I crimini dei Governi

La pena di morte viene vista come una sorta di grande deterrente. Ma questa funzione fallisce miseramente. Da un punto di vista statistico, proprio nei regimi che l’adottano, il tasso di criminalità è pari, se non superiore, agli altri Paesi. Era questa una delle ragioni che aveva condotto, insieme a tante altre di stampo illuministico, un pensatore milanese, Cesare Beccaria, ad esprimere le sue idee nell’opera Dei delitti e delle pene. “Monsignore Gianfranco Ravasi”

LA CINA È LONTANA
La Cina è la nuova superpotenza emergente. Una popolazione pari a un quinto di quella mondiale un’economia in crescita travolgente, ritmi di sviluppo del 10%, mai conosciuti prima nella storia. Questa è la Cina, il colosso ogni giorno alla ribalta del commercio e della scena mondiale, che condizionerà la politica del nuovo millennio. Ma la Cina è anche un Paese pieno di contraddizioni. Formalmente, è ancora uno Stato comunista, ingabbiato in una rigidissima struttura burocratica e di potere. Ma è anche il Paese della corruzione, della violazione sistematica dei diritti umani, della strage di Piazza Tienanmen. E la Nazione dove la pena di morte colpisce come in nessun altro luogo: 1.200 esecuzioni “ufficiali”, 3-5.000 secondo Amnesty International e altre organizzazioni internazionali (il che corrisponde ad un impressionante 90% del totale mondiale). Addirittura 10.000 secondo Chen Zhonglin, il parlamentare cinese che per la prima volta ha rivelato questo orribile primato. Ma c’è di più. Sembra dimostrato che sono proprio le esecuzioni capitali cinesi una delle principali forme di alimentazione del traffico internazionale di organi espiantati. Abbiamo iniziato il nostro viaggio in questa realtà crudele della Cina di oggi da Hong Kong, la tradizionale porta d’ingresso all’impero del Drago. Tornato nel 1997 nel territorio cinese, Hong Kong mantiene ancora qualche aspetto del vecchio protettorato britannico, una sorta di oasi cosmopolita prima di entrare nel mistero delle istituzioni cinesi. Hong Kong è sempre stata anche una sorta di rifugio per chi non trova integrazione nel sistema ideologico cinese. Le minoranze religiose, Buddisti Tibetani, Cristiani, Uiguri Islamici, sono state fortemente perseguitate in passato perché non trovavano posto nel sistema marxista. Oggi, la repressione si è un pò attenuata. L’accanimento dello Stato resta invece pesante contro i seguaci di una setta di ispirazione buddista, Falun Gong. Solo qui riesce a sopravvivere. Le modalità di esecuzione della pena di morte in Cina sono particolarmente crudeli. Derivano direttamente dall’apparato militare. Si attuano con la fucilazione del condannato, bendato ed inginocchiato. Un colpo alla nuca. Particolare agghiacciante: il costo del proiettile viene addebitato alla famiglia. Esistono rarissime immagini, sfuggite al controllo dell’esercito che gestisce le esecuzioni. Il sistema verrà sostituito dall’iniezione letale. Nel dicembre del 2003, Amnesty International ha denunciato un fatto grave che ci riguarda da vicino: ha chiesto alla Fiat di intervenire presso la sua consociata cinese di Nanchino, produttrice di veicoli Iveco, perché questi non venissero utilizzati come camera della morte ambulante. Quindici veicoli Iveco sono stati infatti attrezzati appositamente per raggiungere le varie corti penali di giustizia ed eseguire la condanna a morte appena emessa la sentenza. Anche qui, pochissime immagini esistenti. Fanno inorridire. La motivazione ufficiale è che così si riducono i costi di mantenimento del condannato e per l’esecuzione stessa. Ma Amnesty International e altre agenzie denunciano che è proprio a bordo di questi veicoli speciali che vengono illegalmente espiantati gli organi dei condannati, destinati al traffico internazionale clandestino. In Cina si può essere condannati a morte per ben 68 reati diversi. La pena è prevista, al di là dell’omicidio, anche per stupro, ferimento grave, corruzione, spaccio di droga. Ma anche qui sta crescendo la coscienza dei diritti umani e un movimento di rifiuto della pena di morte. Un gruppo di penalisti si è spinto al punto di elaborare una proposta destinata al governo. L’altissimo numero delle esecuzioni dimostra da solo la scarsa efficacia della deterrenza. Al contrario, alimenta la corruzione di funzionari e magistrati, i quali, troppo spesso, applicano pesi e misure diversi a seconda delle varie classi sociali ed economiche dei condannati. C’è anche questo inquietante giro di interessi dietro l’impenetrabilità del sistema giudiziario cinese. Ufficialmente, la pena di morte vuole costituire per il governo cinese un freno alla criminalità. È per questo che ai momenti che precedono le esecuzioni viene data ampia pubblicità e che queste vengono concentrate in date particolari, come il capodanno cinese o il 26 giugno, la giornata nazionale della lotta contro la droga. Oppure a settembre, il mese del convegno del Partito e dell’Assemblea Nazionale del Popolo. Siano di esempio a tutti. Ma, nonostante lo sforzo dell’apparato centrale, la gente comune continua a diffidare, scandalizzata anche da evidenti discriminazioni e dai sospetti di corruzione. Allora, a chi continua a credere nell’efficacia della pena di morte, è forse il caso di ricordare un vecchio proverbio cinese: “Si ammazza la mosca per spaventare la tigre”.

