Paese di orfani

I cimiteri dell’Africa sono l’anagrafe più vera della tragedia che l’AIDS ha creato in questi Paesi, sbilanciando paurosamente intere popolazioni. In Malawi, i cimiteri stanno invadendo i villaggi. L’AIDS sta letteralmente decimando la popolazione del Paese e l’incidenza dei sieropositivi ha raggiunto il 30% della popolazione.

Da sempre l’Africa racconta. Da sempre tramanda la sua storia nei racconti degli anziani. Quando, all’orizzonte, la luna viene a rischiarare la notte, i bagliori delle fiamme fanno rivivere le avventure degli antenati. Le guerre, le migrazioni, la tratta degli schiavi, gli anni della dominazione coloniale, fino ad oggi. La storia attuale del Malawi, uno tra i Paesi più piccoli e poveri dell’Africa australe, è tutta nel lamento infinito dell’anziana che racconta la disperazione senza conforto di chi piange i propri figli. È la storia dei piccoli e degli ultimi. La sua nenia non è accompagnata dal tamburo che invita alla danza. Il suo racconto non è una favola o una storia del passato: piange il presente e i giorni a venire. Mponda, il capovillaggio di un’estesa zona all’interno della missione di Balaka, rende visita anche oggi ai suoi sudditi. Solo a lui è permesso rimuovere la sbarra che apre e chiude l’ingresso al cimitero. È un tabù sacro che nessuno può infrangere. L’accesso al mondo degli spiriti è uno dei poteri che la comunità gli riconosce. Anche oggi ritorna a fare la conta delle tombe. La terra smossa di recente, i fiori che lentamente appassiscono sui tumuli e la ciotola rotta a segnare che una vita si è improvvisamente arrestata sono la triste evidenza che il suo villaggio sta morendo. “In questi ultimi anni, la mia gente vengo a trovarla qui, al cimitero”.

Queste tombe ricoprono il mio villaggio. E io rischio di diventare il capovillaggio dei morti e degli spiriti. La mia gente non muore in battaglia, i miei guerrieri non sono portati via dai leoni che abbiamo imparato a combattere. È un nemico invisibile che ci sta distruggendo. Lo hanno portato dalla città. I lavoratori che sono rientrati dalle miniere del Sud Africa, i camionisti che vengono dalla costa dell’oceano… Il mio villaggio sta morendo. I giovani, gli adulti, ecco sono tutti qui…”. I cimiteri dell’Africa sono l’anagrafe più eloquente della tragedia che l’AIDS ha creato in questi Paesi, sbilanciando paurosamente intere popolazioni. In Malawi, i cimiteri stanno invadendo i villaggi. L’AIDS sta letteralmente decimando la popolazione del Paese e l’incidenza dei sieropositivi ha raggiunto il 30% della popolazione. Il Malawi perde ogni giorno un maestro. Ma anche professionisti, lavoratori, in particolare quelli dotati di qualifica professionale, che avevano lasciato il villaggio inseguendo i miraggi della città. Dopo dieci anni di lotta, diverse organizzazioni internazionali stanno abbandonando l’Africa. Considerano persa la battaglia. La tragica conclusione a cui pervengono tante NGO è che la situazione sia sfuggita di mano. La gente non è riuscita a cambiare stile di vita e non è stato ancora raggiunto un punto di ritorno nella diffusione del contagio. “In Malawi, oltre alle tombe, è andata creandosi una nuova realtà: gli orfani” racconta Joseph, orfano lui stesso fin da bambino e oggi studente al seminario di Filosofia di Balaka. Gli orfani sono come i ‘detriti lasciati indietro dal fiume che è tracimatò.

