Per non morire di rabbia

Si colgono dappertutto forti segnali di prevaricazione, scoramento. A tutto questo si aggiunga lo stato di impotenza a cui sono ridotti i nostri Enti locali, ormai totalmente impoveriti ed incapaci di articolare politiche sociali che vadano al di là dell’assistenza e della beneficenza. Si sta tornando, in forma sempre più evidente, verso una sorta di neo-assistenzialismo.

Chi ha una certa età, ed ha partecipato a molte stagioni di sogni e speranze, di lavoro sulla frontiera e costruzione di pratiche sociali per cercare di provare a fornire risposte (magari grezze, comunque professionali, sicuramente appassionate) su ciò che ha visto passare sotto i propri occhi, quasi come in un film, vive questo nostro tempo in forma davvero dissonante. Analogamente, chi ha affrontato le diverse problematiche sociali, differenti, anche se intrinsecamente equipollenti, come la disoccupazione, il disagio giovanile, le dipendenze, la malattia mentale, l’aids, le migrazioni, la tratta degli esseri umani, i senza dimora, la marginalità urbana, la povertà materiale e post-materiale. Per un verso, sembra davvero essere arrivati al capolinea dei sogni, delle speranze, dello stesso provare a costruire pratiche sociali. Si colgono dappertutto forti segnali di prevaricazione, scoramento, impotenza, con la grande tentazione, ogni giorno più alta, di lasciar perdere tutto, chiudere le nostre unità di strada, le nostre case di accoglienza, le nostre cooperative sociali. Dire basta, abbiamo scherzato, siamo in burn-out, la complessità è più forte di noi.

Ci arrendiamo. Del resto, la riduzione vergognosa del Fondo Sociale nazionale sulle politiche sociali (ridotto di più della metà rispetto al precedente Governo Prodi), la fine ormai prossima della Cooperazione Internazionale (i cui fondi sono davvero ridotti al lumicino), i drastici tagli all’educazione (vero e proprio spazio di costruzione del futuro dei nostri ragazzi, ambito davvero unico per la formazione di cittadini adulti e solidali) ci danno la misura di quanto poco contino, agli occhi di chi governa, le nostre vite, le parole (e le pratiche) che abbiamo sempre creduto fossero la bussola del nostro agire sociale: il diritto di cittadinanza, la solidarietà, l’accoglienza, la mediazione sociale… A tutto questo si aggiunga lo stato di impotenza a cui sono ridotti i nostri Enti locali, ormai totalmente impoveriti ed incapaci di articolare politiche sociali che vadano al di là dell’assistenza e della beneficenza. Se vogliamo aggiungere un’ultima goccia di angoscia a quanto sopra rappresentato, consideriamo che le politiche sociali dell’Unione Europea sono davvero alla frutta: mancanza di chiarezza e capacità impositiva sugli Stati membri in relazione a politiche cruciali nell’Unione (occupazione, migrazione, povertà, tratta degli esseri umani, ecc.) e mancanza di programmi comunitari in grado di fungere da volano per la costruzione di politiche sociali di forte complessità (relativamente a migrazioni, povertà metropolitane, devianze urbane…).

Dopo una fase di allargamento, l’Unione Europea necessitava di strumenti molto più incisivi del sempre più blando Fondo Sociale Europeo (ormai inincidente nei Paesi della vecchia Europa e, comunque, non in grado di far fronte alla grande crisi economica e sociale nella cui spirale i gruppi deboli e marginali ne fanno le maggiori spese) e dell’inafferrabile, per gli interventi sulle politiche sociali, Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (sempre più coinvolto nelle grandi progettualità infrastrutturali, di assetto urbano e della società dell’informazione). Possiamo dire, sapendo di rischiare l’elementare banalità, che, dopo i fantastici anni ’70, in cui credevamo ci fosse un Welfare State in grado di garantire i più deboli e dopo le sperimentazioni del Welfare Mix (prove tecniche tra pubblico e privato nell’attenzione, a volte disattesa, ma comunque negoziata, alla sussidiarietà orizzontale e verticale, magari circolare) ci troviamo oggi impantanati in una sorta di Welfare Market, in cui, sempre di più, chi ha mezzi e risorse vive e sopravvive (e dunque compra servizi essenziali), chi non le ha soccombe (ed esce dal circuito dei fruitori dei servizi, senza che questo crei alcun problema all’opinione pubblica). Il rischio sempre maggiore che si coglie è che si stia tornando, in forma sempre più evidente, verso una sorta di neo-assistenzialismo (contributi economici, vouchers, buoni-mensa…) che fanno arretrare fortemente quanto auspicato nella legge-quadro sulle politiche sociali (L. 328/2000): capacità di strutturare interventi di progettualità territoriale, individuazione delle strategie di sviluppo sociale nel contesto locale e concetto di intervento sociale quale elemento trainante delle politiche di sviluppo locale, dove le persone che stanno bene (grazie agli interventi di inclusione sociale) possono essere protagoniste della costruzione della comunità locale nella sua integralità. Eppure, su tutto ciò grava un grande silenzio. Davanti allo smantellamento dello Stato Sociale, alla pianificazione quasi scientifica di un sistema di intolleranza sempre più diffusa, alla forte messa in crisi delle parole su cui tanti di noi hanno costruito i sogni (diritto, legalità, giustizia, solidarietà, tolleranza, convivialità), non si resta sgomenti: tutto viene accettato con un fatalismo incredibile. Si pianifica come normale l’assurdo e l’insensato.

Vincenzo Castelli
Filosofo e teologo, esperto di politica sociale nazionale ed internazionale,
presidente dell’associazione On The Road

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