UNA CASA PER I DANNATI DEL MALAWI
Non è facile entrare nel carcere di massima sicurezza di Zomba, Malawi. Il Paese è messo in ginocchio dall’AIDS: 70.000 morti all’anno su una popolazione di 11 milioni di abitanti, di cui 2 sieropositivi. Un triste primato, e il numero cresce sempre di più. Oggi, in Malawi, la vita si ferma a 37 anni. La Nazione è stremata dalle carestie e stanca di inseguire uno sviluppo che tarda a venire. La struttura del carcere di Zomba è ancora quella degli anni del potere coloniale inglese. Il sogno di liberazione e indipendenza, succeduto a quel periodo, è finito nella spirale della dittatura di Kamuzu Banda, 30 anni di terrore. Sovraffollamento, totale mancanza di un programma di rieducazione, la stessa povertà estrema del Paese: nelle carceri del Malawi vi è l’esperienza amara di uno Stato che si vendica contro chi ha avuto il torto di sbagliare. Un prigioniero è stato brutalmente ucciso dai secondini perché aveva ritardato a rientrare in cella. Un carcerato, condannato ai lavori forzati, sta scontando 8 anni di galera per aver sottratto 50 dollari alla cassa dell’ufficio delle tasse. Le guardie carcerarie rubano ai prigionieri tutto quanto possa essere rivenduto. Il braccio della morte non è altro che il girone dantesco più profondo dell’inferno del carcere di massima sicurezza di Zomba. Lo sconforto e la lotta per la sopravvivenza diventano l’ultimo messaggio che i prigionieri vogliono trasmetterci. Per la prima volta, tanti prigionieri non hanno avuto paura di mostrare le cicatrici delle percosse ricevute nelle stazioni di polizia e lamentare la razione da fame a cui sono costretti: un unico pasto al giorno, insipido e mal cotto, composto da polenta e fagioli. “Mi chiamo Andru. Mi hanno messo dentro per furto. Non mi hanno mai giudicato in modo giusto. Non avevo nemmeno un avvocato. Se sono stato picchiato? Guarda! Mi hanno sparato due volte, guarda qui. E mi hanno fatto mordere dai cani. La polizia mi ha rotto il braccio. La polizia si vendica, quando ti prende”. Storie che negli anni passati restavano chiuse dietro le mura delle prigioni, oggi vengono sbattute in faccia ad una società che, come ai tempi della dittatura, reagisce spesso con l’uso della violenza. Vera Chirwa e il marito sono stati tra le prime vittime del dittatore. Entrambi avvocati, il marito di Vera, Orton Chirwa, è morto nel braccio della morte. Lei è stata a lungo in carcere e oggi è incaricata dalle Nazioni Unite di visitare le prigioni africane e stilare un rapporto annuale. Racconta: “Mio marito è stato ucciso in prigione con un’iniezione letale. I prigionieri, soprattutto in Malawi, non sono trattati da esseri umani. Subiscono torture. Noi eravamo legati mani e piedi al pavimento. Dovevamo usare un secchio per i nostri bisogni. Lo stesso che poi usavamo per bere. Il cibo, poi, era terribile. Un’ulteriore punizione. È la cosa peggiore che abbia mai mangiato. Puzzava di marcio. Quando ci davano il pesce, sembrava facessero apposta a farlo marcire. Molta gente moriva per il cibo. Noi donne riuscivamo a cavarcela, in qualche modo. Ma per gli uomini era anche peggio”. I dannati del braccio della morte sono coperti di scabbia, i loro corpi sono ridotti a grandi piaghe, come quelle che si portano nell’anima. Sono 64. Avvolti nelle loro casacche bianche, si guardano attorno, smarriti, cercando invano di scoprire se la compassione riuscirà, ancora una volta, a fermare il pugno duro della legge che potrebbe improvvisamente chiudersi. “È vero, ho ucciso. Ma era successo che avevamo litigato. Non è stato voluto. Nessuno qui ha mai voluto sentire com’è andata. In prigione ho cambiato nome. Ora mi chiamo Paulus. Mi sono convertito. Sono Avventista del Settimo Giorno. Ora