Proteggiamo le nuove generazioni

“Cerchiamo di persuadere, senza forzare. Alcune non vogliono aderire al test prima che i loro partner non siano a conoscenza della loro condizione…alcuni partners sono lontani, vivono, ad esempio, in Sudan. Così le donne decidono senza di loro perchè pensano soprattutto al futuro dei loro bambini”.

“Quando sono rimasta incinta e ho saputo di essere siero-positiva, ho pensato che l’unica soluzione fosse abortire. Poi sono andata in clinica, ho deciso di tenere il bambino e mi sono sentita forte di questa decisione. Gli ultimi due test per l’HIV che ho fatto al mio bambino sono risultati negativi. Questo è ciò per cui sto lottando ora. Vivo nella lunga attesa del giorno in cui, finalmente, tutto questo sarà confermato”. Cristina è la mamma della piccola Nancy, che ha tre mesi. Ha dato alla luce la bimba nell’Health Center di MSF in Madi Opei, Uganda del Nord. È un luogo remoto del Paese, con le montagne del vicino Sudan che incombono all’orizzonte. C’è quasi solamente energia solare e non c’è acqua corrente. Il Paese ha sofferto, negli ultimi vent’anni, di lunghi conflitti tra le forze governative e i ribelli del Lord’s Resistence Army. Cristina ha appreso della sua sieropositività prima di sapere di essere incinta. Era disperata, ma quando è arrivata alla clinica a Madi Opei, ha accettato di seguire il programma di prevenzione per la trasmissione da madre a figlio (PMTCT) ed è qui che ha partorito. Ora sta aspettando di sapere se sua figlia ha l’HIV.

Persuadere, non obbligare
In Uganda, le donne partoriscono in casa, con tutti i rischi che tale scelta comporta rispetto alla completa assenza di assistenza prenatale. È per questa ragione che sono stati compiuti enormi sforzi per convincere ed educare le donne a rivolgersi alle cliniche, sia nella fase prenatale, sia in quella relativa al parto, attraverso visite domiciliari di assistenti sanitari e trasmissioni radiofoniche informative. Il Madi Opei Health Centre ha registrato un aumento vertiginoso nel numero delle puerpere che si rivolgono al reparto prenatale. Alcune vengono addirittura dal lontano Sudan, circa venti chilometri di viaggio. Quando arrivano, vengono accolte e viene proposto loro di sottoporsi al test dell’HIV. Jaspar Adotto, infermiera responsabile dello sviluppo del programma di prevenzione per la trasmissione materno-infantile (PMTCT), spiega: “Cerchiamo di persuadere, senza forzare. Alcune non vogliono aderire al test prima che i loro partner non siano a conoscenza della loro condizione… alcuni partners sono lontani, vivono, ad esempio, in Sudan. Così, le donne decidono senza di loro, perché pensano soprattutto al futuro dei loro bambini”. Le donne, inoltre, si sottopongono al test CD4. Misura la forza del loro sistema immunitario, così da sapere se è necessario che vengano messe sotto trattamento con antiretrovirali per salvaguardare anche la loro salute. Il test non può essere eseguito in clinica. I prelievi vengono pertanto inviati all’ospedale locale di Kitgum. A volte ci vogliono due settimane prima di avere i risultati. Questo significa dover chiedere alle donne di tornare di nuovo per i controlli e per avere i risultati, e questa è una delle maggiori sfide del programma in una clinica che ha un bacino di utenza molto ampio, considerate le distanze che devono essere coperte. Se qualcuna non si presenta all’appuntamento, gli assistenti sanitari andranno a domicilio – nel caso in cui la donna abbia fornito il consenso per proseguire il trattamento – per capire cos’è accaduto e per incoraggiare la donna a tornare in clinica. Un’altra sfida importante è quella di far sì che le future mamme accedano alla clinica il prima possibile, per seguire un programma di cura prenatale, come spiega Edna Acayo, Dirigente Medico del Ministero della Salute: “Molte donne non vogliono venire durante i primi tre mesi. Se potessimo scoprire in tempi stretti se una donna dev’essere sottoposta a trattamento antiretrovirale, questo ci aiuterebbe almeno a ridurre il più possibile il rischio di trasmissione del virus ai loro bambini”.

