Ammalati e discriminati

Non si tratta solo della scarsa disponibilità di formulazioni pediatriche dei farmaci antiretrovirali, ma anche dello stigma e della discriminazione verso le persone affette da Hiv, che rendono difficoltosa una corretta gestione della terapia, quando disponibile, o scoraggiano l’esecuzione del test, ancora troppo poco diffuso in età pediatrica.

L’Aids è una drammatica patologia per milioni di individui in tutto il pianeta, ma è ancora più violenta quando colpisce i bambini. Il decorso dell’infezione nei soggetti in età infantile è particolarmente rapido. Si stima che in più della metà dei casi la sopravvivenza non arrivi a due anni, in assenza di una terapia appropriata. D’altra parte, la gestione clinica dei soggetti appartenenti alla fascia di età compresa tra poche settimane e 18 anni non è facile: molti sono i problemi che emergono, sia nella fase di diagnosi, sia in quella di individuazione e somministrazione della terapia. Generalmente, la diagnosi avviene poco dopo il parto. La maggior parte dei bambini, infatti, contrae l’infezione dalla propria madre durante la permanenza nell’utero o nel momento stesso del parto.

Nei Paesi ad alto reddito, queste modalità di trasmissione sono state drasticamente contenute negli ultimi anni. Le strategie per la prevenzione della trasmissione materno-fetale si basano sulla somministrazione della terapia antiretrovirale alla madre durante la gravidanza e sul ricorso al parto cesareo. Esiste anche una terza, importante, via di trasmissione dell’Hiv dalla mamma al bambino: l’allattamento al seno. Ancora una volta, nei Paesi industrializzati, l’utilizzo del latte artificiale ha ridotto drasticamente il rischio di trasmissione attraverso il latte materno. Nei Paesi poveri, invece, il problema è molto più ampio: l’allattamento materno fornisce al neonato anticorpi ed altri fattori protettivi dei quali non può fare a meno. A tutt’oggi, sembra che l’approccio più corretto, in queste condizioni, si basi sulla somministrazione della terapia antiretrovirale alle madri per tutta la durata dell’allattamento. Per poter mettere in campo una strategia preventiva è comunque necessario diagnosticare per tempo lo stato sierologico della madre. Purtroppo, può accadere anche nel nostro Paese, soprattutto fra le donne straniere, che la diagnosi venga effettata solo in sala parto.

Naturalmente, ciò limita le possibilità di intervento per ridurre il rischio di trasmissione. La situazione è ancora più grave nei Paesi a risorse limitate, dove è molto più complessa l’individuazione delle madri sieropositive e la messa in atto di misure efficaci a scopo preventivo (terapia antiretrovirale alle madri, parto cesareo, allattamento artificiale, ecc). Ne consegue un numero molto più alto di neonati sieropositivi rispetto ai Paesi industrializzati, nei quali la nascita di un bambino Hiv+ è diventato, oggi, un evento molto raro. C’è poi un altro aspetto del problema: il test sul neonato di madre sieropositiva va effettuato al più presto dopo la nascita. Si tratta di un approccio indispensabile per evitare di iniziare la terapia in una fase avanzata della malattia, quando potrebbe non risultare più efficace. Nei Paesi ad alto reddito sono generalmente disponibili test per la diagnosi precoce, come la PCR, che consentono di individuare l’infezione anche dopo poche settimane dalla nascita. Ma nelle zone povere del pianeta, dove nascono molti più bambini con l’infezione, sono disponibili solo i test in grado di rilevare gli anticorpi, come il comune test ELISA. Questi test diventano attendibili tardivamente, a volte anche a 18 mesi dal parto, quando il bambino ha maturato tutto il tempo per sviluppare la sua risposta anticorpale contro il virus e può essere quindi diagnosticato. L’alternativa è quella di inviare un campione di sangue opportunamente conservato presso il più vicino laboratorio che disponga di tecniche per la diagnosi precoce. Ma anche questa si rivela una procedura che, in alcuni Paesi, può richiedere diverse settimane e risultare difficoltosa per problemi di conservazione e trasporto del sangue.