non ho più paura perché so che il Signore è con me, anche se vorranno uccidermi. In prigione ho trovato Dio. A casa ho lasciato mia moglie e 9 figli. Ho 48 anni. Sono in prigione da 4, solo quest’anno sono stato processato e giudicato”. “Occhio per occhio crea un mondo di ciechi” canta Lucius Banda, l’artista più popolare del Malawi. “Dov’è la differenza?” si intitola la canzone che Lucius ha portato in carcere contro la pena di morte. “Il criminale, è vero, ha ucciso. Ma se per vendetta anche noi lo impicchiamo alla forca, “Dov’è la differenza?” Con l’avvento della Democrazia ormai in atto, il Paese può tornare a sperare. La pena di morte in Malawi è prevista dal sistema giudiziario e avviene tramite impiccagione. Da oltre 10 anni, però, non viene eseguita, facendo entrare questo Paese nel novero degli abolizionisti. Bakili Muluzi è l’ex Capo di Stato del Malawi: “La Costituzione del Malawi prevede la pena di morte e io, come cittadino, devo rispettare la Costituzione. Ma quando sono diventato Presidente, mi sono detto che dovevo tener conto dei diritti umani. Togliere la vita ad un essere umano è una cosa molto seria. E io non voglio essere associato a queste morti. Penso che dare la morte sia un potere che spetti solo a Dio. Non firmerò mai una condanna a morte”. Il Presidente è musulmano, ma si dice toccato dall’incontro con Giovanni Paolo II. Da pochi giorni, Kereketéke è un uomo libero. Negli stanzoni della prigione di massima sicurezza di Zomba ha passato 40 anni, senza che più nessuno ricordi nemmeno il motivo che l’ha portato in cella. Dice: “Mi ricordo il motivo, è stato un furto banale. In prigione non c’era niente, neanche il cibo. Come ho fatto a resistere? Obbedendo ai secondini. In prigione, è quello che ti salva. Fare tutto quello che ti dicono. Adesso che sono fuori, non ho più niente. La moglie che avevo si è dimenticata di me e si è risposata. Devo inventarmi un futuro”. Bisogna riportare la legalità all’interno del sistema carcerario. La storia di Liviele ha fatto scalpore. È stato ad un passo dall’esecuzione capitale. È finito nel braccio della morte con l’accusa di essere tra i responsabili di un crimine orrendo: l’uccisione e la mutilazione di alcune donne. Pezzi del loro corpo venivano venduti in Sud Africa per farne pozioni per la stregoneria. Mentre Liviele era in carcere, gli orrendi crimini continuavano. “Al processo non ho potuto dire niente. Non mi hanno mai ascoltato. Mi accusavano di andare in Sud Africa, ma io non ci sono mai stato in vita mia. Non potevo far altro che mettermi nelle mani di Dio. La giustizia non esiste. Sono ricorso in appello. Lo stesso giorno dell’udienza si sono accorti che non c’era nessuna prova contro di me. Quello stesso giorno sono tornato in libertà. Il Giudice James Kalaìle: “Io credo che la pena di morte sia sbagliata anche perché ci sono stati casi di errore. Abbiamo pochi mezzi per far funzionare la giustizia. Il rischio di uccidere un innocente è troppo alto per il nostro sistema”. Da poco, il Malawi ha un nuovo Presidente, Bingu wa Mutharika: “Anch’io, come il mio predecessore, intendo non applicare la pena capitale, pur essendo essa prevista dalla Costituzione”. Ho ottenuto ancora una volta la difficile autorizzazione ad entrare nel carcere di massima sicurezza di Zomba. Mi avvio direttamente al braccio della morte, ma… sorpresa!: è tutto chiuso. Una catena ed un lucchetto confermano che dentro non c’è più nessuno. Lo Stato ha voluto risparmiare la vita dei detenuti, trasformando la condanna a morte in ergastolo. Fu vera gloria? Il dubbio è legittimo: alcuni Stati sono diventati abolizionisti di fatto (cioè che non eseguono più condanne a morte da almeno 10 anni) perché l’Europa invia gli aiuti umanitari subordinandoli al rispetto dei diritti umani…

