Localismo e globalizzazione

La causa della crisi economica viene attribuita alla globalizzazione. Ad essa si contrappone il federalismo, interpretato, si diceva, come sistema istituzionale di protezione, confine, chiusura. Gli altri, chiunque essi siano e osino varcare la soglia di territori sempre più ristretti, diventano i nemici.

È difficile cogliere gli aspetti più sottili e pregnanti della crisi politico-istituzionale italiana quando ci si trova direttamente coinvolti in attività gestionali ad essa connesse. Se però ci si esercita a diventare osservatori, ad uscire dal ruolo che ci si siamo costruiti o ci è stato affidato, l’orizzonte lentamente schiarisce. Un’immersione consapevole nella vita di ogni giorno ci fa incontrare costantemente persone che “non ne possono più”. È un ritornello così abusato da lasciarci indifferenti. Madri di famiglia soffocate dai troppi ruoli, genitori angosciati per le abitudini dei loro figli, padri che temono di non essere all’altezza del proprio compito. Ancora, coppie che scoppiano, suicidi ed omicidi che aumentano, malattie depressive e degenerative in crescita, anziani abbandonati e sull’orlo della povertà. Violenza fisica e psicologica che, insieme ad arroganza e prepotenza, divengono strumento di affermazione, dominio, persuasione. Una società in cui si gioca costantemente ai ruoli di vittima e carnefice. Un’umanità profondamente sofferente, condannata a correre, a non guardarsi dentro, ad insultare e sbeffeggiare chiunque pur di non scoprire la propria debolezza. Una debolezza profondamente umana, “troppo umana”, diceva Nietzsche. Una ferita profonda, sanguinante, che il ricco Occidente in decadenza non riesce più ad arginare. L’economia stagna. Saltano i posti di lavoro, tutto è precario, aleatorio, non degno di un progetto di vita e di società. Senza riferimenti, ogni cosa diviene possibile. I valori etici e morali lasciano il posto alla giungla, all’autoaffermazione sconsiderata conseguibile a qualsiasi prezzo e calpestando ogni riferimento precedente. A nulla valgono gli insegnamenti della storia, della filosofia, della sociologia e delle scienze umane. Perfino le leggi scientifiche ed il progresso tecnologico vengono sacrificati a favore di questa folle corsa verso il potere, i soldi, l’esibizione della propria forza. Accade così che la scuola, l’istruzione, la ricerca, la cultura, non rivestano più alcun valore.

Da troppi anni ormai il nostro Paese taglia i fondi per incentivare e mantenere decorosamente questi settori. Cervelli in fuga, insegnanti sull’orlo di una crisi di nervi. Precariato, stipendi da fame, nessun aggiornamento o formazione, nonostante gli indirizzi delle direttive europee li prescrivano. Eppure, per chi vuole informarsi, si possono facilmente reperire autorevoli analisi antropologiche e sociologiche, studi approfonditi, libri bianchi, che analizzano il momento che stiamo vivendo e indicano strade alternative. Ma dove può dirigersi una società che non investe in istruzione, ricerca, cultura? Un Paese che da vent’anni ormai propina spettacoli televisivi demenziali? Un luogo in cui la democrazia langue, intellettuali e giornalisti con storia e professionalità non riescono a far cartello e lasciano il posto ad opinionisti lautamente prezzolati che alimentano ed amplificano il sistema? Se ci guardiamo indietro, ci accorgiamo che questa fase di involuzione sembra essere iniziata in un periodo preciso. La fine della cosiddetta prima Repubblica e l’inizio della seconda. Tangentopoli liquida buona parte della classe dirigente di allora e apre uno spazio a nuove forze politiche. Sono gli anni della caduta del muro di Berlino, dell’apertura di nuovi mercati, dell’allargamento dell’Europa, della globalizzazione. Il mondo a noi precluso improvvisamente si apre. La nuova classe politica ha pertanto, davanti a sé, diverse strade da percorrere. Accanto al rinnovamento della dirigenza e all’ingresso della cosiddetta società civile, può scegliere tra la fiducia nei valori e nella capacità di un Paese storicamente dotato di talenti in ogni campo e …la paura. Paura di aprirsi al mondo senza confini, ai mercati, ad un progresso globale, a porzioni di umanità a cui poter offrire gli strumenti per elevarsi dalle loro misere condizioni sociali. Inizialmente, sull’onda dell’entusiasmo, essa sembra abbracciare la prima ipotesi e voler cambiare contenuti, metodi, linguaggio della politica. Si vuole un’Italia moderna, federale, tecnologicamente avanzata, con un’economia forte in grado di coniugare il piglio imprenditoriale con la garanzia di uno stato sociale moderno.