Trattamento permanente per le madri
A tutt’oggi, la clinica sta attendendo l’approvazione ufficiale per poter attivare la terapia triplice – una combinazione di tre antiretrovirali per le donne incinte, indipendentemente dallo stato dei loro CD4 – raccomandata dalle nuove linee guida del 2009 del WHO. Peter Ocwik, Dirigente Supervisore della clinica per MSF, ha registrato enormi benefici: “Qui le persone pensano di dover mettere al mondo molti bambini. Questo significa che iniziano e sospendono il trattamento antiretrovirale in occasione di ogni gravidanza, aumentando così il rischio di sviluppare resistenza ai farmaci. Se si potesse proporre ad una futura mamma la somministrazione permanente della terapia triplice combinata, si potrebbe contribuire enormemente all’abbassamento della carica virale (viremia) ed alla significativa riduzione della trasmissione del virus nel caso di una successiva gravidanza. Cosa che, peraltro, sta già avvenendo in altre zone dell’Uganda”. Il parto in clinica è sempre atteso con grande gioia, ma è spesso anche accompagnato dall’incertezza sulla sieropositività del neonato. In mancanza di test pediatrici adeguati, non è possibile diagnosticare con certezza la presenza del virus dell’HIV prima del diciottesimo mese di vita del bambino, con il rischio che la diagnosi tardiva si traduca in un rischio di mortalità più elevato. I test eseguiti alla sesta settimana, a sei e diciotto mesi, sono test molecolari altamente sofisticati, che non possono essere fatti sul posto. Ciò significa che le mamme devono aspettare e tornare più volte per ottenere i risultati. Peter Ocwik sostiene che sia molto dura per le madri: “Dobbiamo inviare i prelievi a Gulu o nella capitale, Kampala. Ora, per esempio, non riceviamo i risultati da più di 3 mesi. Le madri tornano più volte per conoscere i risultati per i loro bambini, ma non trovano risposta. Abbiamo bisogno di risultati più veloci per i test”.

Non allattare è un grande dolore per le nuove madri Tutte le donne sanno che a sei mesi sarà chiesto loro di interrompere l’allattamento per limitare la possibilità di trasmissione attraverso il latte materno. È una decisione dura. Da un lato, esiste il problema di nutrire il bambino con altro cibo, quando il latte materno è gratuito. Dall’altro, la pressione sociale che impone di continuare ad allattare è molto forte – normalmente si allatta fino a due anni. Catherine Atim, consulente di MSF sull’aderenza del trattamento, ha lavorato presso la clinica per molti anni. Ci spiega: “Gli uomini, qui, credono che se una donna smette di allattare un bambino, lo sta di fatto abbandonando e sospettano abbia un altro uomo, un’altra relazione. E non è facile. Per questo è importante per un uomo accompagnare la propria compagna in clinica, così da poter discutere di queste cose e prendersi cura del bambino insieme”. Quindi, sebbene la necessità di proteggere il bambino sia molto sentita, alcuni trovano impossibile il fatto che si debba smettere di allattare. Molte donne, però, non vogliono ripetere un errore già commesso, afferma Christine Langwen, madre del piccolo Angel, di soli due mesi: “Ho un altro bambino che è positivo all’HIV ed ora sono pronta ad interrompere l’allattamento di questo secondo figlio. L’interruzione dell’allattamento a 6 mesi non ucciderà il mio bambino, ma l’HIV sì. Non lo devo più allattare, così da non avere un altro bambino sieropositivo nella mia famiglia”. Tutte le donne di cui diamo testimonianza in questo articolo hanno accesso alle cure prenatali e al parto protetto nella clinica di Madi Opei. Ma ci sono molte donne nel distretto di Kitgum che non hanno accesso a questi servizi, incluso il PMTCT. Tutto questo, unito alla mancanza di controllo dopo il parto, per entrambe le tipologie di pazienti, madri e neonati, determina una significativa percentuale di bambini esposta al rischio di contrarre l’HIV senza la possibilità di disporre di una diagnosi precoce e tempestiva. Senza accesso ai trattamenti, metà di questi bambini affetti da HIV non raggiungerà il secondo anno di vita.

Laura McCullagh
Campagna per l’Accesso ai Farmaci Essenziali di MSF – Medici Senza Frontiere

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