Dal 1985, quando si è manifestato il primo caso certificato di AIDS, il numero di orfani è andato crescendo, prima nelle città, poi nei villaggi. L’ex Presidente della Repubblica, il Dottor Bakili Muluzi, afferma che sono oltre 2 milioni gli orfani, i bambini e le bambine in età scolare privi di genitori. Non c’è nulla di più pauroso del vuoto che si crea nella vita di un ragazzo orfano: sradicamento culturale, mancanza di affetto e senso di appartenenza, scontro con una vita che è più matrigna che madre… In Malawi, un Paese con una popolazione di 11 milioni di abitanti, gli orfani fanno scoppiare anche la famiglia estesa. Non ci sono più nonni, zii, parenti, cugini a sufficienza per prendere in casa chi ha perso papà e mamma. “Oggi è cambiato tutto. L’orfano non è più questo o quel bambino. Questa è una generazione di orfani. Sono i nuovi orfani. Sono tanti”. Ruth non si sottrae alla telecamera, la quale vorrebbe scrutare i suoi pensieri. E il suo volto di dignitosa mamma africana ti ruba l’anima. Vorrebbe gridare la sua innocenza, ma le manca anche il fiato. La bocca è impastata dalla candidosi e la pelle tradisce i segni del sarcoma in stadio avanzato. Si aggrappa alla vita assieme alle sue bambine, pur sapendo che non le vedrà crescere. È la mamma di Ruth a raccontare: “Tre anni fa, il marito di Ruth, che lavorava in città, è tornato a casa solo per morire. Poi, anche per lei è cominciato questo calvario. Ogni mese l’accompagniamo all’ospedale. All’inizio sembrava si potesse riprendere.

Ora non ci aspettiamo più nulla. Non abbiamo il coraggio di dirlo. Ma lo sappiamo. Questa malattia non perdona. A fatica, Ruth lamenta che non ha più nulla. “Ci servono le coperte, ora che comincia l’inverno. Non abbiamo più cibo perché non siamo riusciti a coltivare nulla… non abbiamo nemmeno una manciata di farina…”. È tutto quanto riesce a dire. Le ultime parole di Ruth sono come un soffio. Il suo testamento sta tutto nel suo ultimo desiderio: “Le mie bambine… le mie bambine … le affido a voi…” La grande famiglia africana esplode e diventa impotente davanti al numero sempre crescente di orfani, all’intera generazione che non conoscerà mai, veramente, cosa significhi avere i genitori. Di fronte ad una tale tragedia, la comunità cristiana ha compiuto scelte significative per aiutare giovani ed adulti a prendere coscienza dell’AIDS e delle sue conseguenze. Ogni comunità ha scelto delle persone che si prendessero cura, in particolare, degli ammalati da visitare regolarmente. Padre Piergiorgio Gamba, missionario monfortano di Bergamo, è in Malawi da 30 anni. È tra gli iniziatori del “Chifundo Projects”, una serie di attività finalizzata ad offrire a questa povera gente la possibilità di guadagnare qualcosa per comperare cibo e medicine. Dal grasso animale, misto a soda caustica, si ricava ottimo sapone. Serve per garantire l’igiene e, se venduto al mercato, garantisce un guadagno. Dai campi di girasole provengono i semi gonfi di olio. Se macinati, permettono di preparare dei condimenti più saporiti. Dagli scarti riciclati della stamperia si ricavano fogli ancora riutilizzabili e buste in grande quantità.

Sotto la guida di un volontario, Demetrio, si è dato inizio ad una mini fattoria con polli da allevamento ed un orto che, anche nella stagione secca, permette di avere molta verdura fresca. Sono i volontari a lavorare giorno dopo giorno e a portare avanti le tante iniziative della carità, i chifundo projects, appunto, che permettono di prendersi cura di chi, nella comunità, non riesce più a farcela. Per fare fronte alla quasi totale mancanza di medicine, è stato raccolto ogni tipo di pianta medicinale, quelle che gli Africani conoscono da sempre. Uno stregone vero, assieme ad un team di erbalisti, prepara decotti, confeziona le dosi in sacchetti di plastica, riceve i pazienti e somministra le dosi. Questa medicina alternativa sta facendo riguadagnare fiducia nei metodi tradizionali. Oltre a poter disporre di polveri e decotti, la gente viene invitata a piantare erbe medicinali nel proprio orto, che diventa così una vera farmacia casalinga. Rimane la grande emergenza. Il dramma degli orfani che, senza famiglia, rischiano di finire ai margini della vita. Non era mai capitato di vedere i bambini chiedere l’elemosina nelle città del Malawi. Oggi, con il papà e la mamma uccisi dall’aids e senza parenti ad accoglierli in casa, sono tanti i bambini di strada. E, nella loro povertà, sono vulnerabilissimi. Edina (la sorellina più grande) “Prima è morto papà. Poi è stata la volta della mamma. Piangeva tutte le sere a pensare a noi figli che restavamo. Quando si è sentita morire ci ha affidati a Lusiano, il nostro fratello più grande. Nessuno avrebbe potuto prenderci tutti, siamo tre bambine e due bambini”.