Una volta diagnosticata l’infezione, occorre intervenire con la terapia antiretrovirale: come accade per gli adulti, anche per i bambini la comunità scientifica si è interrogata a lungo su quale fosse il momento migliore per iniziare il trattamento. Se, da un lato, i farmaci sono in grado di rallentare drasticamente l’evolversi dell’infezione, dall’altro sorgono preoccupazioni relative agli effetti avversi a lungo termine provocati da una terapia che, presumibilmente, dovrà essere praticata per tutta la vita. Da tenere presente, inoltre, che se il trattamento antiretrovirale non è efficace al 100% è possibile la comparsa di ceppi virali resistenti ai farmaci. Negli adulti, il criterio di riferimento per l’inizio della terapia è legato allo stato del sistema immunitario, in particolare alla concentrazione nel sangue dei linfociti CD4, componenti del sistema immunitario che costituiscono il principale bersaglio del virus. In molti Paesi si consiglia di iniziare il trattamento quando la loro concentrazione scende sotto la soglia di 500 cellule per millilitro, anche se, fino a poco tempo fa, il valore limite era 350. In ogni caso, quando il valore è compreso tra 350 e 500 CD4 per millilitro, tutte le Linee Guida suggeriscono di iniziare il trattamento. Riferirsi al numero di cellule CD4 per stabilire lo stato di salute del sistema immunitario di un bambino non è però un approccio altrettanto semplice, dal momento che esso varia fortemente, soprattutto nei primi 5 anni di età. Per questo motivo, si preferisce fare riferimento alla percentuale di CD4 all’interno dell’intera popolazione linfocitaria, individuando la soglia del 20-25% per i bambini fino a 18 mesi di età.

Negli ultimi anni, però, la disponibilità di farmaci più efficaci ha ridotto drasticamente la possibilità di sviluppare ceppi resistenti. La loro minore tossicità ha inoltre reso i benefici di una terapia precoce probabilmente prevalenti rispetto ai rischi di effetti indesiderati a lungo termine. Per questo, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, così come molte linee guida nazionali ed internazionali, comprese quelle italiane pubblicate nel luglio del 2010, raccomandano di iniziare la terapia nei bambini sieropositivi di età inferiore ai due anni indipendentemente dal loro stato clinico o immunologico. Questo approccio è basato prevalentemente sui risultati dello studio CHER, condotto in Sud Africa, nel quale sono stati confrontati bambini che iniziavano la terapia immediatamente dopo la diagnosi e bambini che la iniziavano solo quando la percentuale dei CD4 era scesa al di sotto un certo livello o in presenza di sintomi clinici. Lo studio ha evidenziato che il rischio di morte per i bambini che iniziavano immediatamente il trattamento era inferiore del 76% rispetto all’altro gruppo. Un altro problema di non facile soluzione è la scelta della terapia iniziale, la quale deve, in ogni caso, comprendere tre farmaci per evitare che il virus sviluppi ceppi resistenti. I dubbi si riferiscono soprattutto al dosaggio ed alle formulazioni.

