I progressi verso l’abolizione

Se permane la tendenza all’abolizione degli ultimi vent’anni, l’intera Africa sarà libera dalla pena di morte intorno al 2020. Il trend è analogo a quello riscontrabile a livello mondiale, ma sembra progredire ad un ritmo più rapido.

Quando Amnesty International, nel 1989, cominciò a registrare e ad analizzare i dati statistici sulla situazione globale della pena di morte, registrò che l’unico Paese africano ad averla formalmente abolita era l’ex colonia portoghese Capo Verde, con una legge approvata nel 1981. Due decenni dopo, la situazione è cambiata in misura significativa. A partire dal 1989, più di quindici Stati africani hanno abolito per legge la pena di morte e altri possono essere aggiunti all’elenco degli abolizionisti di fatto. Dopo Togo e Burundi nel 2009, il Gabon è l’ultimo Paese africano ad averla cancellata. La legge è stata promulgata dal Capo dello Stato il 15 febbraio 2010. Se nel 1989 si poteva dire che solo pochi Stati africani avevano abolito per legge la pena di morte, o avevano smesso di applicarla in modo abbastanza definitivo, vent’anni dopo, tra Paesi abolizionisti de jure e de facto, arriviamo a contarne 39. Per descrivere la situazione attuale, è più facile elencare la minoranza che la mantiene: Botswana, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Egitto, Guinea Equatoriale, Etiopia, Eritrea, Guinea, Libia, Nigeria, Sierra Leone, Somalia, Sudan, Uganda e Zimbabwe. Sono soltanto 15. Di questi Stati non abolizionisti, solo una manciata ricorre regolarmente alla pena capitale: nel 2009, nell’Africa Sub-Sahariana, soltanto due Paesi hanno messo a morte dei condannati, Botswana e Sudan, mentre, nel 2010, considerando l’intero continente, le esecuzioni sono avvenute in soli cinque Paesi: Botswana, Egitto, Libia, Somalia e Sudan.

Se permane la tendenza all’abolizione degli ultimi vent’anni, l’intera Africa sarà libera dalla pena capitale intorno al 2020. Il trend è analogo a quello riscontrabile a livello mondiale, ma sembra progredire ad un ritmo più rapido. Un momento saliente nell’abolizione è stata la sentenza emessa dalla Corte costituzionale sudafricana nel giugno del 1995. La Corte era stata istituita l’anno prima, dopo l’elezione di Nelson Mandela alla presidenza del Paese. Contava, fra i suoi membri, molti autorevoli esponenti della campagna per la fine dell’apartheid, i quali avevano utilizzato le proprie competenze giuridiche proprio per accelerare la fine del regime razzista. Il primo caso sottoposto alla Corte riguardava due internati nel braccio della morte. I difensori, appoggiati dalle organizzazioni della società civile, sostenevano che la pena capitale era contraria alla nuova Costituzione provvisoria sudafricana. Gli undici giudici furono unanimemente d’accordo. L’abolizione della pena di morte in Sudafrica, Paese caratterizzato da altissimi tassi di criminalità violenta, va interpretata come un gesto simbolico di rifiuto del passato, un segnale che la nuova Democrazia pluralista metteva da parte l’orribile passato del Paese. I membri della Corte sottolinearono che la pena di morte non faceva parte della giustizia tradizionale africana ed il suo largo uso in tempi recenti era legato al colonialismo. Ciò è del tutto plausibile. I regimi coloniali, e prima di loro i mercanti di schiavi, avevano bisogno di punizioni brutali per portare a termine i loro progetti disumani. In Africa, spesso, fra pena capitale e un passato di repressione vi è un legame stretto, come compare nella relazione della Commissione verità e riconciliazione della Sierra Leone, pubblicata nel 2004. La Commissione, i cui lavori si svolsero dal 2002 al 2004, esaminò le violazioni e gli abusi dei diritti umani commessi in Sierra Leone durante la guerra civile degli anni ‘90. Ma esaminò anche gli antefatti del conflitto. Fra le raccomandazioni rivolte al governo, la Commissione verità pose al primo posto l’abolizione della pena capitale. Nei risultati dell’indagine e nelle conclusioni generali, la Commissione affermò che i vari governi avevano abusato della pena di morte per sopprimere gli oppositori politici. Ritenne che la perdurante previsione della pena di morte nei codici della Sierra Leone fosse un oltraggio ad una società civile fondata sul rispetto della vita umana.

Un altro fatto recente, indicativo della tendenza in atto in Africa, è l’abolizione decisa dall’Assemblea nazionale ruandese. La legge è stata approvata nel luglio del 2007. All’epoca del genocidio del 1994, il Ruanda stava per entrare nella categoria degli Stati abolizionisti di fatto. La pena di morte non veniva più eseguita dai primi anni ‘80 e, nel 1992, il Presidente Habyarimana commutò sistematicamente tutte le condanne a morte pendenti. Con gli Accordi di pace di Arusha del 1993, che in Ruanda hanno valore costituzionale, il governo si impegnò a ratificare il Secondo protocollo opzionale. Rifiutò però l’idea che i principali responsabili del genocidio potessero sfuggire alla pena capitale. Si oppose, infatti, all’adozione dello Statuto del Tribunale penale internazionale per il Ruanda, da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nel novembre del 1994, a causa dell’esclusione della pena di morte dall’ambito delle pene irrogabili da tale organo. Il governo ruandese sostenne che sarebbe stato fondamentalmente ingiusto esporre i criminali processati dai suoi tribunali all’esecuzione quando quelli processati dal tribunale internazionale – verosimilmente gli architetti del genocidio – avrebbero rischiato soltanto l’ergastolo. Mentre il Tribunale penale internazionale per il Ruanda si limitò ad infliggere condanne all’ergastolo, le corti ruandesi condannarono molti imputati alla pena di morte. Il 24 aprile 1998, il Ruanda procedette all’esecuzione pubblica di ventidue génocidaires, sfidando gli appelli delle Nazioni Unite e sostenendo che “la natura pubblica delle esecuzioni programmate” avrebbe avuto un effetto brutalizzante su una popolazione già traumatizzata dal genocidio del 1994. Nel 2005, in relazione alla proposta che il Tribunale penale internazionale per il Ruanda trasferisse una parte del suo eccessivo carico di lavoro ai tribunali ruandesi, si riaccese il dibattito sull’abolizione della pena capitale. Questo trasferimento era consentito solo a condizione che il Ruanda informasse il Consiglio di sicurezza della sua disponibilità a rinunciare alla pena di morte. Si arrivò così al marzo del 2007, quando l’Assemblea nazionale ruandese approvò una legge che escludeva la pena di morte per tutti i casi trasferiti dal Tribunale penale internazionale ai tribunali nazionali.