Lusiano: “Avevo quattordici anni quando i nostri genitori ci hanno lasciato. Tornando dal cimitero, ci siamo resi conto che mai più nessuno ci avrebbe atteso a casa, nessuno ci avrebbe preparato da mangiare. Non so nemmeno io dove abbiamo trovato la forza di continuare. Da allora, tutte le mattine ci alziamo. Edina va al pozzo a prendere l’acqua e fa il bagno alle sorelline. Io preparo qualcosa da mangiare… Ricordo ancora che la prima mattina non sapevo nemmeno come accendere il fuoco o dove fosse la pentola… Poi, mentre le bambine sono a scuola, vado a lavorare i campi. Soprattutto all’inizio mi sentivo perso, ma non potevo certo farmi vedere a piangere”. Da più di 10 anni, ormai, le missioni si sono fatte promotrici di progetti di adozione a distanza. Padre Gamba sostiene che l’adozione a distanza costituisce l’ultima spiaggia. Garanti che l’adozione raggiunga il bambino nella sua totalità, sono i volontari del progetto “Distant Adoption”. Sono presenti quando, mensilmente, viene consegnata la retta offerta dalla famiglia di adozione e si assicurano che i pacchi mandati arrivino intatti fino alla capanna descritta nell’indirizzo del destinatario.

Così per tutto quanto viene offerto all’orfano, come la coperta ed il sapone. Maurizio: “Le organizzazioni internazionali possono fare poco, occupate come sono a costruirsi uffici. Lo Stato fatica addirittura a fare un censimento di quanti orfani ci siano nel Paese, anche perché non esiste ancora l’anagrafe… I grandi Paesi hanno ben altre guerre da fare. Ci è rimasto solo l’aiuto tra noi, famiglie del mondo capaci di guardare oltre il nostro recinto, capaci di aggiungere un posto alla tavola del mondo. A noi, poi, fa paura questa generazione di orfani. Che ne sarà di un bambino che non si è mai sentito amato?”. per gli orfani di Balaka, anche una partita a pallone è un momento speciale. Adottare un bambino a distanza è l’appello di Padre Gamba. Significa aggiungere letteralmente un posto alla propria tavola, comperare un paio di scarpe in più, una tuta e un dolce da condividere. Lentamente, si costruisce un vero rapporto di appartenenza, che va oltre una scheda con un nome ed un cognome. Per la famiglia che apre la sua casa al nuovo arrivato, e per il bambino accolto, l’adozione a distanza non è un progetto anonimo. È una porta che si spalanca ed un figlio che entra in casa. È capitato alla mamma Vittoria, che è venuta in Malawi a trovare Samuel; ad Antonietta e Gaetano, i quali, oltre a venire in Africa come volontari, hanno Vincent che li aspetta sempre. “Le lacrime degli orfani cadono a terra, perché non c’è nessuno ad asciugarle”, ricorda un antico proverbio africano. In questo presente doloroso, in questo racconto che non è una favola o un ricordo del passato, l’adozione a distanza può contribuire a far sì che due milioni di orfani non diventino i ragazzi di strada di questo nuovo villaggio, senza più capanne e senza più famiglie.

La scuola di Mpiri è solo un esempio del lungo cammino dell’Istruzione in Malawi. Un’istruzione alla deriva. Come alla deriva sta andando tutto il Paese. Non proprio su questi banchi, che non ci sono mai stati, ma proprio qui ha studiato anche l’ex Presidente della Repubblica del Malawi, il Dottor Bakili Muluzi. Oggi, il grande flagello del Malawi ha un nome preciso, racchiuso in 4 lettere: AIDS. Nella povertà generalizzata, l’AIDS si è abbattuto sull’Africa come un uragano, con conseguenze tragiche. I Paesi africani a sud del Sahara contano il 10% della popolazione mondiale. Ma qui vivono anche i due terzi di tutti i sieropositivi al mondo, pari a venticinque milioni di persone. Come già accennato, la qualità dell’educazione è irrimediabilmente compromessa anche dal venir meno di tantissimi maestri. Nelle campagne dove l’educazione è spesso legata alla presenza di un solo maestro, con la sua malattia o morte si ammala e si seppellisce anche la scuola. L’attuale Presidente della Repubblica del Malawi, il Dottor Bingu wa Mutharika, afferma: “Il Paese di cui sono Presidente, su una popolazione di 11 milioni di abitanti, ha quasi 2 milioni di persone sieropositive e il numero cresce sempre di più. In Malawi, oggi, la vita si ferma a 37 anni”.

