Etica televisiva e pensiero collettivo

Ogniqualvolta un crimine efferato viene commesso e i media imbandiscono intorno a quell’episodio di cronaca nera un’orgia di banalità, frasi fatte, processi sommari, interviste a presunti criminologi e sociologi, ricompare sullo sfondo l’evocazione taumaturgica della pena di morte.

Nei giorni in cui telegiornali, talk-show, trasmissioni di intrattenimento pomeridiano e serale si sono tutti dedicati a tempo pieno all’omicidio di Sarah Scazzi e a supposizioni delle più varie e contraddittorie intorno a quel delitto, ogni telespettatore ha potuto scorgere quel balcone della cittadina di Avetrana sul quale era stato esposto uno striscione su cui campeggiava in grande la scritta “pena di morte”. Ogniqualvolta un crimine efferato viene commesso e i media imbandiscono intorno a quell’episodio di cronaca nera un’orgia di banalità, frasi fatte, processi sommari, interviste a presunti criminologi e sociologi, ricompare sullo sfondo l’evocazione taumaturgica della pena di morte. Fa parte di questo gioco diseducativo anche la presa di distanza formale ed imbarazzata del conduttore televisivo, il quale, generalmente, afferma frasi del tipo: “No, la pena di morte no, ma l’ergastolo, almeno quello sicuramente”. Si fa così trasparire la necessità che, comunque, una pena dura vada comminata. Ogni tanto, in qualche programma televisivo, ci si diletta anche a render pubblici sondaggi su cosa pensino gli Italiani in merito alla pena di morte. E si fa in prossimità di un evento tragico. È facile, così, intuire la vittoria dei favorevoli sui contrari. Navigando nel web, si può constatare come in Italia, Paese totalmente abolizionista, per fortuna, secondo molti istituti di sondaggio, ben più del 50% della popolazione autoctona sarebbe favorevole alla reintroduzione della pena di morte nel codice penale. Si tratta di ricerche effettuate spesso sull’onda dell’emotività, ottenendo risposte di pancia e non di cervello, umorali e non riflessive.

Ben altri sarebbero i risultati qualora quelle stesse domande fossero effettuate con tecniche e metodologie di indagine più corrette, ad esempio non all’indomani di uno stupro o di un omicidio crudele, ma in periodi emotivamente freddi e neutri, offrendo, inoltre, spiegazioni ed informazioni corrette alle persone intervistate (fornendo dati statistici sulla deterrenza o sui rischi di ammazzare persone innocenti, nonché motivazioni teoriche di tipo etico e giuridico sull’illegittimità e sull’illegalità della pena capitale) ed utilizzando, ad esempio, il metodo del sondaggio deliberativo (per sapere di più, ci si può informare sulla proposta di deliberative polling di James Fishkin, http://cdd.stanford.edu/polls/docs/summary). Il tema dell’abolizione della pena di morte va tolto dalla sfera del decidibile dalla politica o dai media. Vivendo noi in una Democrazia costituzionale, esso rientra nella sfera dell’indecidibile, quell’ambito di valori e temi che devono essere sottratti alla maggioranza parlamentare di turno. Sullo sfondo, infatti, c’è sempre il rischio che, allo scopo di veicolare consenso, taluno riporti il tema della pena di morte dentro la discussione politica pubblica. Non è scontato aver spostato in via definitiva la questione dell’abolizione della pena di morte all’interno di quella che ho definito (usando le parole di Luigi Ferrajoli) la sfera dell’indecidibile. Dalla finestra, può infatti sempre rientrare ciò che abbiamo fatto uscire tutti insieme, e con merito, dalla porta principale. La finestra va chiusa ermeticamente grazie ad un grande sforzo collettivo di tutte le agenzie educative di massa, i partiti, i sindacati, le scuole, l’Università, le parrocchie e, soprattutto, i media.

Oggi, il pensiero collettivo si forma principalmente dentro la comunicazione televisiva di massa, molto più che dentro i luoghi tradizionali di formazione del pensiero. Alcune regole di pedagogia ed etica televisiva andrebbero pertanto rispettate. Ad esempio: non intervistare nell’immediatezza di un crimine un parente della vittima dello stesso; non montare servizi superficiali chiedendo alle persone per strada che sanzione comminerebbero loro al presunto o reale assassino; non dare voce o sguardo a chi lancia proclami di morte; non dedicare pomeriggi o serate intere a fatti di cronaca nera. Non so se regole di questo tipo se le debba auto-imporre ogni editore televisivo (pubblico o privato che sia) oppure se debbano essere decise da altri nel nome del più alto valore della protezione e promozione dei diritti umani. Sta di fatto che una nuova etica televisiva apporterebbe un grande contributo alla causa abolizionista, molto più di quanto possano ottenere fiaccolate occasionali, illuminazioni di monumenti, campagne contro la pena di morte in Iran. Chi mai potrebbe essere d’accordo, infatti, in Italia, sull’esecuzione della povera Sakineh? Quella è una battaglia facile, scontata, che ci vede tutti unanimemente indignati contro la follia di una legge penale maschilista, teocratica ed ingiusta. Più importante, molto più importante, è invece rendersi consapevoli e promotori di un’informazione più serena, meno diretta a sollecitare brutti sentimenti. Quei brutti sentimenti che poi si traducono in rigurgiti di richieste di pena di morte per l’assassino, lo stupratore, il criminale di turno. La vera battaglia contro la pena di morte, in un Paese come il nostro che ha costituzionalizzato l’opzione abolizionista, è una battaglia prioritariamente culturale ed educativa.

Patrizio Gonnella
Presidente dell’associazione Antigone

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