La politica che si potrebbe fare

La crisi più lunga degli ultimi cent’anni si sta mangiando risparmi e reddito, e tutte le cambiali del benessere arrivano piano piano in scadenza. C’è chi lo dice a bassa voce, quasi vergognandosi, chi con la voce che si spezza dalla paura e chi lo grida con rabbia: «Ho famiglia e il mutuo della casa ancora da pagare».

iaconaPer gli inquilini, proprio quelli più fragili, che dovrebbero essere protetti e sostenuti, è cominciata la discesa all’inferno, che in Italia di solito ha un unico esito: prima o poi i nuovi proprietari li cacceranno via, o perché non sono in grado di pagare gli affitti che il mercato privato chiede o perché le case servono a quelli che le hanno comprate. E fuori li aspetta un mercato folle, dove il canone di solito equivale a un intero stipendio. Si parte dai 1300-1400 euro al mese per 40 metri quadri a piazza Bologna e dintorni, un quartiere residenziale a due passi da Porta Pia e ben collegato a metropolitana, tram e autobus, e si arriva ai 750 al mese nel quartiere di Tor Di Nona, oltre il raccordo anulare nell’estrema periferia est della città – dove ci sono le case, ma mancano le strade – per un appartamento di 70 metri quadri dove il citofono non funziona, l’ascensore neanche perché devono ancora finire i lavori dell’impianto elettrico, e quando entri in casa scopri che l’acqua che esce dal rubinetto non è potabile perché viene dal pozzo, che il gas non c’è, quindi bombole per cucinare e niente riscaldamento. E anche il contratto non c’è perché il proprietario i 750 euro li vuole in nero. Ecco cosa succede quando si «rinuncia a governare» e si lascia tutto in mano al mercato e a chi ci specula. Succede che la città si trasforma, palazzo per palazzo, quartiere per quartiere, dismissione su dismissione, e diventa inaccessibile, fuori dalla portata di chi la abita, diventa un città chiusa. «Io abitavo a pochi chilometri da qui. E pagavo 500 euro al mese di affitto» ci racconta Emanuele, un giovane elettricista romano.

Lo incontriamo nell’appartamento che ha occupato due anni fa con la moglie Daniela e dove vive con i due figli: Lorenzo, il maggiore, e Nicole, nata dopo l’occupazione. «Quando è scaduto il contratto, il proprietario è venuto da me e mi ha chiesto 800 euro al mese. Mi ha detto che i prezzi in zona erano cresciuti, che anzi il prezzo giusto sarebbe stato di 1000 euro, che insomma era un favore che mi faceva se me la dava a 800. Io e Daniela abbiamo fatto due conti ed era impossibile. Io ho un contratto a tempo indeterminato ma guadagno 1200 euro al mese. Come facevo a dargliene 800?» E poi aggiunge: «Io non so come andrà a finire, se ci cacceranno via o se riusciremo a trovare un accordo con il proprietario. Ma una cosa è certa: senza questa occupazione lei oggi non ci sarebbe» e indica con la mano la piccola Nicole, che ancora mezza addormentata si lascia coccolare, in braccio alla madre. «Se veramente avessi dovuto dare 800 euro al mese al mio vecchio proprietario, la gravidanza non l’avremmo portata a termine, questo è sicuro.» Oltre a Nicole, in due anni nello stabile sono nati altri quattordici bambini, tutti figli della stessa occupazione. Quanto è diventata importante nel bilancio delle famiglie italiane la spesa per la casa. Sono bastati due anni di occupazione, due anni senza avere sul collo gli affitti che prosciugano più del 50 per cento dello stipendio, e le coppie hanno ripreso a fare figli. Di coppie come Emanuele e Daniela se ne trovano tantissime nell’ambito delle occupazioni organizzate a Roma dai movimenti per il diritto alla casa: tutta gente che lavora, ma non guadagna abbastanza per pagare i prezzi imposti dal libero mercato. E a mano a mano che la crisi avanza, mentre si perdono ogni anno decine di migliaia di posti di lavoro e milioni di italiani sono in cassa integrazione, con lo stipendio decurtato del 30-40 per cento, questa fascia di persone, questa povertà da reddito basso è destinata ad aumentare, ogni mese che passa.

Si potrebbe obiettare che l’80 per cento degli italiani sono proprietari di casa perciò l’emergenza abitativa riguarda ancora una minoranza del Paese e non richiede quindi tutte queste preoccupazioni, questi investimenti pubblici. Ma la realtà è che moltissimi proprietari di casa per diventarlo si sono dovuti indebitare pesantemente con le banche per quindici, venti, trent’anni, e al momento non stanno molto meglio dei poveri affittuari. E poi resta il problema dei figli, che prima o poi dovranno uscire fuori di casa: se abiti a Terni e tuo figlio deve andare all’Università a Roma, gli dovrai prendere in affitto un appartamento; e quando finalmente avrà un lavoro, dovrà trovare anche lui una casa dove cominciare una vita e metter su famiglia. Oppure si pensa che gli italiani, già strozzati dalle rate del mutuo, che si aggiungono a quelle per la macchina, il motorino, il televisore al plasma e il divano del salotto, debbano comprare un appartamento a testa per tutti i singoli componenti della famiglia? E con quali soldi, con quali stipendi gli italiani dovrebbero continuare a comprare macchine, motorini, televisori, divani e appartamenti? Guardate, questo che vi sto descrivendo è precisamente il meccanismo che ha portato all’esplosione della bolla immobiliare negli Stati Uniti. Si è cominciato con gli Americani che non riuscivano più a pagare le rate del mutuo della casa, e dopo tre mesi già chiudevano le prime fabbriche in tutto il mondo. E ancora continuano a chiudere. Di recente sono stato a Reggio Emilia per constatare gli effetti della crisi su una delle aree più importanti della nostra industria manifatturiera e ho scoperto che in tutta la provincia, su 240.000 persone in età da lavoro, ben 60.000 sono in sofferenza, parcheggiate da due anni in cassa integrazione ordinaria, straordinaria, nelle liste di mobilità o in quelle di disoccupazione.

