L’ultimo desiderio

Francesco Maria Giro

Lo Stato, togliendo la vita al colpevole, non solo non concede la possibilità al reo di redimersi, ma, di per sé, commette un omicidio di egual misura, cancellando secoli di discussione e di pensiero illuminato, riportandoci indietro al Codice di Hammurabi.

Il tema dell’abolizione della pena di morte è tornato, in questi giorni, prepotentemente alla ribalta, non solo per le cronache che leggiamo quotidianamente sui giornali, ma anche grazie al documentario “È tuo il mio ultimo respiro?” del regista Claudio Serughetti, recentemente presentato alla Festa del Cinema di Roma. Si tratta di una riflessione doverosa, che investe l’Italia in prima persona. Negli ultimi anni, la nostra Nazione si è molto adoperata presso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per sostenere una moratoria universale, una sospensione delle pene capitali. Non a caso, il nostro Paese è stato storicamente il primo ad emanare un nuovo codice penale, il 30 Novembre del 1786, presso il Granducato di Toscana, firmato dal Granduca Leopoldo, divenuto poi Leopoldo II del Sacro Romano Impero. Un sovrano illuminato, ispirato dal pamplet “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria, il quale, per primo, espresse il suo pensiero sulle evidenti contraddizioni della pena di morte. Usò queste parole: “Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio”. La pena capitale era presente in tutti gli ordinamenti antichi. A tale pensiero non sfuggiva la tragedia greca: nell’”Antigone” di Sofocle, la figlia di Edipo si trova sottoposta all’atroce dilemma se anteporre la res privata alla res publica, una formula cara ad Hegel che individua nello scontro tra il re e l’eroina l’insanabile opposizione di due ordini egualmente legittimi. Contravvenendo all’ordine del re Creonte di non dare sepoltura al traditore Polinice, lasciando il suo cadavere in pasto alle fiere, Antigone infrange per ben due volte il divieto, ma sa bene cosa il Fato le ha riservato. E se il sovrano di Tebe agisce così per salvare lo stato dalla rivolta e dall’anarchia, Antigone ritiene che le leggi non scritte degli dei e i vincoli del sangue debbano prevalere e venire salvaguardati ad ogni costo. La “provocatio ad populum”, che concedeva al condannato di fare appello ai comizi centuriati, era una speciale garanzia, istituita dal diritto romano e legata al nome di Publio Valerio Publicola.

Di fronte all’effettivo rischio di abusi nella comminazione delle pene capitali, il Popolo Sovrano, sostituito in epoca imperiale dall’Imperator, era chiamato a pronunciarsi sulla possibilità di concedere in extremis la grazia al condannato a morte. Anche il pensiero teologico, nei secoli, si è battuto sul tema della legittimità, ma la contraddizione tra l’Antico ed il Nuovo Testamento appare evidentissima: nel Libro dell’Esodo, “Colui che colpisce un uomo causandone la morte, sarà messo a morte”; nel Vangelo di Giovanni, la ferma condanna alla lapidazione della donna adultera richiama più volte al Perdono: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. La liceità, sulla base del concetto della conservazione del bene comune, era ancora espressa nel medio evo da San Tommaso D’Aquino. Da un lato, argomentava: “Come è lecito, anzi doveroso, estirpare un membro malato per salvare tutto il corpo, così, quando una persona è divenuta un pericolo per la comunità o è causa di corruzione degli altri, essa viene eliminata per garantire la salvezza della comunità”; dall’altro, sosteneva che la pena andasse inflitta solo al colpevole di gravissimi delitti, mentre all’epoca veniva utilizzata con facilità e grande discrezionalità. Personalmente, di fronte alle giustificazioni espresse dalla nostra storia occidentale, mi definisco un eretico e sono ben lieto nel distinguermi da valori così obsoleti.

Lo Stato, togliendo la vita al colpevole, non solo non concede la possibilità al reo di redimersi, ma, di per sé, commette un omicidio di egual misura, cancellando secoli di discussione e di pensiero illuminato, riportandoci indietro al Codice di Hammurabi. Continuare a discuterne non è mai una dimostrazione di conformismo politico e la sensibilizzazione operata dai media potrà esserci utile per affrancarci in questa decisiva battaglia. È di questi giorni la notizia della consegna al Presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di ben cinque milioni di firme. Il mio augurio è che l’abolizione della pena di morte possa essere presto estesa anche a quei cinquantotto Stati che continuano tuttora ad applicarla.

Francesco Maria Giro
Sottosegretario di Stato ai Beni e alle Attività Culturali

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