali, entrano nella sfera penale, strutturandola.

La distinzione tra delinquenti “minorenni” e “adulti”, introdotta in alcuni Paesi sin dalla fine dell’800 (in Italia nel 1934), o la presenza, in alcuni sistemi, di forme di esecuzione capitale riservate alle sole donne (come il rogo, al quale sono destinate le condannate per stregoneria secoli addietro) sono esempi concreti dell’affermazione precedente. Se pensiamo, invece, all’umanizzazione delle pene, occorrerebbe riflettere, per esempio, su come “la religione”, a partire da Paesi come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, abbia influenzato, nel corso di tutta la modernità, i movimenti di riforma penitenziaria e abbia favorito l’introduzione, nei sistemi sanzionatori, di concezioni redentive. Ma c’è un secondo livello di complessità che si aggiunge al primo: introdurre e mantenere certe risposte sanzionatorie (in primis la pena di morte) non dipende solo da un fatto culturale, da mentalità e da forme di pensiero: “le culture”, infatti, si sostanziano (e differenziano) non solo per il tipo di conoscenze che trasmettono ai consociati, ma anche per come modellano strutture psichiche e tipologie di personalità. “Ogni singola cultura favorisce la nascita di determinate espressioni emotive, vietandone altre, e contribuendo in tal modo a creare una determinata struttura affettiva e forme particolari di sensibilità”, scrive Garland. In breve, i reati più odiosi (omicidi, violenze sessuali, pedofilia) suscitano risposte emotivamente profonde e una forte avversione in tutti i consociati. Per quali ragioni, allora, una serie di potenziali, possibili risposte ad atti profondamente indesiderati – quali torture, lapidazioni, flagellazioni pubbliche, linciaggi, che sono state in auge nel passato o lo sono ancora in Paesi che adottano sistemi giuridici radicalmente diversi dal nostro – oggi vengono quasi unanimemente giudicate disumane, inverosimili o, addirittura, barbare dalle sensibilità culturali degli esseri umani tardo-moderni? Spesso, le opinioni rispetto a queste misure sono viscerali, ed esprimono un giudizio che non è preceduto da un ragionamento morale – il quale, al contrario, è costruito razionalmente e a posteriori sulla base dei vissuti emotivi -. L’autore di riferimento per sciogliere questo nodo è, come noto, Norbert Elias (Il Processo di civilizzazione, 1939, ed. it. 1983, Il Mulino).

Egli analizza approfonditamente i mutamenti che, dal Medioevo ai suoi giorni, hanno riguardato la strutturazione affettiva ed emotiva (leggi: le sensibilità) degli individui occidentali e le loro modalità di interazione. Ogni significativa trasformazione culturale ha, secondo Elias, un suo corollario psichico – “il processo psichico della civilizzazione” – che incide sull’organizzazione della personalità delle persone e, in particolare, sullo sviluppo dei loro sentimenti sociali. Di tutto ciò, quello che a noi qui interessa è che ogni forma di violenza manifesta, messa in atto sia dai singoli individui, sia dalle istituzioni statuali moderne, viene, al pari delle emozioni spontanee di qualunque genere, progressivamente vietata in nome della legge o della prudenza sociale. Attraverso un processo di apprendimento sociale (che diviene, in parte, un meccanismo di condizionamento inconscio), gli uomini imparano, molto lentamente, ad autocontrollarsi, a gestire, contenere e sublimare le loro pulsioni istintuali e le loro emozioni. Civilizzarsi significa innanzitutto questo, ma anche altro. In particolare, significa dar vita ad un processo di privatizzazione, di messa “dietro le quinte” di alcuni aspetti della vita sociale quotidiana. Sesso, funzioni organiche, violenza, diventano, ad un certo punto della storia, motivi di disgusto e la loro vista perturbante, tanto da essere progressivamente relegati nelle sfere private – vale a dire la famiglia nucleare civile, il bagno, la cella della prigione -. Nella sua opera monumentale, Elias non analizza la questione della pena né, tantomeno, quella della pena di morte. Ma sono proprio queste sue premesse che aiutano a capire, probabilmente in modo decisivo, i drastici cambiamenti dei sistemi punitivi a partire dal XVI secolo.

Le esecuzioni corporali e capitali, a quell’epoca dei rituali che avvengono in uno spazio pubblico, iniziano gradualmente ad essere nascoste dietro le mura delle prigioni. È la violenza, compresa quella esercitata sui criminali, a divenire, con l’aumento delle sensibilità collettive nei confronti del dolore e della sofferenza, inaccettabile. È per questa ragione, dunque, che oggi non si ricorre più alle pene corporali? Se si segue la coerenza del percorso fin qui intrapreso, la risposta non può che essere positiva. Le sensibilità moderne – e di certo quelle dei gruppi sociali che hanno un peso nelle decisioni riguardanti le strategie politiche – sono modellate da molti decenni sulla repulsione per la violenza fisica e la sofferenza corporale (compresa quella inflitta nelle aule scolastiche). La sofferenza ammessa nei confronti dei detenuti condannati è solo quella nascosta, relegata “dietro le quinte” del carcere, e quella “limitata”, in ogni caso, alla sofferenza mentale e psicologica che deriva dalla carcerazione. Non importa se tali forme sanzionatorie siano, sotto altri profili, brutali quanto quelle corporali. Di più, atti anche molto inumani possono, in modo assai ambiguo, essere tollerati, purché siano esercitati nei confronti di quei rei che commettono delitti orribili, considerati diversi, e purché la violenza penale sia circoscritta, camuffata, nascosta alla vista del pubblico. È dentro questa “ambiguità” che ritroviamo, ai giorni nostri, modalità accettate ed accettabili per continuare ad ammettere l’effettivo ricorso alla pena capitale. Negli Stati Uniti, per esempio, continua una singolare e secolare ricerca – iniziata con ogni probabilità con la ghigliottina della Rivoluzione Francese – per trovare metodi di esecuzione tollerabili per le sensibilità contemporanee. Con ogni probabilità, l’esito ha raggiunto il suo apice con l’invenzione dell’“iniezione letale”, rappresentata in modo molto simile ad un trattamento medico, all’eutanasia, usata in molti Stati degli Usa. Di fronte a proposte, per fortuna, ancora isolate e provocatorie che anche nel nostro Paese si levano affinché ci si riaffidi – per reati odiosi – alla bonifica rappresentata dalla pena di morte, il nostro impegno democratico deve essere, al contrario, quello di ribadire come anche queste forme di rappresentazione dell’omicidio in nome della legge vadano smascherate e abolite.

Adolfo Ceretti
Professore straordinario di Criminologia presso la Facoltà di Giurisprudenza, Università di Milano-Bicocca
Segretario Generale Aggiunto della Società Internazionale di Prevenzione e Difesa Sociale

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