Sessantamila persone che stanno vivendo con 700-800 euro al mese. Si può dire che a Reggio Emilia e provincia non c’è persona che non abbia un conoscente o un parente in difficoltà sul posto di lavoro. Poi ci sono quelli che il lavoro l’hanno perso subito e senza aver diritto a niente, neanche a un piccolo sussidio: sono i lavoratori con i contratti a termine e interinali che una volta scaduti non sono stati rinnovati, almeno diecimila in tutta la provincia di Reggio Emilia. Da queste parti, un’emorragia di posti di lavoro così non si era mai vista. Insieme a Valerio Bondi, segretario provinciale della Fiom, attraversiamo le decine di aree industriali che si estendono per tutta la provincia di Reggio Emilia, fino al Po. Ce n’è quasi una per ogni paese e oggi tutte lavorano a singhiozzo: le strade sono vuote, passano pochi camion e c’è un silenzio che mette paura. Alla Sachmann si producono torni a regolazione elettronica di ogni dimensione e per qualsiasi tipo di lavorazione. Fino al mese prima della crisi qui si lavorava a più non posso al punto che la proprietà aveva chiesto al sindacato il terzo turno. Appena la crisi finanziaria è diventata crisi di produzione e di consumo e sono cominciati a calare del 40-60 per cento gli ordini dell’industria manifatturiera mondiale, l’azienda è entrata in crisi ed è cominciata la cassa integrazione, prima ordinaria e poi straordinaria. La fabbrica è enorme e si sviluppa per centinaia di metri sotto un’enorme volta da cui pendono i carrelli elevatori che servono a spostare da un tavolo di lavorazione all’altro i pezzi dei torni che vanno lavorati e montati. Dovrebbero essere in settanta a lavorare e invece sono in nove, e sono spaventati. «Perché non finisce mai, sono due anni già che andiamo avanti così, con mezzo stipendio» mi dice l’operaio più anziano del gruppo, che sta lavorando attorno a un enorme tornio a numerazione elettronica, l’unica commessa che hanno da terminare. Qui dentro, come in tante fabbriche metalmeccaniche della provincia, il sindacato ha ottenuto un accordo che tiene ancora tutti gli operai legati alla sorte della fabbrica, ma è chiaro che se non arriva la ripresa, se non aumentano gli ordini, si rischia la mobilità e alla fine la disoccupazione.

«La gente è spaventata perché non siamo a Napoli, dove sono abituati; qui non si era mai smesso di crescere, qui il problema non è mai stato che il lavoro mancava, casomai l’opposto: ce n’era troppo di lavoro, e infatti gli operai bisognava prenderli da fuori» mi dice Valerio, mentre lasciamo la zona industriale e attraversiamo i paesi della Bassa, così curati che sembra di stare in Svizzera, le facciate delle case pulite, fiori e arredo urbano dappertutto, la farmacia comunale, il centro per anziani, la piscina comunale, il teatro e il palazzo del Municipio tirato a lucido, con la bandiera italiana e quella dell’Europa che sventolano l’una di fianco all’altra. E poi le macchine, Audi, Bmw, Passat, Mercedes, Alfa Romeo: quante macchine da 30.000 euro in su incontriamo per le strade e i paesi di questo enorme distretto industriale, quanto benessere diffuso il sabato sera nei bar del centro di Reggio Emilia, affollato dai figli con le scarpe giuste, i pantaloni giusti, la camicia giusta, e ancora, moto, macchine sportive che li aspettano fuori dai ristoranti, fuori dalle discoteche. Quanta ricchezza vera o «a rate» in questa provincia si è costruita sulla piena occupazione, sulla crescita industriale e sugli stipendi sicuri che arrivavano in ogni casa. Ma la crisi più lunga degli ultimi cent’anni si sta mangiando risparmi e reddito, e tutte le cambiali del benessere arrivano piano piano in scadenza. «Abbiamo ancora il mutuo della casa da pagare, come facciamo?» È questo il leitmotiv che rimbalza da una fabbrica all’altra, da un condominio occupato all’altro, da tutti i tetti, le ciminiere e le gru d’Italia dove sono salite le decine di migliaia di persone che hanno perso o rischiano di perdere il posto di lavoro. C’è chi lo dice a bassa voce, quasi vergognandosi, chi con la voce che si spezza dalla paura e chi lo grida con rabbia: «Ho famiglia e il mutuo della casa ancora da pagare». Adesso si capisce bene quanto grave e poco lungimirante sia stato il non aver investito per tempo nell’edilizia popolare e convenzionata, l’aver lasciato che le città e i paesi crescessero solo attorno a un’unica variabile, quella del prezzo stabilito dal mercato privato, dai costruttori e dagli immobiliaristi. Oggi avremmo avuto uno strumento in più per alleviare, e molto, il carico economico delle famiglie: avremmo potuto offrire decine di migliaia di case a prezzo giusto a chi sta in mezzo a una strada, e nel contempo avremmo calmierato il mercato privato.

Riccardo Iacona
Giornalista Rai autore e conduttore del programma “Presadiretta”

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