Grace e Junior sono fratello e sorella. I genitori sono stati portati via dall’AIDS. Prima il papà, che lavorava alla stamperia della missione. Poi, dopo dieci anni di lunghe malattie, anche la mamma. La casetta frutto di mille risparmi è diventata troppo grande per i figli rimasti soli. Grace: “Junior è nato sieropositivo undici anni fa. I primi anni sono trascorsi bene. Fino a che c’era la mamma, anche se era ammalata, era tutto diverso. Ora passa da una crisi all’altra, con un’immunità sempre più compromessa. Per giornate intere versa in stato in coma. Si è sempre miracolosamente risvegliato, ma è sempre più debole”. Junior: “Frequento la quarta elementare. La testa mi fa così male che a scuola non vedo più i numeri sulla lavagna. Da quando non c’è più la mamma, non mi piace più tornare a casa e resto per strada con i miei compagni. A casa vengo solo a nascondermi quando non ne posso più dal male. Mia sorella Grace mi prepara da mangiare alla sera, ma non riesco più a mandar giù la polenta che cuoce. Cosa voglio dire ai miei compagni che non hanno i genitori? Che devono essere forti. Che devono continuare a studiare anche quando a casa non li aspetta più nessuno”. In Africa, tre milioni di persone contraggono ogni anno la malattia. Sempre ogni anno, due milioni e duecentomila persone muoiono.

Le donne sono le persone più a rischio, così come è alto il numero dei bambini nati sieropositivi. La cura preventiva della trasmissione dell’AIDS dalla mamma al neonato, basata sull’uso della Nevapirina, fatica ad essere accettata in Malawi. La mamma è obbligata ad allattare il figlio e un comportamento diverso sarebbe considerato una devianza. La povertà, poi, rende impossibile disporre di latte in polvere, in sostituzione del latte materno. Ma ecco l’esempio di tre generazioni che si aggrappano alla vita. Sono due donne ed un ragazzo. Ed una manciata di pastiglie. La nonna: “Avevo un marito che mi ha abbandonata per andare a vivere in città. A casa veniva solo 2 o 3 volte l’anno. Sapevo frequentava altre donne, in città.

A casa è tornato solo quando i segni dell’AIDS erano visibilissimi. Lui continuava a dire che era stata una stregoneria a farlo ammalare. È ritornato qui solo per morire. La tradizione mi imponeva di andare in sposa al fratello di mio marito, il quale aveva già una moglie. Da noi, in Africa, il comportamento più a rischio per una donna è quello di sposarsi. Perché non sai mai cosa ti porterà a casa il marito e non puoi difenderti. Mi sono fatta coraggio. All’ospedale ho fatto il test e sono risultata sieropositiva. Sono stata da tanti stregoni, ma ormai non faccio che deperire giorno dopo giorno”. La madre: “Ero all’ultimo anno delle scuole superiori. Avevo un ragazzo che mi voleva bene e mi è nato questo bambino. Ero felicissima. Quando ho cominciato ad ammalarmi con una frequenza inspiegabile ho deciso di fare il test. Anch’io, come mia mamma, sono risultata sieropositiva. Senza nessuna ragione, mi hanno licenziata. Non so più cosa fare. La mia tragedia è che anche mio figlio è sieropositivo. Sono riuscita ad iscriverlo nella lista di chi riceve la medicina ARV. Basta solo per lui. Lui cresce bene. Mezza pastiglia alla mattina e mezza alla sera. Da quando ha cominciato a riceverle sta davvero bene. Il nostro problema è il cibo. Senza la possibilità di mangiare a sufficienza, anche la pastiglia non basta. Quanto vorrei poter avere anch’io quella mezza pastiglia. Anch’io sono ancora una ragazza”. Il ragazzo: “Non capisco perché c’è tanta attenzione attorno a quella bottiglietta di pastiglie. Mi dicono che mi fanno bene. E lo sussurrano come se mi invidiassero”. La nonna: “Ci è rimasto solo lui. È per lui che ci aggrappiamo alla vita. Lui è tutta la mia famiglia”.

Giorgio Fornoni
Giornalista, scrittore, collaboratore della trasmissione Report

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