Lentamente, però, l’inesperienza, la non conoscenza della macchina pubblica e le sue incrostazioni soffocano l’esuberanza. L’esercizio del potere svuota gli ideali di cambiamento. I progetti di riforma rimangono la copertina di un libro con le pagine bianche. Il piglio imprenditoriale si ripiega su se stesso conservando solo forza ed arroganza. Il nuovo modello di stato federale a cui aspirare diviene un’occasione perversa per costringere ancor di più Enti locali e territori decentrati a riversare maggiori balzelli al centro. A Roma, una nuova classe dirigente, ormai saldamente in sella, gestisce il potere senza scrupoli e, grazie all’attuale legge elettorale, senza neppure dover render conto al territorio. Un ritorno gattopardesco. Un livello più basso rispetto al precedente dove, nonostante la corruzione e gli sperperi, permaneva ancora un’attenzione autentica al sociale, condotta da una classe dirigente che arrivava dal dopoguerra ed era almeno animata dalla volontà di far crescere culturalmente il Paese. Ogni cosa in natura ha un duplice aspetto. Anche il federalismo non sfugge a questa regola. E così, anziché tendere al suo significato più evoluto e innovatore, pare oggi voler accentuare il suo lato oscuro. Va assumendo i contorni di un localismo esasperato, inciampa nel provincialismo più ottuso, si erge a difensore dell’identità. Ma di quale identità? Una presunta identità cucita con fatica addosso ad aree del Paese che hanno un sistema economico simile, ma non certo una storia, una lingua, delle tradizioni. Un’identità imposta con forza dall’alto, violenta, esclusiva e non accogliente. Dispensata come certezza inviolabile, con toni arroganti e declamatori. Reiterata ripetutamente attraverso i mass media e lentamente arricchita da contributi del mondo dello spettacolo, del cinema, della musica, dell’editoria. Un argomento su cui i proponenti rifiutano il confronto e scivolano lentamente in un pericoloso razzismo. La causa della crisi economica viene attribuita alla globalizzazione. Ad essa si contrappone il federalismo, interpretato, si diceva, come sistema istituzionale di protezione, confine, chiusura.Gli altri, chiunque essi siano e osino varcare la soglia di territori sempre più ristretti, diventano i nemici. Nemici di cui una società paurosa, ripiegata su se stessa, ha necessità. Sono la “trave nell’occhio”, il capro espiatorio per tirare avanti senza guardarsi dentro, forti di una comunicazione che diventa teatro, rappresentazione.

In questo clima da tardo impero, chi ragiona, come succede ovunque la democrazia si trovi in difficoltà, viene deriso, messo al bando, magari coperto da scandali creati ad arte. I luoghi della politica si animano di persone accondiscendenti nei confronti di un’oligarchia sempre più ristretta che detiene il potere, servili, presuntuose e poco avezze al confronto. Un sistema patriarcale subdolo e feroce. “Il patriarcato moderno – scrive Claudio Naranjo in L’ego patriarcale- ci appare come un sistema oppressivo senza oppressori e come un autoritarismo senza le potenti autorità del passato… Il mondo soffre, e soffre parecchio ultimamente, per quanto nella sua alienazione lo neghi o lo nasconda tra le promesse della tecnologia e dell’educazione e le distrazioni della televisione e dell’alcool… Oggi la propaganda ideologica dell’autoritarismo si è fatta talmente raffinata e onnipresente che non percepiamo più la mancanza di libertà”. Ma è proprio la libertà che manca. Capita, esponendo le proprie idee in luogo pubblico, o persino tra amici, di essere genericamente definiti “comunisti” se il parere espresso è diverso da quello della presunta maggioranza. Un clima di odio, invidia, disprezzo, competizione e contrapposizione ha ormai permeato la quotidianità di ciascuno di noi. Entra prepotentemente dal video, s’insinua nella mente e nel comportamento dei più. Questa è assenza di libertà. È carenza di democrazia. È soffocamento e banalizzazione dei diritti costituzionali. Eppure, nonostante la situazione appaia sconfortante, nel mondo occidentale sta accadendo qualcosa di nuovo. Le recenti elezioni presidenziali americane e le prime mosse del governo Obama lasciano intuire che c’è ancora spazio per l’etica, l’equità sociale, l’ambiente, l’istruzione, la cultura, il servizio pubblico. Dopo anni di astensionismo, un’ampia percentuale di elettori ha ripreso a votare, fornendo un esempio reale di democrazia partecipativa, facilitata ad esprimersi – come già diceva Toqueville – grazie al federalismo, che consente anche alle rappresentanze dei più piccoli territori americani di portare il proprio contributo. Obama ha saputo intercettare fasce elettorali importanti attraverso il contatto con centinaia di associazioni, gruppi, comitati spontanei di cittadini che hanno scelto, indipendentemente dallo schieramento, il candidato più credibile e più disposto ad accogliere nel proprio programma i messaggi e le richieste “dal basso”. I nuovi media, e internet in particolare, hanno favorito questo processo, accompagnato da una sobrietà e un’autenticità nella trasmissione dei messaggi di gran lunga diversa da quella messa in scena sul palcoscenico nazionale. Sotto la cenere e le macerie di una politica fortemente delegittimata, anche l’Italia sta preparandosi ad interpretare una nuova fase di crescita e sviluppo. Ad un buon osservatore non può sfuggire la voglia di buona politica che serpeggia nel Paese. Tante di quelle persone che “non ne possono più”, hanno, in verità, il desiderio di convertire il loro pessimismo in messaggi positivi. I comitati spontanei che nascono per la difesa dei beni pubblici come l’acqua, per esempio, animati da cittadini che non aderiscono agli attuali schieramenti partitici, attendono di capire quale, tra questi, sarà in grado d’interpretare una nuova, positiva, pagina dello sviluppo nazionale e quale sarà in grado di proporre loro una classe dirigente con pochi protagonismi, tanta sobrietà, capacità di lavorare in squadra, tecnicamente ed umanamente all’altezza del compito ad essa affidato.

Alessandra Guerra
Giornalista e politica italiana

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