Nel giro di alcune settimane, si cominciò a parlare di una riforma legislativa, il cui significato era quello di abolire completamente la pena di morte. Si giunse, infine, al luglio del 2007, quando l’Assemblea nazionale abolì la pena di morte per tutti i reati e in ogni circostanza. Altra vicenda significativa recente sulla pena di morte in Africa è la decisione assunta dalla Corte suprema dell’Uganda nel gennaio 2009, secondo la quale il ricorso alla pena di morte obbligatoria per omicidio, fondato sulle leggi ereditate dai Britannici, era contrario alla Costituzione. Pur confermando la costituzionalità della pena capitale, la Corte Suprema ugandese stabilì che le condanne capitali di prigionieri reclusi da più di tre anni nel braccio della morte dovevano essere commutate in ergastolo e, il 13 settembre 2010, almeno 167 prigionieri del braccio della morte hanno ricevuto la commutazione. Le decisioni delle corti ugandese e sudafricana, la relazione della Commissione verità e riconciliazione della Sierra Leone e le vicende legislative in Ruanda sono influenzate dall’evoluzione del diritto internazionale dei diritti umani. La lotta alla pena di morte è diventata un elemento importante nell’ambito delle relazioni internazionali. In una larga parte del mondo, questa lotta è associata alla ricerca di una vera giustizia, non vendicativa, ma sempre riabilitativa. Si aspira, inoltre, ad un più alto livello di civiltà e di difesa dei diritti umani di tutti, vittime e colpevoli dei crimini. La pena di morte viene sempre più avvertita come una violazione irrimediabile della sacralità della vita e della dignità umana. Impoverisce e non difende le società che la applicano: è quanto recita la storica Risoluzione approvata dalle Nazioni Unite nel 2007, che fissa l’abolizione della pena capitale come un nuovo standard del rispetto dei diritti umani nel mondo. Durante la sua ventiseiesima sessione ordinaria, tenutasi a Kigali, Ruanda, nel novembre 1999, la Commissione africana dei diritti dell’uomo e dei popoli approvò una Risoluzione di invito agli Stati a prendere in esame una moratoria della pena di morte. Una Risoluzione analoga è stata approvata recentemente dalla Commissione durante la quarantaquattresima sessione ordinaria, tenutasi ad Abuja, Nigeria, nel novembre 2008. È significativo come la decisione avvenga a pochi giorni dalla seconda approvazione della moratoria in Commissione ONU a New York. Anche se viviamo in un tempo di risorgenti particolarismi e chiusure, siamo pienamente immersi in una stagione in cui la consapevolezza dell’intreccio delle relazioni a livello planetario suscita motivazioni ed istanze di unità e cooperazione sempre più allargate. Il Presidente senegalese Léopold Sedar Sénghor – poeta e letterato, oltre che politico, inventore della negritude – ebbe l’intuizione, più di cinquant’anni fa, dell’Eurafrica, facendo riferimento ad una visione di complementarietà dei due continenti, a partire dalla cultura. Eurafrica è una visione – ha più volte sottolineato Andrea Riccardi – in cui collocare le diverse identità nazionali, europee ed africane. Una visione evocatrice di sentimenti di comunanza, che offre un quadro di dignitosa reciprocità all’interesse con cui gli Africani guardano all’Europa. Nello spirito di questa prospettiva, e per sviluppare nuove strategie e visioni comuni, da diversi anni la Comunità di Sant’Egidio organizza annualmente Conferenze di Ministri della Giustizia, giuristi, membri delle Corti Supreme di Paesi che hanno abolito la pena capitale e di Paesi mantenitori, con un’attenzione particolare al continente africano. Sostiene i percorsi legislativi, sociali, parlamentari e supporta le opinioni pubbliche fino alla riduzione o alla fine delle esecuzioni, di fatto o di legge, e all’abolizione (come nel recente caso del Gabon).

Gli Africani sentono un grande bisogno di promuovere i loro diritti umani, malgrado i problemi endemici legati alla povertà crescente, alla notevole instabilità politica accompagnata da un eccesso di violenza, al sottosviluppo ed alla guerra. Tuttavia, l’abolizione della pena di morte è sicuramente un traguardo alla portata dei governi e della società civile africani. Può sembrare una riforma modesta in mezzo alle enormi difficoltà del continente. Ma possiede un valore simbolico con il quale l’Africa riesce ad affermare la sua adesione ai valori universali. Questo motivo spiega, forse più di ogni altro, il recente successo dell’abolizione della pena capitale nell’intero continente.

Antonio Salvati
Membro del coordinamento “No alla pena di morte” della Comunità di Sant’Egidio

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