RUSSIA, ESECUZIONI SOSPESE
Gli anni ‘90 hanno segnato la trasformazione del regime sovietico in una Democrazia di stampo occidentale. Un processo tuttora in corso e in parte contraddittorio. Una delle promesse mantenute all’Occidente dalla nuova Russia di Eltsin e Putin è la moratoria sulle esecuzioni capitali. Dal 1993, le condanne a morte, salvo una breve parentesi nel 1996, non vengono più eseguite. Ma si tratta di vera maturazione di sensibilità o è pura concessione opportunistica alla vicina Europa? Per scoprirlo, siamo entrati nel carcere di massima sicurezza di San Pietroburgo, dove 3.500 carcerati sono rinchiusi nella secolare fortezza che risale al tempo degli zar. La notte accentua il dramma umano nascosto dietro questo filo spinato e queste mura insuperabili. Le carceri russe sono tristemente note per le scandalose condizioni igienico-sanitarie dei detenuti. Quelli condannati a morte sono reclusi sottoterra, dove covano epidemie di tubercolosi e altri virus resistenti ad ogni antibiotico. All’interno del carcere ci guida un pope ortodosso, cappellano di San Pietroburgo. Lo seguiamo in un’ala del carcere dove sono detenuti i minorenni, ragazzi di 14, 15 anni, spesso già protagonisti di storie sanguinose. L’ingresso della Russia nel capitalismo ha innescato un vero terremoto sociale, con sperequazioni interne clamorose ed un’esplosione della criminalità in cerca di denaro facile. La risposta delle autorità è stata severa, ma la corruzione dilaga e in carcere finisce soprattutto la bassa manovalanza della mafia russa, la quale, al contrario, vanta appoggi ai massimi livelli politici. Il direttore del carcere ci mostra i documenti di Kostantin Anatolevic. Sugli schermi vengono tenuti sotto controllo i punti caldi della prigione. Gli chiedo di poter visitare le celle sotterranee, dove ci sono i condannati a morte. Dopo lunghe trattative, e l’intervento decisivo del cappellano, vengo accompagnato di sotto, nell’inferno segreto di questo Gulag nascosto agli occhi del mondo. È la prima volta che una telecamera documenta questa realtà da film dell’orrore. Quaggiù i detenuti vivono in condizioni disumane, vittime di malattie, violenze, soprusi di ogni genere, nell’umidità e nel freddo e privati dei più elementari diritti. Il mondo scientifico occidentale teme che proprio nelle prigioni russe possa esplodere un’incontrollabile e devastante “bomba biologica”. La condanna a morte è oggi ufficialmente sospesa dalla legge. Ma viene da chiedersi se sia meglio continuare a vivere in queste condizioni. Cosa ne pensa il direttore, qua dentro da più di trent’anni? “È vero, molti dicono di preferire la morte”. È da questo stesso carcere di San Pietroburgo che proveniva parte della manodopera gratuita impiegata nelle miniere d’oro e di carbone della lontana Siberia. Era l’epoca dei Gulag di Stalin, come quello tristemente noto di Kolima, dove quasi 3 milioni di persone morirono nei decenni del regime. Terribili le celle di isolamento all’interno del Gulag di Kolima e la vista delle scarpe di gomma che i detenuti si costruivano da soli per sopravvivere durante il freddissimo inverno russo. C’è una sconcertante continuità temporale che lega tra loro presente e passato. Evidentemente, la sensibilità nei confronti dei diritti dei condannati non è cambiata poi molto da allora. Mironovic, sopravvissuto ai Gulag: “La pena di morte non ha senso di esistere”. C’è un’altra ipocrisia dietro la lodata moratoria sulla pena di morte in vigore in Russia: numerose testimonianze rivelano che i criminali socialmente più pericolosi, specie se non allineati politicamente, vengono sommariamente giustiziati da speciali Squadroni della Morte.