I farmaci, infatti, vengono sviluppati attraverso sperimentazioni che coinvolgono pazienti adulti e, per ovvi motivi etici, oltre che pratici, è estremamente raro riuscire a studiare i dosaggi efficaci in soggetti di età infantile. Così, spesso, si fa riferimento alla convinzione che i bambini siano dei “piccoli adulti”, impiegando dosi di medicinale proporzionali al peso. Nella maggior parte dei casi, si dividono semplicemente le pillole destinate agli adulti. Ma l’organismo di un bambino è molto differente da quello di un adulto, è in continuo cambiamento ed è in continua crescita. Sono pochi gli studi di farmacocinetica infantile, gli studi che valutano le reazioni dell’organismo infantile a dosi diverse di farmaco. La maggioranza delle informazioni disponibili riguardano solo soggetti di età compresa tra i 6 e i 18 anni, mentre mancano informazioni sulla fascia neonatale, quella più sensibile. Altro aspetto delicato è quello relativo alle formulazioni: chiedere ad un bambino molto piccolo di inghiottire una pillola può costituire impresa molto difficile, e anche rischiosa. Per questo motivo, si punta a formulazioni più comode, come sciroppi, sospensioni o creme. Come se non bastasse, la maggior parte dei farmaci anti-Hiv ha un sapore molto sgradevole, soprattutto in formulazione di sciroppo. Anche per questo Anlaids, come altre associazioni di lotta all’Aids, ha sempre sostenuto tutte le iniziative di ricerca svolte da istituzioni o aziende farmaceutiche e mirate ad individuare dosaggi e modalità di somministrazione adatte all’età pediatrica. Si tratta di una strategia indispensabile per raggiungere risultati a lungo termine che possano confermare e migliorare quelli raggiunti finora nella riduzione della mortalità e nel miglioramento delle condizioni di salute dei bambini che convivono con l’Hiv. Secondo uno studio brasiliano, i tre quarti dei bambini in terapia erano vivi dopo 4 anni. Secondo un altro studio, condotto su 586 bambini in 14 Paesi africani ed asiatici, invece, l’82% era vivo dopo due anni di terapia.

Ma non sono gli studi scientifici a fornirci la prova più solida dell’efficacia della terapia nei bambini: le dimostrazioni più toccanti provengono da chi, dopo aver conosciuto bimbi in fin di vita a causa dell’infezione da Hiv, li ha visti irrobustirsi e migliorare il proprio stato di salute dopo poche settimane di trattamento. Sono momenti di così profonda commozione da premiare i tanti sforzi che numerose organizzazioni non governative, inclusa Anlaids, compiono in aree difficili del mondo per aiutare i piccoli figli (spesso orfani, purtroppo) di madri che vivono con l’Hiv. Nonostante le istituzioni internazionali lavorino incessantemente contro le barriere economiche, infrastrutturali e culturali che limitano la diffusione del test e del trattamento anti Hiv, centinaia di migliaia di bambini muoiono ogni anno. Non si tratta solo della scarsa disponibilità di formulazioni pediatriche dei farmaci antiretrovirali, ma anche dello stigma e della discriminazione verso le persone affette da Hiv, che rendono difficoltosa una corretta gestione della terapia, quando disponibile, o scoraggiano l’esecuzione del test, ancora troppo poco diffuso in età pediatrica. Basti pensare che, nel 2009, solamente il 6% dei bambini nati da madre sieropositiva sono stati testati per l’Hiv entro i primi due mesi di vita. Qualche passo avanti, invece, si è registrato negli ultimi anni per quanto riguarda la diffusione dei farmaci nelle zone più povere del pianeta: nel dicembre 2006 si è ottenuta una riduzione di oltre il 45% del prezzo delle formulazioni pediatriche di alcuni farmaci antiretrovirali. Ciò ha permesso di rendere disponibili 19 molecole diverse per i bambini dei Paesi a risorse limitate. Grandi speranze giungono anche dalla possibilità di avere, in futuro, co-formulazioni di più molecole in un solo prodotto farmaceutico, più facile da assumere anche per i pazienti più piccoli. Nel frattempo, la battaglia per la disponibilità di farmaci pediatrici continua incessantemente. Alla fine del 2009, un milione e 27 mila bambini necessitano di trattamento terapeutico. Nonostante i progressi registrati negli ultimi anni, nei Paesi a basso o medio reddito, solo il 29% l’ha effettivamente ricevuto.

Giulio Maria Corbelli
Ufficio stampa di Anlaids (Associazione nazionale lotta AIDS)

Lucia Palmisano
Consigliere scientifico Anlaids

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