DIETRO IL VELO DELL’IRAN
Nella triste classifica degli Stati che applicano la pena di morte, l’Iran occupa un poco invidiabile secondo posto assoluto, dopo la Cina. Le esecuzioni, comminate secondo le regole della sharia sciita, sono in media 200 all’anno. Secondo la legge islamica, possono essere puniti con la pena capitale anche i minorenni. Il limite è di 15 anni per i maschi e addirittura 9 per le femmine. Una trentina di minorenni sono attualmente in attesa di esecuzione. Nell’agosto scorso, ha destato sensazione il caso di due ragazzi, di 16 e 17 anni, condannati a morte per impiccagione con l’accusa di pratiche omosessuali. Oggi, il mondo intero sta alzando la voce per salvare dalla lapidazione Sakineh. Ma come può una Nazione confessionale consentire che gli uomini possano disporre della vita donata da Allah? Nel novembre del 2004, l’Iran ha sottoscritto una convenzione per la tutela dei minori e la difesa dei loro diritti, promettendo una moratoria sulle esecuzioni per reati commessi sotto i 18 anni. Come mai non l’ha poi rispettata? George Bush ha accusato apertamente l’Iran di essere uno degli “stati canaglia” che appoggiano il terrorismo internazionale. Ma anche in Europa cresce l’opinione che in Iran vengano sistematicamente calpestati i fondamentali diritti civili. Come si difendono le autorità religiose che guidano le scelte politiche di quel Paese? L’Iran degli Ayatollah e degli Imam viene spesso visto come una monolitica fortezza chiusa nelle sue certezze. Ma anche dietro quella cortina, apparentemente impenetrabile, si eleva il dissenso alle autorità e cresce la richiesta, soprattutto da parte dei giovani e delle donne, di una società più egalitaria. Le loro aspirazioni trovavano speranza in Khatami, l’ex Presidente, il quale, per un certo periodo, è riuscito ad arginare lo strapotere del clero islamico nella vita dell’Iran. L’elezione del nuovo presidente Mahmud Ahmadinejad, ha riportato un clima di paura e sconforto. Pochi hanno il coraggio di parlare e quelli che lo fanno sono pesantemente condizionati dall’onnipresenza della polizia segreta. In Iran, le condanne a morte avvengono per una decina di reati diversi. Omicidio, droga, apostasia. Il reato di adulterio prevede la lapidazione, che però da due anni non viene eseguita. Il condannato per altri reati viene invece impiccato in una pubblica piazza, con un macabro rito, eletto a monito per “scoraggiare”, questa la giustificazione ufficiale, il ripetersi del crimine. Quanto ciò sia discutibile, lo dimostrano le stesse statistiche relative ai reati. Straordinarie immagini, sfuggite al controllo della polizia politica e forniteci da esponenti dell’opposizione rifugiatisi all’estero, documentano, in tutta la sua agghiacciante crudeltà, come avviene un’esecuzione in Iran. Una gru solleva il condannato, il quale deve prima autodichiararsi colpevole. Il paradosso della severa legge iraniana consiste nel fatto che un condannato per omicidio può evitare la condanna a morte pagando un compenso in denaro ai parenti della vittima. Ciò significa che un assassino ricco può farla franca? La legge non è uguale per tutti? L’Iran è il secondo produttore al mondo di petrolio. Eppure è oggi in atto una vera escalation per la realizzazione di nuove centrali nucleari, una corsa nella quale giocano anche i contraddittori interessi di Francia, Germania e Russia. Il plutonio destinato alle centrali potrebbe però servire anche alla costruzione di quell’arma atomica dell’Islam sciita incubo dell’America. Ufficialmente, gli Ayatollah hanno sempre negato di essere interessati alla bomba atomica. Lo stesso ha ripetuto, il giorno del suo insediamento, il Presidente Ahmadinejad, ultraconservatore, ma anche primo laico da molto tempo alla guida del Paese. Ci avevano promesso di poter visitare la centrale nucleare di Isfahan, al centro delle polemiche sull’uso dell’uranio arricchito per eventuali scopi militari. Dopo 7 ore di viaggio, 600 chilometri e ore di attesa, tutto quanto ci hanno permesso di filmare è stato il cartello posto all’ingresso della centrale: “Chi spacca l’atomo trova il Sole”.

Giorgio Fornoni
Giornalista, scrittore, collaboratore della trasmissione Report

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